Il Collegio 7, il prof Zilli: “Insegnare? Lavoro da amare, non si può fare per il posto fisso. Con gli studenti sono severo ma giusto”

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Martedì 29 novembre alle ore 21,20 andrà in onda su Rai2 l’ultima puntata de Il Collegio. La settima edizione del docu-reality fa un balzo nel tempo, fino ad arrivare agli anni ’50, precisamente al 1958. A Orizzonte Scuola Andrea Zilli, insegnante di applicazioni tecniche nel reality show di Rai2, professore anche nella vita reale.

Leggo che ha lasciato il lavoro per l’avventura del Collegio. È così? Cosa l’ha spinta a lasciare il posto fisso nella scuola?

Ho letto anche io questa notizia sulla stampa, ma è una fake news! A 17 anni mi sono seduto per la prima volta dietro ad una cattedra, preso dall’entusiasmo per una storia d’amore con l’insegnamento. E così con desiderio e sacrificio, come si fa quando c’è un grande amore, sono diventato prima maestro, poi professore e ancora oggi continuo ad insegnare nelle scuole
pubbliche. La scuola è diventata sempre più strutturata, più “azienda”, i programmi più standardizzati, ma il tutto non mi hanno scoraggiato. Restano il cuore e il cervello. La passione per gli studenti ci rende flessibili a ogni nuova “riforma”, a ogni governo, a presidi poco capaci, alle invidie di certi colleghi. Lavorare con i “discenti”, essere al tempo stesso determinato, rigoroso con le regole, ti porta poi a potenziare la tua forza di volontà. Da parte mia è importante trasmettere amore per la conoscenza, costruire il senso critico, prima che le nozioni. L’insegnamento non è da tutti. Devi sopportare chi non ti sopporta, sacrificare il tempo libero, e ammalarti anche di troppo lavoro. Ma se ami il tuo lavoro, le giornate a scuola sono piacevoli. Se vivi l’insegnamento come opportunità per un posto fisso, il lavoro si trasforma in “impiego” meccanico: alla lunga demotivi te
stesso e pure gli studenti.

Prosegue il suo lavoro di educatore con i minori stranieri non accompagnati?

Ho lasciato il ruolo di educatore volontario nelle comunità socio-educative per i minorenni stranieri non accompagnati (MSNA) che hanno subito situazioni di sofferenza o abbandono. Mi sono impegnato ai servizi di volontariato nella Protezione Civile. Inoltre lo studio mi prende ancora. Ora sono prossimo a un’altra laurea, in filologia moderna, alla facoltà di Letteratura, lingua e cultura italiana. Mi è dispiaciuto lasciare l’incarico che ricoprivo da tanti anni, però mi rincuora il fatto di aver aiutato moltissimi minori vulnerabili. Arrivavano da situazioni di disagio socio-familiare. Dai Servizi Sociali o dal Tribunale veniva disposto un percorso di reinserimento sociale. Un modo per scongiurare emarginazione e deviazione.

Come è cambiata la sua vita? La riconoscono per strada?

Quando uscivo di casa, fino a qualche settimana fa, ero solo. Per strada camminavo e nessuno badava a me. Oggi capita che molti mi riconoscano. Sono una persona molto riservata, e quella abitudine l’ho introiettata sin da bambino. Non condivido molto di me, cerco di limitare le apparizioni pubbliche, specie da quando sono iniziate le puntate del docu-reality. I followers che ho su Instagram non sono molti. Provengo da una famiglia che mi ha insegnato a stare sempre con i piedi per terra. Cosa, questa, che non mi è affatto difficile. Penso che il successo possa essere un’arma a doppio taglio. Hai grandi soddisfazioni ma ancor più grandi croci. Essere persone umili nella vita non significa sentirsi inferiori, né avere un atteggiamento passivo e remissivo, ma vuol dire aprire la finestra del cuore alle piccole cose della vita. Bisogna esprimere gratitudine per ogni cosa, anche la più piccola. Dobbiamo restituire valore ai piccoli tasselli che colorano l’esistenza, senza la quale non esisterebbe l’opera d’arte chiamata “vita”.

Lei non ha molti follower sui social media. Non crede a questa forma di comunicazione o intende mettersi pancia a terra per ottenere più seguito social?

Ho aperto un profilo Facebook (andrea.zilli1990), uno Instagram (@andreazilliofficial) e uno su TikTok (@prof.zilliandrea). Si sa che i social media rappresentano dei rischi, specie per i nostri ragazzi. Nel mondo digitale, i giovani hanno incontri stimolanti per loro, ma che ti portano a isolarti o incrociare relazioni pericolose. Con i social si realizza inoltre troppo presto il confronto sociale, la continua comparazione e competizione con gli altri, per capire chi si è e che cosa si vuole. I minori
pubblicano un video, una foto, iniziano a contare in continuazione i loro like, se sono più o meno popolari dei compagni. È una corsa continua, che può generare ansia, depressione, e recitare qualsiasi parte per ottenere “più like”. La gara ti spinge ad azioni di disturbo persino a te stesso per farti notare. Pensiamo alle foto “rubate” in pose non ottimali di compagni di classe o di colleghi insegnanti. È facile essere vittime o carnefici di bullismo digitale. Se poi un giovane dovesse pentirsi del proprio gesto, non potrebbe farlo. Se cancellasse, ad esempio, la foto, il fatto di averla già inviata ti impedisce di bloccarla. È troppo tardi, il danno è fatto.

