Il voto? Per il maestro Manzi schedava e bollava. Quando si rifiutò di compilare le schede di valutazione dei suoi studenti. INTERVISTA al professore Roberto Farnè

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Cento anni fa nasceva il Maestro Manzi, una delle persone che hanno lasciato un segno nell’educazione italiana. Ne abbiamo parlato con il Professor Roberto Farnè, Già professore ordinario in Didattica generale, è ora docente a contratto per l’insegnamento di “Pedagogia del gioco e dello sport” nel corso di laurea in Scienze motorie, presso il dipartimento di Scienze per la Qualità della Vita.

Professor Farnè, a novembre sono stati celebrati i 100 anni dalla nascita del Maestro Alberto Manzi. Con lei vorrei iniziare proprio dal capire chi era il Maestro Manzi anche alla luce della pubblicazione di una seconda edizione ampliata del suo libro intitolato “Alberto Manzi l’avventura di un maestro”.

Alberto Manzi era semplicemente, come lui amava definirsi, un maestro elementare, perché questo è il lavoro che lui ha fatto per 35 anni nella scuola elementare “Fratelli Bandiera” a Roma. Anche se il suo nome è diventato famoso soprattutto per la sua esperienza televisiva nel programma “Non è mai troppo tardi” che dal 1960 al 1968 ha insegnato a leggere e scrivere agli adulti analfabeti in Italia, che erano ancora oltre 4 milioni. Devo dire che quel programma televisivo, che lo ha reso famoso, è stato uno dei più importanti esperimenti pedagogici non solo italiani, ma a livello internazionale, tanto è vero che nel 1965 ricevette un importante riconoscimento dall’UNESCO come miglior programma delle televisioni educative nel mondo per la lotta all’analfabetismo.

Il pregio di quel programma era legato alla sua straordinaria capacità comunicativa, al suo stile, oggi diremmo che bucava lo schermo, alla tecnica che lui aveva inventato, cioè di accompagnare le sue parole a dei disegni che tenevano viva l’attenzione del pubblico. Poi, soprattutto come lui stesso diceva, il successo di questo progetto derivava dal fatto di avere previsto insieme al programma televisivo dei punti di ascolto televisivi sparsi per l’Italia, che erano oltre 2000, dove le persone si radunavano per guardare la televisione e dove c’erano degli insegnanti, oggi li definiremmo dei tutor, che aiutavano le persone a consolidare le conoscenze, a fare gli esercizi, eccetera.

Nell’intervista che gli feci e che ho riportato nel mio libro, Alberto Manzi si è definito un pupazzo televisivo, nel senso che lui era quello che doveva tenere viva l’attenzione, quello che doveva sollecitare le persone all’interesse, alla curiosità, alla voglia di imparare, perché poi il lavoro vero lo facevano gli altri, quei 2500 insegnanti che nei vari punti di ascolto poi lavoravano perché quelle nozioni venissero apprese. Noi abbiamo visto lui come presenza televisiva, ma non abbiamo visto tutto ciò che ci stava dietro. Quel programma ha avuto il successo che ha avuto pur senza nessuna ricerca, si presume, e si stima che grazie a questo programma circa un milione e mezzo di italiani abbiano preso poi la licenza elementare. Il successo è dovuto a questa straordinaria sinergia tra la RAI da una parte e il Ministero della Pubblica Istituzione dall’altra e Alberto Manzi era l’insegnante dello Stato distaccato alla RAI per fare quel programma che è andato avanti per nove anni.

Possiamo dire che il Mastro Manzi è stata una persona molto lungimirante, un talento che il programma televisivo “Non è mai troppo tardi” ha fatto conoscere a tutti gli italiani. Una fama che però gli ha portato anche diversi problemi.

Diversi problemi soprattutto nella scuola, nella sua attività didattica ordinaria, perché lui era un insegnante che seguiva un metodo, un approccio didattico tutto suo, ma non perché lui avesse inventato chissà che. Alberto Manzi era un insegnante colto, un insegnante scientificamente molto preparato e tutta la sua didattica era orientata su quelle che erano le pratiche dell’attivismo, quindi di quelle scienze dell’educazione che già dall’inizio dei primi decenni del novecento avevano raccolto tutti gli elementi innovativi dell’educazione, di un processo educativo scientificamente fondato. Facciamo riferimento al manifesto di Calais del 1921, poi rivisto e ampliato nel 1925, che ha rappresentato un momento che vide il meglio delle scienze dell’educazione internazionale a cui aderirono personaggi illustri come John Dewey, Maria Montessori, Ovide Decroly, Pierre Bovet, Edouard Claparèd, Jean Piaget e via dicendo. Quelle scienze dell’educazione erano il punto di riferimento di queste conoscenze che poi Manzi personalizzava sulla base di un suo stile, di una sua particolare creatività didattica, di un atteggiamento anche sul piano relazionale molto particolare.

