“Il dialetto non è l’italiano che non ce l’ha fatta, è molto di più”, il dizionario degli studenti di Bianco. Disponibile anche su Amazon

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No, il dialetto non è l’italiano che non ce l’ha fatta. Siamo a Bianco, Costa jonica, in provincia di Reggio Calabria. Gli alunni della locale scuola media “Michele Macrì” hanno condotto una ricerca straordinaria che è sfociata nella pubblicazione di un volume, intitolato “Il dialetto della Vallata La Verde (RC) – Dizionario degli studenti”, ora disponibile su Amazon.Si tratta di un dizionario di apprezzabile interesse culturale e scientifico – con il quale secondo alcuni è stata scritta una pagina importante della cultura italiana – che i ragazzi e i docenti hanno realizzato sul campo dopo avere intervistato per alcuni anni gli anziani di alcuni paesini della Locride, tra cui Caraffa del Bianco, Bianco, Casignana, Africo e altri.

Il gruppo di studenti delle classi IA, IC, IIA, dell’Istituto comprensivo “M. Macrì” di Bianco (RC), e alcuni docenti hanno messo in atto una ricerca linguistica sul campo, condotta attraverso interviste ai parlanti dialettofoni di alcuni paesini della Locride, in provincia di Reggio Calabria. Il risultato è stato la realizzazione di un vocabolario dialettale, corredato da un’analisi dei fenomeni linguistici caratteristici dell’idioma di quel territorio, arricchito, inoltre, da alcuni etnotesti con a fronte traduzione e, in ultimo, da un’appendice fotografica, relativa alla cultura contadina locale. Un volume di questo tipo, dicono gli ideatori, “vede la luce con lo scopo di incuriosire le nuove generazioni verso il recupero della nostra cultura, inducendo alla ricerca più profonda della propria identità e delle proprie radici”.

La presentazione del dizionario, curata dalla Pro Loco del posto, è di questi giorni e ha come teatro la chiesa matrice di Caraffa del Bianco. Caraffa comune confina con il comune di S. Agata del Bianco che proprio in queste ore celebra il centenario della nascita del defunto scrittore concittadino Saverio Strati, nato nel il 16 agosto 1924 e morto a Scandicci nel 2014. “Questa scuola di paese – dice Oreste Kessel Pace, titolare della Pace Edizioni che ha pubblicato il volume – è riuscita a creare un’opera che resterà nel tempo. Mi auguro che possa essere da stimolo per i docenti per avvicinarsi al territorio e riscoprire la carta d’identità storica. Dico sempre ai miei studenti che quando qui si faceva cultura, Roma era un piccolo villaggio. I genitori non devono sentire vergogna nel parlare in dialetto: è una vera e propria lingua. E conoscere la nostra lingua è importante perché rafforza la nostra cultura. Insegnare il dialetto ai nostri studenti è dare loro un potente strumento d’indagine. Le radici vanno scoperte, indagate e preservate Pasolini diceva che il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”.

“La ricerca di questo gruppo di studenti e insegnanti – commenta Enzo Stranieri, poeta, scrittore,cultoredi Antropologia Culturale Università della Calabria – sollecita il ruolo della scuola che deve sempre vedere protagonisti gli alunni che sempre e comunque rimangono gli attori principali dell’azione educativa della scuola”. Questi giovani, prosegue nella presentazione del volume, Vincenzo Stranieri, già autore, tra gli altri, dei libri “La koinè agro-pastorale nella Locride. Massari e pastori tra Medioevo e modernità” (Arti grafiche editore), e “Appunti per un lamento di prèfica” (L’Avamposto editore) – hanno toccato con mano una realtà – legata alla memoria storica rappresentata dagli anziani che hanno potuto incontrare e che piano piano stanno lasciando questo mondo con tutta la loro conoscenza – che altrimenti sarebbe sfuggita anche ai loro occhi. La ricerca ha peraltro valorizzato la spontaneità degli anziani”. Non sappiamo scrivere in dialetto, prosegue Stranieri, “non conosciamo più la grammatica del dialetto, conosciamo i lemmi ma non abbiamo scavato dà speranza, ma questo tipo di sensibilizzazione che la scuola ha progettato ha consentito ai ragazzi di scoprire che tutto passa per la conoscenza”.

