Il prezzo dell’estrema semplificazione digitale: un appello urgente contro l’impoverimento cognitivo. Lettera
Inviata da Nicola Emmanuel Iadarola – L’uso intensivo degli smartphone ha ridisegnato i contorni della mente umana, trasformando profondamente il modo in cui le nuove generazioni affrontano attività didattiche e processi cognitivi di base. Come docente, sospeso tra due epoche – con un piede saldo nella tradizione scolastica e l’altro inevitabilmente calato nella modernità dei nativi digitali – osservo regolarmente un fenomeno allarmante: dinanzi a compiti semplici, come un calcolo mentale o una riflessione scritta, molti studenti sembrano improvvisamente paralizzati, prigionieri di un’ avvolgente esitazione.
Anche i più preparati, gli studiosi indefessi, i primi della classe sembrano smarrirsi davanti all’elementare. Questo fenomeno è sintomo di una trasformazione nelle giovani menti: un’erosione delle capacità cognitive fondamentali, accelerata dall’uso precoce e massivo degli smartphone. È un problema che, se non affrontato con urgenza, rischia di portare a un’atrofia del pensiero critico e creativo, lasciando spazio a una società dove l’intelligenza umana cede il passo all’automatismo tecnologico.
Non siamo di fronte a una sciocca ipotesi speculativa o ad un’impressione fugace, ma alla realtà palpabile di una mente che si affloscia, sconfitta da un’overdose digitale. Lo si vede nei volti perplessi degli studenti che faticano con le basi – il cuore della cultura che un tempo si assimilava quasi senza sforzo.
Il declino del calcolo mentale e della memoria
Pensiamo al calcolo mentale: un tempo abilità innata, oggi terreno accidentato per le giovani menti. Gli studenti di oggi mostrano un rallentamento nei processi cognitivi, con una memoria a lungo termine meno allenata e una crescente dipendenza dalle informazioni facilmente reperibili online, e una ridotta capacità di interiorizzare concetti fondamentali, come date storiche o formule matematiche.
Queste carenze compromettono il cosiddetto apprendimento significativo, obiettivo tanto ambito dai docenti che si dedicano con serietà alla professione. Il concetto di apprendimento significativo, introdotto da David Ausubel nel suo testo The Psychology of Meaningful Verbal Learning (1963), sottolinea proprio l’importanza di collegare nuove informazioni a strutture cognitive già consolidate, un processo oggi sempre più raro.
Durante una recente lezione di matematica, una mia alunna particolarmente brillante si è trovata in difficoltà con un’operazione elementare: “12 diviso 4”. Un esercizio che, qualche decennio fa, sarebbe stato risolto con la rapidità di un battito di ciglia, oggi richiede tempo e fatica. Non per mancanza di talento, ma per un cervello sempre più “spento” di fronte a sfide che richiedono l’attivazione autonoma del pensiero. Questo “stallo mentale” non è certo colpa dei ragazzi, ma dell’ambiente cognitivo in cui sono immersi.
Crescere con uno smartphone in mano significa avere sempre una risposta pronta a portata di clic, eliminando la necessità di esercitare capacità fondamentali. Non è difficile immaginare che, in un ipotetico blackout tecnologico globale, molti di loro non saprebbero come risolvere nemmeno le necessità basilari del pensiero pratico. Osservare situazioni del genere, tra studenti di 16-17 anni, un’età in cui ci si aspetterebbe rapidità e sicurezza, evidenzia un notevole distacco di competenze tra la generazione digitale e quella del “carta e penna”.
La scrittura a mano: una perdita silenziosa
Non è solo la matematica a essere coinvolta. Anche la scrittura è un terreno cruciale di declino. La perdita della scrittura manuale, sostituita da una digitazione sempre più frenetica e impersonale, rappresenta un altro tassello della decadenza cognitiva. Scrivere a mano non è solo un atto fisico, ma un processo complesso che coinvolge il cervello in modi che il semplice battere sulla tastiera non può replicare. Uno studio significativo condotto da Audrey van der Meer e Ruud van der Weel, neuroscienziati presso l’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia, pubblicato su Frontiers in Psychology (2020) dimostra che la pressione di una penna sul foglio, il movimento del polso, il tracciato di un carattere, attivano aree cerebrali profonde, stimolando memoria, attenzione e organizzazione del pensiero favorendo un apprendimento più profondo.
