“Il nostro futuro va a scuola alle 8 ogni giorno”. “Insegnare è un mestiere politico che spinge ad essere performanti, ma anche a prendersi del tempo per crescere”. INTERVISTA a Ivan Sciapeconi

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Ha presente un’arancia? E’ rossa, o meglio, sembra rossa. Ma non è rossa, il rosso è l’unico colore che l’arancia non ha. Riflette il rosso, certo, ma i veri colori li trattiene. Ebbene, conosciamo l’arancia per l’unico colore che non trattiene. E così facciamo con la scuola, con i nostri alunni, con i nostri bambini.

Ivan Sciapeconi, maestro di ruolo presso una scuola primaria di Modena, ha appena mandato in libreria il suo nuovo libro. E’ intitolato Il nome che diamo ai colori, Editore Piemme 214 pagg. E’ un romanzo struggente che narra una storia vera. Il libro è ispirato ai fatti che portarono alla chiusura, sei anni prima della legge Basaglia, del “manicomio dei bambini” di Casinalbo, una frazione di Formigine, in provincia di Modena, a due passi dalla Ferrari di Maranello e dalle sue piste di Fiorano. La sentenza giudiziaria che seguì le vicende narrate nel libro ha segnato la nascita dei diritti dei bambini come li conosciamo oggi e ha aperto la strada ai primi affidi e adozioni. Nella struttura di Casinalbo, come nelle altre presenti sul territorio nazionale, erano ospitati ragazzi provenienti da tutta Italia e accomunati dalla grande povertà: alcuni avevano un ritardo cognitivo, altri handicap invalidanti, altri ancora erano semplicemente orfani o non voluti.

Siamo dunque di fronte a una storia basata su fatti realmente accaduti. Il giovane sorvegliante – e poi maestro – Paolo Tortella, attraverso la sua azione e le sue proteste, ha consentito la liberazione di centinaia di ragazzi e ragazze dell’istituto. E’ la storia tragica che non ti aspetti, una storia che fa parte ormai della Storia, che come un fiume carsico svela di tanto in tanto segreti difficili da accettare, grazie all’opera di storici, di giornalisti, di scrittori come Sciapeconi, maestro apprezzato, e valido formatore con l’amore per la scrittura, già conosciuto al grande pubblico per il suo primo romanzo, “40 cappotti e un bottone” dedicato alla Shoah. “Siamo abituati a classificare la scuola come facciamo con i colori – dice Sciapeconi – Diamo il nome in modo arbitrario. A scuola tendiamo a classificare i bambini e la cosa curiosa che collega la scuola ai colori è che noi diamo il nome ai colori in base ai colori che riflettono, cioè che non hanno. Classifichiamo i bambini per le mancanze che hanno e non per tutte le loro caratteristiche”.

Così succede che “un bambino che sa fare tante cose ma che è autistico lo classifichiamo come autistico, o un iperattivo lo classifichiamo come tale”. Se andiamo un poco indietro nella Storia, si retrocede, anche nel linguaggio, nella terminologia, nelle classificazioni. In ossequio ancora una volta al nome che diamo ai colori, c’imbattiamo nella categoria dei bambini subnormali. Ivan Sciapeconi, si legge nella seconda di copertina – ed è vero – “affronta un’altra storia vera. Drammatica e inaspettatamente gioiosa, riportando alla luce le vite minute di uomini e donne che non hanno fatto la Grande Storia, ma hanno salvato chi non pensava di aver diritto alla salvezza”.

Corre l’anno 1969. Ettore è uno dei ragazzi rinchiusi a Villa Giardini, il Giardino nella finzione narrativa. Il ragazzo ha 16 anni. E’ ancora troppo giovane quando perde la mamma. Da lì a poco viene catalogato come subnormale. Ettore sopravvive alla violenza dei sorveglianti e del direttore grazie alla sua capacità di immaginare disegni e colori. Realtà parallele che lo aiutano ad affrontare le situazioni peggiori. E’ una fredda giornata d’inverno quando si presenta al Giardino un nuovo sorvegliante. E’ giovane, ha 19 anni. Agli occhi dei bambini rinchiusi nell’istituto il nuovo sorvegliante – nella vita vera si chiama Paolo Tortella, lo abbiamo incontrato nei giorni scorsi durante la presentazione del libro a Modena – si presenta uguale a tutti gli altri. Ettore lo segue con attenzione e ne osserva la progressiva presa di coscienza in merito ai violenti mezzi educativi utilizzati nell’istituto. Paolo in realtà è un insegnante, ed è stato assunto dal direttore per un caso fortuito, una coincidenza a cui saranno legate le sorti e la salvezza di tanti ospiti dell’Istituto. Il giovane insegnante arriva con una Cinquecento verde e tanta voglia di far bene, ma presto si trova ad assistere alla brutalità con la quale viene assicurata la disciplina. Letti di contenimento, celle di punizione, bastonate. Spesso i ragazzi più agitati venivano lasciati all’aperto, anche nelle giornate più fredde o di notte.