Il volume, per quanto fondamentale, secondo chi ha condotto e sostenuto la ricerca non rappresenta la fine di un percorso ma l’inizio di una lunga strada. Non dà solo risposte, ma stimola quesiti e induce curiosità. “Noi non vogliamo dare delle risposte”, conferma la professoressa Rosamaria Scordo, vera animatrice della ricerca: “Vogliamo indurre delle domande: da dove veniamo?”. Scordo vive a Ferruzzano, uno dei comuni reggini coinvolti, e si è laureata in Letteratura Italiana all’Università La Sapienza di Roma ai tempi dei compianti Luca Serianni e Tullio De Mauro, dei quali fu allieva. Con lei hanno collaborato nel progetto, tra gli altri, il vicepreside Alberto Crupi e il professor Giuseppe Fornazar, docente di sostegno, che ha dato un grande supporto ai ragazzi anche come Pro Loco di Caraffa del Bianco, e anche lui tra gli intervenuti alla presentazione. Tra gli altri intervenuti all’evento, la dirigente dell’Istituto Macrì, Vittoria Paola Zurzolo e lo storico Saverio Verduci.

No, il dialetto non è l’italiano che non ce l’ha fatta. E’ molto di più. Rappresenta le radici di una comunità. E i ragazzi e le ragazze che hanno condotto la ricerca sono ora molto più colti di chi non conosce l’origine delle parole, dei modi di dire, dei proverbi, dei lemmi che usa parlando in italiano. Questa ricerca, secondo noi che l’abbiamo letta con la passione e l’interesse che si devono a un’opera che ha richiesto un lavoro encomiabile, rientra a buon titolo nella storia della scuola italiana. L’auspicio di tanti è ora che l’esperienza venga replicata in altre scuole, in altre province, ad altre latitudini.

Professoressa Rosamaria Scordo, durante la presentazione del libro lei ha detto che chi è colto valorizza il dialetto e che in questo modo valorizza il proprio passato. Ma com’è nata l’idea di questo progetto?

“E’ nata vent’anni fa assieme alla passione per la Linguistica generale. A quei tempi ho poi scoperto che presso l’Università La Sapienza di Roma, dove mi sono laureata, c’era una cattedra che si occupava di dialettologia. Abbiamo sostenuto come studenti universitari gli esami di Dialettologia e nell’occasione abbiamo dovuto scegliere un dialetto in merito al quale avevamo il compito di condurre una ricerca sul campo. Un lavoro importante, per svolgere il quale occorre avere delle competenze. E quindi già con i primi esami all’università io assieme ai colleghi abbiamo intervistato molti dialettofoni, ed essendo io una dialettofona per me è stato più semplice reperire gli intervistati. Il dialetto per me e per tanti di noi all’epoca era L1…”

Che, per chi non lo sapesse, è una sigla che indica la lingua madre, quella appresa fin da bambini, la prima lingua. Come si arriva a questo libro?

“Mi è rimasta questa passione. Anche a scuola ho sempre portato avanti una didattica che fosse sempre legata alla nostra terra, grazie anche a diversi progetti e a un cortometraggio su Saverio Strati. Abbiamo creato più volte dei calendari che tracciassero le caratteristiche del territorio. La linea è stata sempre ed è tuttora quella di appassionare i nostri ragazzi alla cultura del nostro territorio e alle nostre origini. Quest’anno ho pensato di usare l’esperienza diretta dell’intervista per far incontrare gli anziani che lo consentivano. Avevamo ben presenti le difficoltà e i problemi che avremmo incontrato. Ma se trovi la persona adatta è come se trovassi una finestra sul mondo. Dunque ho pensato di unire le competenze della dialettologia con il contatto diretto con gli anziani”.