Questa connessione viscerale tra mente e mano non si ritrova nella scrittura digitale, dove le parole si compongono in modo quasi meccanico, e con un utilizzo sempre più scorretto ed improprio , prive di peso o spessore. Questo non implica un rifiuto della tecnologia, ma sottolinea la necessità di integrarla in modo consapevole, senza sacrificare quelle pratiche tradizionali che risultano essenziali per l’apprendimento e il pensiero critico.
Il silenzioso assassino dell’attenzione: la notifica
Gli smartphone non sono solo strumenti di delega cognitiva, ma veri e propri sabotatori dell’attenzione. Ogni notifica è una lama che taglia il flusso del pensiero, interrompendo un processo cognitivo che, una volta disperso, è difficile recuperare. Gloria Mark, docente all’Università della California, Irvine, nel suo libro “Attention Span: A Groundbreaking Way to Restore Focus and Balance in Your Life” (2023) analizza come una breve interruzione può compromettere la qualità di un compito e raddoppiare il tempo necessario per completarlo. È come se il nostro cervello venisse continuamente riavviato, incapace di progredire verso un risultato significativo.
Disoccupazione cognitiva: l’ombra lunga dell’intelligenza artificiale
Le conseguenze di questo impoverimento cognitivo travalicano i banchi di scuola, permeando anche il mercato del lavoro, dove le competenze richieste stanno evolvendo più rapidamente di quanto il sistema educativo riesca a preparare. Le aziende oggi cercano professionisti in grado di affrontare sfide complesse, sviluppare strategie innovative e adattarsi a situazioni non strutturate. Tuttavia, il declino delle capacità critiche e di problem-solving rischia di formare una generazione meno preparata ad affrontare queste richieste.
Secondo il World Economic Forum, il 50% dei lavoratori dovrà aggiornare le proprie competenze entro il 2025 per mantenere la competitività. Tra le competenze più richieste emergono il pensiero critico, la creatività e la resilienza. Tuttavia, aggiornare il pensiero richiede una base solida, e quella base sembra mancare sempre di più. Il paradosso di oggi è che, dieci anni fa, il mercato del lavoro era un mosaico di competenze umane, ma si cercava di usarle per domare la macchina. Oggi, con le macchine che ormai fanno da padrone, ci ritroviamo a cercare quelle stesse competenze umane che, però, rischiano di sfuggirci di mano.
E non abbiamo ancora fatto del tutto i conti con l’inserimento di tecnologie come l’intelligenza artificiale che potrebbe accentuare queste tendenze. Una ricerca pubblicata nel Journal of Cognitive Enhancement (2021) evidenzia come l’uso eccessivo della tecnologia riduca la memoria di lavoro, un componente essenziale per affrontare problemi complessi. Quando un dispositivo non fornisce una soluzione immediata, chi è abituato a delegare rischia di entrare in una spirale di ansia e confusione.
L’AI potrebbe, infatti, escludere dal mercato del lavoro coloro che non sono in grado di integrare la tecnologia con il pensiero umano, creando una forma di “disoccupazione cognitiva” che lascerà molti incapaci di reagire a situazioni non prevedibili. Di qui si aprono ipotesi di scenari lavorati “apocalittici”. Non si tratta solo della necessità di preservare la memoria e le capacità cognitive tradizionali, ma di preparare le giovani menti a una realtà che, seppur digitalizzata, ha bisogno di uomini che siano ancora capaci di pensare, riflettere e creare, senza perdere la loro autonomia intellettuale. Se gli smartphone hanno già ridisegnato il panorama educativo, con l’avvento dell’intelligenza artificiale la sfida sarà non solo quella di educare le menti, ma di assicurarci che esse continuino a essere in grado di pensare.