Alberto Manzi non è stato, come qualcuno ritiene, un rivoluzionario, se fosse stato un rivoluzionario non avrebbe lavorato nella scuola dello Stato, lui era un insegnante della scuola statale come tanti insegnanti che però non rinunciava a quel principio sancito della Costituzione della libertà di insegnamento. Quindi lui esercitava la sua attività didattica avvalendosi di una libertà che era anche una libertà molto responsabile, tanto è vero che quando nel 1976 fu promulgata la legge che istituiva le schede di valutazione, lui si rifiutò di compilarle ritenendo che queste avrebbero recato danno ai bambini. Manzi aveva molti bambini difficili nella sua classe e riteneva che questo metodo li avrebbe in qualche modo schedati, bollati con una scheda che sarebbe rimasta anche dopo e pertanto si rifiutò di compilarle. Questo rifiuto ovviamente gli costò una denuncia per omissione di atti di ufficio, la sospensione dall’attività didattica e dello stipendio per due mesi.

Proprio la valutazione, come ci ha appena detto, è un aspetto sul quale Manzi ha avuto dei problemi, come non ricordare il timbro “Fa quel che può, quel che non può non fa.”. Ma qual era lo scopo della valutazione per Manzi?

Lo scopo della valutazione era quello di rendere i bambini consapevoli dei loro livelli di apprendimento. Lui riteneva che il voto fosse un giudizio che veniva dall’esterno e che il bambino subiva, per questo tutto il suo lavoro era legato al fatto che i bambini stessi dovevano rendersi conto ed essere consapevoli delle loro difficoltà, delle criticità di ciò che sapevano fare o che non sapevano fare. Questo era il livello più importante di valutazione, perché ovviamente spingeva i bambini a impegnarsi, quindi una sorta di responsabilizzazione. Manzi lavorava molto su questo concetto di responsabilizzazione e per questo lui assumeva anche molto il concetto di libertà, libertà e responsabilità andavano sempre di pari passo.

Lui conosceva molto bene il metodo scout e lo utilizzava, infatti nella sua classe i bambini erano organizzati in gruppi. Fu proprio lui a dirmelo nella nostra intervista quando affermò di avere provato ad utilizzare alcuni aspetti del metodo scout per cambiare un po’ il modo di fare scuola, e i suoi bambini erano divisi in sestiglie per gruppi che avevano all’interno bambini con capacità diverse, dove la consegna più importante era quella dell’aiuto reciproco, ma anche della competizione gioiosa, una competizione a raggiungere certi obiettivi, a conquistare certe conoscenze e così via. Parliamo di una scuola molto attiva, di una scuola dove le esperienze erano alla base della costruzione delle conoscenze. Nel rapporto fra insegnamento e apprendimento per Alberto Manzi l’apprendimento era il fattore primario, l’insegnamento accompagnava l’apprendimento dei bambini, perché l’apprendimento è biologico, è naturale. Alberto Manzi diceva che se riusciva a mantenere viva nei bambini quella che lui chiamava tensione cognitiva, cioè la curiosità, la voglia di imparare, di scoprire, l’insegnamento spingeva i bambini a voler imparare, ma non è una cosa che cala dall’alto.

Un’ultima domanda. Alla luce di quello che ci siamo detti, qual è secondo lei l’insegnamento di Manzi che i docenti di oggi dovrebbero far proprio?

Certo non quello di essere come lui, perché lui era lui e ovviamente ogni insegnante ha un proprio stile, un proprio modo di essere nel contesto educativo e noi nella nostra scuola abbiamo anche ottimi insegnanti che fanno esperienze molto belle. L’insegnamento di Manzi, prima di tutto, è quello del non essere vittime, non sentirsi vittime della burocrazia. Ciò che Alberto Manzi non sopportava, e lì disubbidiva, era laddove la burocrazia diventava impositiva e limitativa rispetto alle sue attività, in quel caso lui disobbediva, ma disobbediva responsabilmente, assumendosi le responsabilità di quello che faceva.

Non gli è mai successo niente, nessuno dei suoi bambini ha avuto incidenti o problemi vari e lui aveva coraggio. Se dovessi dire oggi qual è un grande messaggio che Alberto Manzi manda agli insegnanti è quello di avere il coraggio di praticare un’educazione secondo quelli che sono gli orientamenti scientifici che le scienze dell’educazione danno, perché questo era. Alberto Manzi non era velleitario, non era un insegnante che si lasciava andare a cose arbitrarie, anarchiche o di una pedagogia così campata per aria, assolutamente. Alberto Manzi aveva delle solide competenze scientifiche, tutto quello che lui faceva aveva motivazioni che stavano dentro alla ricerca didattica, alla pedagogia scientifica, alla psicologia cognitiva eccetera. Però tutto questo ovviamente va contro quello che è il modello scolastico tradizionale, cioè quello per cui l’insegnante insegna e i bambini imparano e quindi quella scuola trasmissiva che Alberto Manzi rifiutava in maniera totale.

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