Il compagno di classe è un avversario o una risorsa? INTERVISTA a Daniele Novara
Il compagno di classe è un avversario o una risorsa? Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara, si parla tanto di integrazione a scuola, ma una recente proposta di legge ha riacceso il dibattito sulla scuola come strumento di integrazione e di riconoscimento della cittadinanza ai giovani stranieri che vivono in Italia. È giusto dire che l’istruzione è uno strumento indispensabile per costruire una società migliore?
Assolutamente, a prescindere dal dibattito su Ius Soli o Ius Scholae è indubitabile che l’istituzione scolastica rappresenta un fattore di straordinaria integrazione, perché in quel modo bambine e bambini si inseriscono. A tal proposito ho sostenuto che l’apprendimento della lingua deve essere un fattore sociale e non legato ad insegnanti specifici, non sono d’accordo su questa iniziativa per cui i nuovi alunni, magari provenienti da altri paesi, devono essere seguiti da insegnanti specifici per l’apprendimento dell’italiano, quando dal punto di vista scientifico sappiamo che il full immersion consente di favorire questo assorbimento linguistico.
Bisogna fare attenzione ad evitare le cosiddette scuole ghetto, dove si crea una risacca unicamente per bambini stranieri e dove non troveremo i figli degli italiani, questo assolutamente non va bene. Ad esempio Piacenza, dove vivo e dove abbiamo uno dei nostri istituti, è una città con il 42% di alunni della scuola primaria non di origine italiana, se a questi aggiungiamo quelli che hanno già la cittadinanza italiana possiamo comprendere che qualsiasi ragazzo oggi ha una possibilità su due di mettere su famiglia con una compagna o un compagno non di nazionalità strettamente italiana. Occorre quindi uscire da questa pastoia burocratica per cui un bambino deve aspettare di avere 18 anni per la cittadinanza e poi non è ancora finita, trovo orribile tutto ciò anche perché ha delle implicazioni sulla motivazione scolastica.
Gli alunni si sentono cittadini a tutti gli effetti perché, come ci dicono anche i dirigenti scolastici, sono nati qua, parlano italiano e sono assolutamente interessati alla scuola, perché loro la vivono come strumento di emancipazione. Quindi che sia lo Ius Soli o Ius Scholae bisogna chiudere questa partita dello Ius Sanguinis che genera dei problemi. Abbiamo bisogno di costruire una comunità dove chi vive nel nostro Paese si deve sentire ed essere parte della comunità italiana, io dico anche europea e ci tengo a questa specifica perché l’Italia è in Europa. È molto importante che si vada in questa direzione, ovvero offrire ai bambini nati in Italia, o che arrivano nel nostro Paese, la possibilità di diventare cittadini al più presto possibile perché allora anche la scuola diventa motivante e noi possiamo avere una possibilità con loro di lavorare decisamente meglio.
Dal prossimo anno scolastico, fino alla scuola secondaria di primo grado, sarà vietato l’uso del cellulare e si torna al diario cartaceo. Come reputa questo provvedimento del Ministro?
Lo ritengo un primo segnale di un’inversione di tendenza che da dieci anni cerco di sollecitare. La cosiddetta scuola digitale è un equivoco, anche semantico. La scuola ha sempre avuto la sua tecnologia, ad esempio da alunno delle elementari degli anni ’60 scrivevo ancora con il pennino e l’inchiostro, era molto divertente ma anche pericoloso, ricordo quando ferii un mio compagno di classe, poi si è passati alla penna. Avevamo le lavagne d’ardesia con il “cancellino” che era uno strumento di interdizione pedagogica da parte degli insegnanti e usato abbondantemente, e lo so bene perché mi sono preso tante “cancellinate” in quanto ero decisamente vivace. Poi si è andati avanti ed è arrivata la LIM, uno strumento utile.
Questo per dire che la tecnologia va bene, ma credo che il limite sia stato superato quando si è iniziato a voler togliere la penna volendola sostituire con il tablet e addirittura, 5 o 6 anni fa, sono stati dati ai bambini della prima classe primaria gli smartphone. Ritengo che questa sia una deriva, è pericoloso perché non dobbiamo dimenticare che ogni cosa ha il suo tempo. Sulla base di quello che conosciamo la penna serve per imparare scrivere ed è un movimento indispensabile perché è un movimento dal punto di vista neurologico insostituibile, non è che se li mettiamo a fare i “criceti” smanettando sui computer otteniamo lo stesso risultato dell’utilizzare la penna, la matita o i pennarelli. Come diceva Maria Montessori la mano è l’organo per la mente.