Al Giardino i vigilanti cambiano molto velocemente perché la maggioranza dei nuovi arrivati preferisce rinunciare all’incarico dopo solo poche settimane di lavoro. Chi resta viene di fatto selezionato in base alla ferocia e all’obbedienza che dimostra nei confronti del direttore della struttura. A differenza degli altri, Paolo Tortella non se ne va, rimane. Vuole fare qualcosa per i suoi ragazzi. Li vuole salvare. Insieme a un collega e a un giornalista riuscirà a dare rilievo nazionale alla storia di Villa Giardini e a suscitare l’interesse della magistratura.

Intanto il ragazzo subnormale decide di partecipare alle diverse iniziative organizzate dal sorvegliante che ormai si comporta da vero insegnante: una gita al fiume, una vendemmia, una squadra di calcio… Si forma così un gruppo solido di amicizie, una dimensione sconosciuta all’interno dell’istituto, che fa crescere un forte desiderio di vendetta e di fuga. Una notte, uno dei sorveglianti più violenti viene aggredito e malmenato dai ragazzi. Un passo falso. L’aggressione rischia di mettere in discussione il vero progetto segreto dell’insegnante: far chiudere il Giardino, coinvolgere la stampa, denunciare gli abusi che avvengono al suo interno. L’aggressione peraltro causerà una riposta altrettanto forte da parte del direttore dell’istituto. Alle punizioni di sempre – dormire legati con il nastro adesivo sulla bocca, la cella di isolamento – se ne aggiungono di nuove. Un ragazzo viene lasciato sul balcone, di notte. Il mattino seguente è ritrovato in fin di vita, poco dopo muore. E’ la svolta. Con una serie di espedienti, l’insegnante mette Ettore in contatto con un giornalista che avvia un’inchiesta. Nella vita reale si trattava di Nando Gavioli, che iniziò una lunga inchiesta su “l’Unità” a proposito delle condizioni di lavoro e di vita all’Istituto Villa Giardini di Casinalbo. Emersero così le disumanità con cui erano trattati gli ospiti: bambini e ragazzi “subnormali”, “caratteriali”, “diversi”. Grazie all’inchiesta di Gavioli Il Giardino sarà chiuso e i ragazzi affidati a famiglie di volontari.

Nel romanzo di Sciapeconi, Ettore è l’io narrante. E’ un uomo ormai adulto che racconta la propria vicenda in prima persona rivolgendosi direttamente all’insegnante che lo ha salvato. E’ un artista ormai affermato che si esprime tracciando linee e colori su fotografie in bianco e nero, esattamente come ha imparato a fare nella propria mente durante la reclusione nel Giardino.

Il nome che diamo ai colori è una storia di “demerito” e di “anormalità”. Il tema del “merito” scolastico e non solo, ma anche la più recente esaltazione del valore della “normalità” sono sempre più presenti nel discorso pubblico. Eppure c’è stato un tempo in cui la separazione tra ciò che è meritevole e ciò che non lo è, tra ciò che è ritenuto normale e ciò che viene classificato come devianza, ha prodotto mostri.

Il Giardino è stato uno di questi mostri e Il nome che diamo ai colori ce lo racconta attraverso lo sguardo di uno dei suoi giovani reclusi. Ettore sopravvive alla brutalità del Giardino – ci spiega l’autore del romanzo – grazie all’immaginazione: la sua capacità di vedere colori e disegni lo aiuta a costruire intorno a sé una realtà alternativa, forse l’unica reale, resa possibile dalla creatività. Il tema dei colori, che dà il titolo al romanzo, è ovviamente centrale. All’interno dell’istituto modenese, così come in tutte le strutture speciali nelle quali venivano reclusi i ragazzi svantaggiati, vigeva un saldo principio di “classificazione”. Le persone non venivano nominate in ordine alle proprie caratteristiche personali o alle proprie potenzialità, ma esclusivamente in base alle proprie mancanze misurate con il metro della “normalità”, al “merito”. Ed è esattamente quello che facciamo con i colori: attribuiamo a un oggetto il colore che vediamo, l’unico che viene riflesso dalla luce e che quindi, da un punto di vista fisico, semplicemente non ha: “Di un’arancia – dice Sciapeconi – ti arriva il rosso che riflette, ma non confonderlo con il suo colore vero. È solo quello che la sua superficie rugosa lascia rimbalzare. Gli altri li tiene per sé: rosso è l’unico colore che non ha. I tuoi occhi stupefatti pensano di conoscere un’arancia solo per quello che all’arancia manca”. Il nome che diamo ai colori è un romanzo sul valore dell’inclusione, della responsabilità individuale e della ribellione”.