Ed è venuto fuori questo volume. Ma quant’è importante un dizionario dialettale per gli studenti di una scuola media del 2024?

“L’utilizzo del dizionario in generale è importante e basilare. Il dramma è che gli studenti non lo usano più e così se hanno un dubbio non lo colmano. Un lavoro come quello che abbiamo condotto assieme a loro per questa ricerca – con la quale dovevano arrivare a spiegare un lemma – arricchisce il loro lessico. Ma in ultimo il motivo più importante è averli avvicinati alla loro cultura”.

Com’è strutturato il volume?

“C’è una premessa in cui vengono spiegate le caratteristiche del nostro dialetto. A questo seguono gli etnotesti: sono dei racconti ad esempio legati ad esempio al ciclo del vino, a quelli della lana, dell’olio. Un tempo tutto era cadenzato. Gli etnotesti raccontano i cicli di vita caratteristici della nostra cultura. Gli etnotesti sono legati al dialetto in quanto il dialetto è molto tecnico perché legato alla cultura e alla specificità del lavoro fatto dai contadini”

Faccia un esempio

“Si pensi ai termini ‘a vucata, o ‘a lissìa. Questi sono termini caratteristici che non possono venire fuori per caso. Per farli emergere bisogna parlare delle attività che cadenzavano i cicli della vita. Oggi viviamo in un mondo completamente diverso”.

Un po’ come studiare il greco per chi sta già studiando l’italiano?

“E’ importante per la scuola secondaria, perché molti termini sono legati al greco e al latino. Più è circoscritto il luogo geografico in cui si parla un determinato idioma, più esso è conservativo e mantiene inalterati i termini. Dunque il nostro dialetto è più vicino al greco e al latino che non all’italiano. E da qui deriva la grande dignità del nostro idioma”.

Qual è il territorio coinvolto dalla ricerca?

“Ci siamo concentrati sulla Vallata della Verde ma la ricerca riguarda tutta la Locride. La radice è quella siciliana”.

Siciliana?

“Esiste una carta geografica dei dialetti. La nostra è classificata come dialetto calabrese di tipo siciliano. Anche i dialetti hanno una grammatica. I dialetti hanno delle regole e la loro grammatica viene analizzata nel nostro testo”.

Una grammatica – si sostiene – non sempre sufficientemente esplorata…

“Vero. E in effetti la cattedra si muoveva molto su questa prospettiva. Il professore cercava degli studenti che andassero in tutti i paesini per esplorare la grammatica del dialetto”.

Che non è espressione di ignoranza, anche se in tutta Italia i più giovani oggi si vantano di non conoscere né di comprendere il dialetto della propria terra.

“Ancora oggi, quando propongo questo tipo di attività, alcuni rispondono che non sanno parlare il dialetto. E’ quasi un rifiuto che è stato inculcato dalle generazioni precedenti. Noi formiamo i ragazzi. Un insegnante che ti fa capire che quello è un bene prezioso da preservare crea una mente aperta, una mente inclusiva. Nel nostro caso si è trattato in realtà di un rifiuto iniziale, poi tutti hanno partecipato. Il dialetto non è sinonimo di ignoranza ma espressione di cultura profonda. Soltanto chi conosce profondamente l’italiano riesce a indagare e analizzare un’altra lingua, a riconoscerne i pregi”.

Si dice talvolta che il dialetto è l’italiano che non ce l’ha fatta e lei l’ha ricordato con ironia durante la presentazione del libro.

“Sì, è vero. E’ una frase che ho letto in una rivista di linguistica. E invece io voglio dimostrare che no, non è così. Il libro si apre proprio con una poesia che parla dell’importanza di mettere le radici e le ali”…

Radici profonde, linfa vitale. Ali forti o fragili, sogni dipinti, scanditi tra un battito e l’istante successivo… (con quel che segue). Molto bella. Ma, a uno a uno, ce ne andiamo quasi tutti prima o poi dalla nostra terra…

“Non dico che dobbiamo tutti vivere in Calabria ma dobbiamo conoscere la nostra terra, le nostre origini e questo ci consente di seguire le nostre inclinazioni. Io stessa sono stata tanti anni a Roma a La Sapienza e poi ho deciso di tornare a Ferruzzano, in questa terra, ben conoscendone pregi e difetti”.