Apro una parentesi, se proprio dobbiamo guardare al passato bisognerebbe guardare a Maria Montessori e non certo ad altre esperienze non altrettanto efficaci. Detto ciò, dobbiamo smetterla di parlare di alfabetizzazione digitale da 0 a 6 anni, i bambini sono sensoriali, hanno bisogno di agire con le mani, io sono addirittura scettico sull’uso dello spazzolino elettrico, proprio per favorire al massimo l’utilizzo della mano come movimento primario che consente tutti gli altri apprendimenti. La base dell’imparare è motoria, quindi se mettiamo i bambini davanti ad un videoschermo li roviniamo dal punto di vista neuro-cerebrale, poi si creano tutti quegli inceppamenti che conosciamo bene e che portano a diagnosi su diagnosi. Vediamo di tornare a fare le cose giuste e questo provvedimento è un primo segnale apprezzabile ma ancora incerto, perché abbiamo bisogno che la scuola torni ad essere una comunità di apprendimento e non una comunità digitale, né tantomeno, come nel caso della DAD, una piattaforma digitale. Questo è business e non è scuola.
Si parla di un provvedimento che porta indietro la scuola, ma non sarebbe bene prendere ciò che di buono c’era nel passato, come il muto insegnamento della scuola di Barbiana, in modo da far cadere lo stigma del copiare?
Esatto, queste pratiche inerziali sono inquietanti perché si impara imitando, questa è una certezza che le neuroscienze continuano a restituirci, come ad esempio gli studi sui neuroni specchio o la sincronicità neurocerebrale. Ne parleremo anche al nostro prossimo convegno del 29 agosto dove parleremo di come insegnanti ed educatori favoriscono il processo di mutuo insegnamento. Non sono idee che qualche pedagogista originale propugna, ma è quello che ci arriva dalla storia della pedagogia e che le scienze hanno confermato.
Che senso ha continuare ad insistere sull’isolamento degli alunni, non solo non copiare ma fare da soli al motto di “chi fa da sé fa per tre”, quando invece è proprio nella condivisione che si creano quei substrati neurocognitivi che permettono di creare apprendimenti veri. È un qualcosa che l’insegnante sa da sempre e possiamo verificarlo, ad esempio, quando dopo svariate spiegazioni l’alunno continua a non capire e poi il compagno di classe lo spiega a modo suo e lo capisce, questo perché tra loro comunicano nel loro modo. Il cervello adulto è diverso da quello dei bambini e dei ragazzi, c’è un bisogno evolutivo di lavorare con i propri simili e la scuola moderna, a differenza di quella del passato che era basata sui monitori come Vittorino da Feltri, tanto per fare un esempio, deve tenerne conto. Heinrich Pestalozzi costruisce le proposte didattiche basandosi sull’aiuto reciproco, il mutuo insegnamento come lo conosciamo, e credo di essere un po’ un esperto in questo ambito anche perché la mia tesi di laurea è stata proprio su questo argomento “Il mutuo insegnamento nel ducato di Parma e Piacenza”, e lui, insieme a padre Girard, creò le basi per una scuola nuova che è alla base dell’attivismo pedagogico.
È la creazione di esperienze concrete basate sull’aiuto reciproco, quindi non tutto dipende dall’insegnante, ma sono gli altri alunni che tra di loro organizzano processi di sostegno reciproco. Quest’idea che a scuola non si può copiare è un’idea che non ha un substrato scientifico, è ovvio che quando abbiamo una prova individuale è giusto che sia svolta in forma autonoma, però non possiamo pensare che la prova sia semplicemente quella di mettere delle crocette, l’apprendimento, come ci ha consegnato il grande Howard Gardner, è applicazione che si impara lavorando insieme agli altri. Porto la mia esperienza di alunno delle superiori degli anni ’70, nel pieno dello sviluppo pedagogico italiano, e ricordo che noi facevamo compiti in classe insieme, le lezioni le preparavamo in gruppo noi alunni.