Ritorno alle radici: il pensiero critico come missione educativa
L’impatto della tecnologia sullo sviluppo cognitivo delle nuove generazioni è un tema che non possiamo più rimandare. È Necessario un appello a tutte le parti coinvolte. È il momento di richiamare in causa tutti gli attori del sistema educativo e sociale. La scuola deve stimolare una riflessione critica, integrando la tecnologia senza compromettere le capacità cognitive fondamentali. Genitori, docenti e studenti devono lavorare insieme per creare un equilibrio tra innovazione e apprendimento tradizionale, promuovendo attività che stimolino la memoria, il ragionamento autonomo e la curiosità intellettuale.
Per coltivare una generazione capace di affrontare il futuro con mente critica e creativa, dobbiamo ripensare il significato stesso di apprendere nell’era digitale. Immaginiamo percorsi educativi che uniscano il fascino della tradizione alla spinta dell’innovazione: laboratori di scrittura a mano che incontrano progetti di coding, esercizi di calcolo mentale affiancati a simulazioni immersive, letture profonde seguite da dibattiti su etica e tecnologia. Creiamo spazi dove la tecnologia non sia padrona, ma alleata delle capacità umane; luoghi in cui ogni studente possa riscoprire la gioia, quasi dimenticata, di un pensiero che si costruisce con fatica e si espande in autonomia.
È un invito, ma anche una sfida: trasformare le insidie in opportunità, coniugando strumenti vecchi e nuovi per forgiare menti davvero libere, resilienti, autenticamente umane. La scuola deve tornare a essere un tempio dell’apprendimento profondo, dove il pensiero critico è l’alimento quotidiano. E chi deve decidere cosa insegnare? Noi, che siamo in classe ogni giorno, osservando il disastro che abbiamo sotto gli occhi. La nostra missione è far rifiorire il pensiero. Ai docenti spetta il compito di riportare in aula attività che stimolino il pensiero critico, come il calcolo mentale, la scrittura a mano e la lettura di libri cartacei, ma anche di far riflettere insieme su come l’uomo sovra-digitalizzato stia diventando sempre più lento e inibito. Ai dirigenti scolastici spetta la responsabilità di mettere in campo politiche educative rigide e serie che pongano al centro l’esercizio dell’intelligenza e che sappiano sì integrare la tecnologia, ma in modo consapevole.
Famiglia, scuola e tecnologia: un triangolo da riequilibrare
E poi, c’è la casa. Il primo e più importante laboratorio dell’umanità. Ai genitori spetta un ruolo di timonieri: guidare i figli verso un rapporto sano e consapevole con la tecnologia. Non si tratta di demonizzare lo smartphone, ma di reimparare a vivere senza esserne prigionieri. Come? Con soluzioni tanto semplici quanto rivoluzionarie. Zone della casa dichiarate ‘libere da schermi’ – il tavolo da pranzo, la camera da letto, le serate in famiglia – diventano baluardi di un’umanità ritrovata, dove si parla, si ride, si ascolta. Le alternative non mancano: serate di giochi da tavolo, laboratori creativi, passeggiate sotto un cielo stellato che stimolino curiosità e connessione reale.
E per i più piccoli? Puzzle, libri, album da disegno, strumenti che, se ben proposti, possono accendere la fantasia proprio nei momenti in cui i pixel sembrano più seducenti. I principali attori di quetrsa missione sono proprio i genitori, è necessariamente urgente mettere un freno all’uso degli smartphone fin dalla prima infanzia, spingendo i bambini verso attività pratiche e manuali, che stimolino curiosità e creatività soprattutto la capacità di astrazione. Devono stimolare i ragazzi ed i bambini a riscoprire il gusto dell’apprendimento attivo, della riflessione indipendente e dell’allenamento mentale, riscoprendo il piacere di affrontare le difficoltà e le incertezze con le proprie forze, senza delegare.
Un atto d’amore verso il futuro
Tutto questo richiede una rivoluzione silenziosa: l’esempio. Un genitore che spegne il cellulare per aprire un libro o raccontare una storia è un manifesto vivente di ciò che significa scegliere la profondità sull’immediatezza. È un gesto che trasmette più di mille prediche. Perché il cambiamento non parte solo dalle regole, ma dalla bellezza che riusciamo a incarnare e condividere. Dopotutto, che cos’è l’educazione se non un atto d’amore verso il futuro?