Professoressa Scordo, sua figlia, durante la redazione di questo libro, le ha chiesto: Mamma, a chi potrà mai interessare un vocabolario dialettale? Come si risponde a una domanda come questa a una figlia, nel 2024, a Ferruzzano?

Tu non racconti una cosa interessante, ha poi aggiunto. Io le ho spiegato che lo scopo del libro non era quello di creare un interesse come se fosse una storia. Questo dizionario aveva l’obiettivo di dare degli input: non delle risposte, ma delle domande. La domanda per me è diversa da quella che è di altre persone. Non voleva essere un racconto per passare il pomeriggio ma un testo che stimolasse l’interesse per la conoscenza”.

Un testo che non pretende di essere esaustivo e che dà l’idea di voler lasciare delle porte aperte. E’ così?

“La non completezza di questo testo rappresenta un’apertura, propone un progetto da portare avanti nel tempo. Una volta creata la struttura del vocabolario il lavoro sarà di ampio respiro, su più anni e su più plessi. Servono i docenti e io credo che i docenti siano in grado di continuare il lavoro. Certo è un lavoro che ha bisogno di tempo ma io la vedo come una strada aperta”

Torniamo agli studenti. Quanto sono cresciuti, i ragazzi e le ragazze della Scuola media Macrì di Bianco, grazie a questa esperienza?

“Lei immagini solo questo: dovendo spiegare il significato in italiano di un vocabolo del dialetto loro hanno dovuto, di volta in volta, creare una precisa ed efficace definizione. L’operazione rende necessario uno sforzo mentale che consenta loro di essere chiari: questo alimenta grandi capacità di interloquire. Diventa uno strumento che offre varie potenzialità e fornisce nuove competenze. I ragazzi hanno ora un nuovo strumento di ampio respiro. Per acquisire una buona parte di vocaboli il lavoro si può aprire agli altri istituti”.

Negli ultimi tempi il dialetto è tornato in auge su vari fronti. Si pensi alla musica leggera, a certi film e serie di successo, alla letteratura. A questo proposito qualcuno, tra i più critici, si è lasciato sfuggire il termine sdoganamento. E sottolinea l’elemento di distrazione rappresentato dai sottotitoli

“Già vent’anni fa ho visto questa controtendenza. E guardi che l’ho vista a Roma, non qui in Calabria. Già in un’università di quel tipo si apprezzava il dialetto. Se mi si parla di sdoganamento con accezione negativa io questa cosa la vedo come sintomo di ignoranza perché nella nostra storia non ha nulla di negativo. E’ giusto che ci sia una lingua predominante unica ma questo non significa che bisogna eliminare i dialetti. Quindi è importante la conoscenza della struttura della lingua italiana ma è altrettanto importante quella propria delle nostre origini. Sono due strade che portano nella stessa direzione, l’una non esclude l’altra. Quanto ai sottotitoli, se non si conosce quel tipo di dialetto non si comprende la trama. La lingua dei sentimenti, quella delle emozioni, quella che viene fuori quando provi delle emozioni è la lingua L1, la prima lingua, e per noi è il dialetto. La lingua italiana è strumento di controllo nelle situazioni formali e nel momento in cui questa modalità viene meno, viene fuori il dialetto. E quindi i sottotitoli si rendono necessari”.