Ovviamente c’era tensione tra il gruppo di insegnanti conservatori e il gruppo degli insegnanti che credeva in una scuola diversa, poi l’Europa è andata avanti e noi, purtroppo, siamo tornati alla lezione frontale dimenticando che l’Italia è il paese di grandi figure come don Lorenzo Milani che recupera la tradizione del mutuo insegnamento, che la scuola francese portò avanti tantissimo con figure come Roger Cousinet e Celestine Freinet, e proprio per le contingenze particolari di Barbiana mise insieme queste esperienze dove chi sapeva qualcosa lo insegnava agli altri. In tutto questo don Milani faceva il regista, l’insegnante è quello che fa lavorare gli alunni e li fa lavorare insieme.
È chiaro che bisogna creare le condizioni come ad esempio, visto che tra un po’ ricomincia la scuola, dedicare i primi giorni di scuola a creare il gruppo classe con le attività socio-affettive, mutualistiche e di lavoro comune. Nel nord Europa all’inizio della scuola gli alunni vanno a fare un campeggio per rafforzare il senso di appartenenza alla classe, noi invece mettiamo la gita scolastica come premio, se poi la classe si è comportata male niente gita scolastica. È all’inizio della scuola che bisogna proporre queste esperienze di outdoor dove si vive per due o tre giorni insieme e dove si costruisce il gruppo che sarà quello in grado di sostenere i processi di apprendimento individuali, non necessariamente l’insegnante in una sorta di one to one.
È necessario il recupero del concetto di mutuo insegnamento, tradotto indebitamente nella peer education che non rende nel modo più assoluto la forza della mutualità, della reciprocità, del termine che abbiamo da sempre usato in Italia anche con don Lorenzo Milani. Concludendo dal passato prenderei gli insegnamenti dell’attivismo pedagogico, della Montessori, di Mario Lodi, di don Lorenzo Milani, di Gianni Rodari, di Danilo Dolci e non certo la lezione frontale, quella della lezione-studio-interrogazione, che si vuole riproporre in una sorta di ritorno al passato, ma non a quello pedagogico, piuttosto a quello cattedratico dove si vuole riproporre la predella sulla quale l’insegnante sta su.
I tempi sono cambiati e volere ritornare in un’epoca di autorità non serve, bisogna rafforzare la tecnologia pedagogica dell’insegnante e non la tecnologia digitale. Proprio quest’estate ho sentito una notizia dove risulta che l’Italia è l’unico paese in Europa che porta gli insegnati in tribunale per maltrattamenti agli alunni, in questo momento svariati procedimenti giudiziari su insegnanti che hanno agito in maniera equivoca nei confronti dei loro alunni, altro che gli alunni che aggrediscono gli insegnanti. Questo perché da noi si fa finta che per fare l’insegnante basti conoscere la materia, è una sorta di “terrorismo” pedagogico, vuol dire mandare allo sbaraglio le persone, invece bisogna dare all’insegnante un substrato tecnico, pedagogico, educativo, formarli nel saper gestire la classe, avere un repertorio educativo come il mutuo insegnamento e tanti altri che consentano al gruppo classe di lavorare.
Lo spazio della classe rappresenta un elemento fondamentale per costruire una didattica dinamica e favorire le relazioni che portano alla collaborazione tra alunni. Ma come si costruisce un setting scolastico dinamico?
Questa è una domanda chiave, io ho avuto la fortuna di scrivere un libro di successo, “cambiare la scuola si può”, dove tutto il mio metodo viene esplicitato. La base è ovviamente uno spostamento del baricentro, in questo momento la scuola italiana è concentrata sull’insegnate come elargitore di conoscenza, invece, tornando alle grandi esperienze pedagogiche, dobbiamo vedere l’insegnate come organizzatore dei processi di apprendimento, nel senso che conta di più ciò che l’insegnate riesce a predisporre che non la sua azione diretta in classe.
Quando un insegnante entra in classe non ci dovrebbe più essere nulla che lui fa, ma deve semplicemente saper gestire i processi di lavoro fra gli alunni, devono essere loro a lavorare. Se si vuole spiegare qualcosa come ad esempio i viaggi su Marte, non bisogna fare lo “spiegone” magari con la LIM o qualcosa del genere, ma dobbiamo fare in modo che siano gli alunni, magari sulla base delle domande maieutiche, a scoprire ad esempio cosa si sta cercando su questo pianeta, se magari ci sono state forme di vita che sono scomparse, se è possibile che facciamo la stessa fine di Marte andando avanti così.
Queste sono domande che permettono agli alunni di attivare dei percorsi che gli permettono di muoversi, nel senso che vanno a cercare le informazioni, intervistano gli esperti e soprattutto quest’ultima azione è fondamentale nei processi di apprendimento. Così facendo avremo una scuola aperta e non bloccata, cristallizzata nello spazio puro e semplice dell’aula. Un po’ come faceva don Milani che invitava tante persone a parlare con i suoi alunni.