Raggiungiamo l’autore a Cuneo, dove sta per ritirare il premio intitolato alla città e dedicato a giovani esordienti, in collegamento con un analogo premio francese che premia gli esordi letterari”

Maestro Ivan Sciapeconi, qual è il nome che diamo ai colori?

“Siamo abituati a classificare la scuola come facciamo con i colori. Diamo il nome in modo arbitrario. A scuola tendiamo a classificare i bambini, e la cosa curiosa che collega la scuola ai colori è che noi diamo il nome ai colori in base ai colori che riflettono, cioè che non hanno. Facciamo lo stesso con i bambini. Classifichiamo i bambini per le mancanze che hanno e non per tutte le loro caratteristiche. Un bambino che sa fare tante cose ma che è autistico lo classifichiamo come autistico, o un iperattivo lo classifichiamo come tale”.

Durante una presentazione del suo libro, alla presenza del sorvegliante e maestro, Paolo Tortella: Se tu sei un insegnante e vedi che tutti picchiano i bambini e tu sei l’unico che non lo fa, c’è una visione quasi rivoluzionaria, del mondo.

“In questa storia c’è un maestro che restituisce a quei ragazzi tutta la loro complessità. Nella storia vera anche. Questo fatto di considerare non solo le mancanze li salva, dà loro nuova speranza”

La speranza che non va sempre a braccetto con il merito

“È la sfida che ci vogliono proporre. Questa è una storia di quando nella scuola il merito e il demerito erano separati. I meritevoli andavano a scuola, i demeritevoli finivano negli istituti”.

Chi finiva negli istituti?

“Chi andava male a scuola, i portatori di handicap, le persone che non si adattavano al sistema scolastico. Il tratto comune era la povertà, l’ignoranza dei genitori. In quell’istituito arrivavano persone da tutta Italia e quindi tornare a discutere di merito senza parlare di equità si rischia di riproporre lo stesso modello”.

Eppure abbiamo un Ministero che si richiama al merito

“Valorizzare il merito è una cosa che non è giusta se allo stesso tempo non si dà un’opportunità, se non si dice che cosa, come gestire, cosa fare dei non meritevoli. Io stesso ho avuto, come tanti credo, un periodo non meritevole, come studente. Poi il percorso si è sistemato perché la scuola è stata inclusiva. Se la scuola si focalizza solo sul merito perderemo molte intelligenze in futuro. Avevo sbagliato il percorso di studi, avevo sbagliato indirizzo e dunque non ho dato il massimo. Poi ho recuperato grazie a un sistema basato sull’inclusione che mi ha dato un’opportunità. Per questo io lego il merito all’inclusione. Anche perché il merito è sempre contestuale: tu sei meritevole in un certo contesto che ti favorisce e puoi essere demeritevole per lo stesso motivo. Ad esempio, se sei alto due metri e dieci, oggi sei un campione di basket. Se invece tu lo fossi stato 100 anni fa, saresti stato un fenomeno da baraccone. Le persone più meritevoli dal punto di vista dell’economia mondiale hanno causato la crisi economica del 2008, ma quelle stesse persone sono state premiate con bonus di uscita milionari proprio perché ritenute meritevoli. Tuttavia noi sappiano che sul piano dell’interesse pubblico quelle persone non possono essere giudicate come meritevoli. Noi a scuola dobbiamo decidere quale merito premiare”

Quale merito premiare?

“Il merito sociocentrico. Che è l’opposto del merito egocentrico. Dovremmo formare delle persone che mettono al centro l’interesse collettivo. E quindi anche l’interesse delle persone che nascono senza dei talenti particolari. Che mettono al centro l’umanità”.

Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo. E’ una frase di Malala

“La storia positiva della scuola è fatta di insegnanti che fanno la differenza e molto spesso sono quelli che soffrono il clima complessivo, che si ribellano allo status quo. Quando noi pensiamo a Don Milani o al maestro Manzi abbiamo davanti insegnanti che hanno cambiato la storia della scuola e la storia delle persone che hanno incontrato”

L’insegnante Paolo ha salvato Ettore

“Sì è nel caso di Paolo, il protagonista ha rappresentato la salvezza per decine di migliaia di bambini e ragazzi perché grazie alla sua azione si è aperto il meccanismo degli affidi e delle adozioni”.

A scuola vede una situazione positiva sul piano dell’inclusione?

“Vedo l’affermazione di una gerarchia interna, data dall’autonomia: un preside, uno staff di di dirigenza, gli insegnanti. Paradossalmente questo rende più difficile il lavoro di critica e di riflessione”.

Si spieghi meglio

“Faccio un esempio: se una scuola nella sua autonomia decide di non investire nell’inclusione praticamente lo può fare come in tutti i sistemi gerarchici. Un altro dato negativo è che la competizione tra scuole in realtà prevede che ci siano delle scuole perdenti meno efficaci. Ma se quelle scuole sono meno efficaci, i bambini e i ragazzi che la frequentano risultano svantaggiati. Se si guardi la presenza di alunni stranieri o certificati nei diversi istituti, spesso non c’è una equa distribuzione tra licei e istituti tecnici e professionali ma anche tra zone diverse del territorio”.

Torniamo al suo romanzo. Che professore è stato Paolo?

“Lui aveva fatto le magistrali – era la fine degli anni ’60 – ed era ispirato da Don Milani. La lettura di Don Lorenzo lo aveva convinto. Si era ispirato alla didattica attiva”.

Quale messaggio dà alla scuola il suo libro?

“Il messaggio è che abbiamo una responsabilità individuale come insegnanti che va onorata ogni giorno. Una volta in Germania ho trovato un cartello che recitava: Il nostro futuro va a scuola alle 8 ogni giorno. Vuol dire che quando vai in classe al mattino devi sapere che il tuo lavoro avrà degli effetti importanti sul futuro delle persone. Il nostro è un mestiere profondamente etico”.

Lo sa che se si usa la parola vocazione, pur nobile, molti insegnanti si inalberano sui social?

“Non è il nostro lavoro a richiedere una vocazione, ma è la vita di tutti i giorni a imporre scelte etiche. Il lavoro degli insegnanti è un mestiere politico che richiede continue scelte tra una che premia solo i meritevoli e quella inclusiva. Tra la scelta di spingere i ragazzi a essere produttivi e performanti performance e quella di consentire loro di prendersi del tempo per crescere”.

Come nasce l’idea di scrivere un romanzo verità sulle tragiche e poco conosciute vicende di un istituto per subnormali?

“Questa storia mi è stata consegnata da una persona che si chiama Marco Cugusi e che per anni ha raccolto informazioni e materiali su quello che è successo a Villa Giardini. Dopo il successo del mio primo romanzo, “40 cappotti e un bottone”, Marco ha pensato che io potessi essere la persona giusta per raccontare la storia che aveva ricostruito con tanta attenzione.Per me è stata una folgorazione perché Il nome che diamo ai colori è una storia di ribellione e cura. Anzi, una storia di ribellione per la cura.Mi sembra che prendersi carico dei più fragili oggi sia quasi diventato un gesto eversivo.

Chi ha letto il libro dice di essere rimasto sconvolto dall’apprendere che la civilissima Modena possa aver convissuto quasi a sua insaputa con l’esistenza di una sorta di lager per bambini. Come ha reagito lei, che lavora da anni con i i piccoli alunni, a mano a mano che raccoglieva le informazioni sull’Istituto?

“In verità, realtà come Il Giardino erano diffuse su tutto il territorio nazionale. Si trattava di vere e proprie aziende che avevano il compito di istituzionalizzare quelli che al tempo venivano chiamati subnormali. Semmai, sarebbe da sottolineare il fatto che questa storia di ribellione sia avvenuta in un posto sicuramente molto civile come Modena. Durante la scrittura del libro non ho potuto fare a meno di collegare le vicende che raccontavo e i bambini in carne e ossa con i quali lavoro. Non ho potuto fare a meno, per esempio, di soffermarmi sul fatto che alcuni dei miei alunni sarebbero stati rinchiusi in Istituto, appena cinquant’anni fa. Se penso ai loro visi, non ho dubbi: anch’io avrei fatto qualcosa”.

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