In Calabria, peraltro, regge ancora la tradizione della musica folcloristica. L’organetto e il tamburello per le suonate di tarantella è molto apprezzato, suonato ed esibito da un numero sempre crescente di ragazzini e anche di ragazzine, oltre che di adulti. Questo non succede più in altre realtà, si pensi al liscio in Romagna, che non è più seguito, suonato, né ballato dai giovanissimi”

“Abbiamo delle realtà importanti come quelle rappresentate, tra gli altri dalla Quarta aumentata o Cosimo Papandrea, Mimmo Cavallaro. La musica folcloristica qui da noi è stata plasmata verso gli interessi dei ragazzi. La musica folcloristica è stata attraversata da questa intuizione. E’ stato utile il fatto di essere situati nella punta della penisola. Dove c’è scambio c’è una modifica e noi abbiamo preservato la musica, abbiamo stuzzicato i ragazzi. E’ proprio l’isolamento che consente di preservare le caratteristiche di una tradizione. Oppure la volontà di un popolo che ha sviluppato una coscienza tale delle proprie radici da volerle preservare. Ma c’è sempre bisogno di una presa di coscienza.

Torniamo al vostro progetto. Com’è andata, nella pratica?

“Abbiamo incontrato dei personaggi davvero interessanti, a Caraffa del Bianco, a Casignana, a Samo, ad Africo, a Ferruzzano e poi dei parlanti: i ragazzi hanno intervistato i propri nonni perché laddove non siamo arrivato noi loro hanno intervistato i parenti più anziani. E anche dei dialettofoni che sono venuti a scuola. I nostri alunni si sono anche molto divertiti con i proverbi, che ora non si tramandano più”.

Ce ne ricordi uno, tra quelli raccolti

“Quello che apre il testo. Ci è stato lasciato, quando stavamo rientrati da Casignana: ’A pètra chi non faci lippu s’a leva ’a hiumàra: significa che le radici ti consentono di non essere trascinato via dagli eventi avversi della vita. Mio nonno parlava quasi sempre attraverso questi proverbi. E questo vuol dire che la generazione che ci ha preceduto aveva un forte senso di concretezza che viene espressa nei proverbi. Che sembravano delle linee guida. Oggi non si conoscono perché non si tramandano.

Seguito i corsi dei compianti Luca Serianni e Tullio De Mauro, ora usa i loro testi a scuola.

“Ho acquisito il manuale di grammatica di Serianni. Qui utilizza dei termini ci sono vari proverbi e accezioni di una parola, i ragazzi riconoscono solo il senso letterale delle parole, loro non riescono a immaginare un significato traslato, allegorico di una frase. Per esempio Ci siamo visti a quattr’occhi: loro non capiscono che ci si immagina uno di fronte all’altro. I ragazzi non riescono più in quest’operazione perché la struttura è quella di internet: parola e link e si va da un’altra parte, non c’è un inizio, una continuazione di un discorso. Per loro è uno sforzo capire il senso metaforico di un proverbio. E lei immagini quando ci moviamo su una poesia. Gli obiettivi si sono ridimensionati perché hanno difficoltà a capire, ormai sono abituati a chiudere gli occhi su quel che non capiscono. Non si può perdere tempo a cercare una parola, cercare è visto come qualcosa di inutile”.

E si leggono sempre meno libri

“E’ vero. Ed è per questo che già in prima tendo a invogliare alla lettura del libro”.

Spesso lo leggono per dovere.

“E’ vero, anche questo, ma se anche uno solo dei miei alunni lo fa, questo è una conquista. E lo vedo sia quando alla fine dell’anno mi dicono grazie, sia dalla migliore produzione scritta. C’è chi coglie e chi no, ma questo è il nostro lavoro”.

Che cosa fare?

“Partire dall’esperienza diretta come abbiamo fatto noi è un buon inizio, perché si parte dall’approccio ludico alla nostra lingua attraverso l’intervista e si giunge ad acquisire delle competenze perché l’utilizzo della lingua italiana è trasversale a tutte le discipline. Dico sempre ai miei studenti che se non sanno scrivere nessuno li ascolterà. La punteggiatura ad esempio e altre sfumature di un testo o anche di una email fanno capire quello che tu stai chiedendo. Se io scrivo un articolo e utilizzo un determinato linguaggio so quello a cui voglio arrivare. Essere padrone della lingua è essere padrone di se stesso. E conoscere il dialetto serve molto perché è un’attività che ha delle ricadute didattiche di vario tipo”.

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