Oggi abbiamo internet, abbiamo Wikipedia, e non dimentichiamo i libri di testo, che sono tutti strumenti utili, l’insegnante aiuta gli alunni a muoversi all’interno di un mondo dove notizie vere e false stanno diventando estremamente interagenti e offre un metodo di lavoro per imparare e non semplicemente un metodo di studio o un contenuto, insegna un metodo per imparare a vivere che resta l’obiettivo primario della nostra scuola. È lo strumento che permette agli alunni stranieri, come detto prima, di acquisire necessariamente anche le norme sociali e costituzionali del nostro Paese e della nostra Europa.
Un’ultima domanda. Oggi si parla molto di studenti con ansia da prestazione già dalla scuola primaria causata da una eccessiva competizione. A tal proposito il mutuo insegnamento può essere considerato come uno strumento in grado di abbassare il livello di conflittualità della classe e migliorarne il clima?
La conflittualità della classe è un dato socio-relazionale che, per l’ennesima volta, invito a gestire con i metodi giusti. Noi ci lavoriamo da quarant’anni, in particolare ho passato una vita a cercare i metodi giusti per imparare a “litigare bene”, che poi è il none del mio metodo che è facile da trovare e mi appello agli insegnanti affinché venga utilizzato. Ma la domanda si presta anche a una riflessione su quello che è stato anche il tema del nostro recente convegno dove abbiamo detto a caratteri cubitali che “La scuola non è una gara”.
Adesso stanno tornando queste idee mortificatorie, queste idee agonistiche e a tal proposito voglio dire in modo chiaro che la scuola non è uno sport. È chiaro che nello sport se fai agonismo e sbagli, poi la tua capacità deve essere quella di riabilitarti a fronte di una sconfitta, ma la scuola non è questo, non è uno sport agonistico. La scuola è un ambiente dove si va per imparare e lo devi fare nel migliore dei modi. Noi sappiamo che per imparare contano le esperienze concrete, l’elemento sociale e la valutazione evolutiva, cioè una valutazione che sappia vedere la crescita, il miglioramento, e non mettere un’asticella uguale a tutti, è come chiedere ad un pesce e ad una scimmia di saltare la stessa asticella.
Ogni alunno deve essere valutato sulla base dei suoi progressi, non è come nello sport dove si mette un limite e tutti devo superarlo, come l’asticella del salto in alto e vince che la supera, a scuola non è così, non si vince se si supera un determinato limite uguale per tutti, ma si cerca di migliorare sé stessi e nell’aiuto reciproco si cerca di arrivare al massimo delle proprie potenzialità. Sono molto preoccupato quando si semplifica dicendo che non c’è nessun problema nel bocciare gli alunni, anzi che così si rafforzano.
Ma gli alunni bocciati spesso e volentieri entrano in uno status di depressione e di mortificazione, bisogna ricordare che è il successo che ti dà la voglia e il desiderio di andare avanti e di fare meglio. Facciamo attenzione, la scuola che propone la grande pedagogia, chiamiamola progressista in senso lato, è una scuola faticosa e non assolutamente facile, la scuola facile è quella della ripetizione, dove basta che tu ripeti quello che hai studiato o che ti ha detto l’insegnante, ma questo è solo un esercizio di memoria, la scuola vera ti fa lavorare, è l’ambiente dove devi cercare le risposte e devi avere delle domande, dove devi accettare la frustrazione del lavorare insieme ai tuoi compagni piuttosto che isolarti.
Questo è quello che può permetterci di evolvere e di offrire ai nostri alunni un futuro che non sia semplicemente tornare al nozionismo e a un’idea di scuola che definirei archeologica, ma per fare questo occorre che gli insegnanti siano considerati di più, per la loro formazione e per la loro attività, che sia riconosciuto il loro orario di lavoro e che sia formalizzato. Ogni insegnante lavora una trentina di ore alla settimana e va riconosciuto, bisogna che tutto il lavoro di preparazione, meglio se in equipe e in compresenza, sia riconosciuto. Quindi i cambiamenti da fare ci sono, sono tutti possibili e anche con l’autonomia scolastica si può fare tanto, ma bisogna continuare a credere che la scuola sia il punto di partenza per tutta la società, se la scuola funziona vuol dire che funziona tutta la società.