È stato il docente più giovane d’Italia, a 17 anni. È stato fra i presidenti di commissione di maturità più giovani d’Italia. Ora è il secondo friulano al Collegio. Le piace vivere da protagonista e bruciare le tappe?

A mio avviso non è importante fare tutto velocemente, correre, bruciare le tappe. La cosa essenziale è prendere la giusta via. Ai miei studenti dico sempre: «Non è importante quanto bravi già siete, ma quanto aspirate a diventarlo sempre più!». Non bruciare le tappe significa vivere rispettando l’età che si ha. Io però ho sempre avuto la tendenza a voler anticipare il tempo e a
vivere come se fossi più grande. Pensavo di non avere tempo e cercavo di vivere ogni momento al massimo. Per me nulla era più importante che mettere passione e adrenalina in ogni mia avventura. L’impeto di bruciare le tappe mi portava talvolta a commettere degli errori con gli occhi bendati dall’innocenza e dall’inesperienza.

Oggi penso che tutto nella vita abbia il suo momento. Ai ragazzi dico sempre di fare le cose al meglio nel momento in cui vivono. Per dare valore alla tua vita, devi farlo costruendo le abilità dell’attimo. Ora è il momento dello studio. Ebbene, fallo con impegno e passione, come un artista.
Ti potrai laureare in pochi anni, essere indipendente, se lo vorrai, oppure dare una mano in famiglia, ed essere orgoglioso di te stesso.

Che esperienze ha messo a frutto per insegnare dattilografia nel Collegio?

Due note burocratiche. Sono un docente di sostegno, in assegnazione provvisoria annuale all’I.I.S. “Jacopo Linussio” di Codroipo ma, come a “Il Collegio 7” di Rai 2, ho anche il ruolo di titolare ordinario di cattedra per le discipline tecnico-pratiche all’I.I.S. “Federico Flora” di Pordenone.

Opero prevalentemente nei laboratori e mi occupo di collegare la parte tecnica dell’insegnamento di una disciplina all’applicazione pratica. Il mio compito è quello di organizzare e gestire in piena autonomia tutte le attività che si svolgono nei laboratori. Il professore di laboratorio è ritenuto un ibrido tra gli assistenti di cattedra e gli assistenti tecnici. Forse proprio per questo non gli viene riconosciuta la stessa importanza del docente teorico. Eppure non esiste una gerarchia tra il docente teorico e noi docenti tecnico-pratici. Entrambi lavoriamo in maniera autonoma, ma nello stesso tempo in team, per la metodologia e le scelte didattiche. È un’offerta formativa complementare. Per lo specifico di “dattilografia”, il 31/03/2021 ho superato un corso di formazione “Addestramento professionale per la dattilografia”. Durata 200 ore, istituito dal Comune di
Spezzano Albanese (CS). Il tutto con Delibera DGC n. 104 del 24/11/2020, tanto per essere pedante.

Quanto sono diversi i ragazzi del Collegio da quelli del mondo reale? In che modo si relaziona con loro?

La novità di questa edizione è la divisione in due classi, che ricalca quella prevista nel 1958. Da un lato, una classe di scuola media, in cui si studia il latino; dall’altra, una scuola di avviamento professionale. Ai tempi, infatti, la scuola secondaria di primo grado offriva due percorsi. Durante l’intera permanenza al “Collegio Regina Margerita” di Anagni, i 20 collegiali hanno dovuto osservare in maniera ligia il severo regolamento. A vigilare il rispetto dei diktat eravamo noi professori, il preside e gli integerrimi sorveglianti. Non sono mancati mai gli sfoghi, i pianti e le lacrime scaturiti dall’intervento dei sorveglianti, a partire dal temutissimo taglio di capelli. I collegiali sono “ragazzi sempre più difficili del mondo reale”. Portano nella classe del 1958 tutti i loro bisogni e le loro frustrazioni: sono “fragili e spavaldi”, come affermano gli psicologi. Si portano dentro
tensioni familiari che li rendono deboli, e a cui per reazione rispondono spesso senza freni né limiti.

Noi insegnanti ci siamo dovuti occupare: o di discenti “male educati”, per via di genitori incapaci di porre limiti e regole; o di allievi ansiosi, pigri o scansafatiche. A “Il Collegio 7” c’era un forte cameratismo tra noi insegnanti: abbiamo definito metodologie didattiche ed educative comuni.
Nel programma si è visto l’incontro con le famiglie: penso che anche nella “realtà” incontrare le famiglie e renderle partecipi di questo piano sia fondamentale. Alcuni genitori non pensano che gli insegnanti abbiano il diritto di chiedere ordine e rispetto di regole. Eppure i loro figli passano gran parte del loro tempo a scuola, una comunità che ha necessariamente regole diverse da quelle di una famiglia di tre o quattro persone.

Da parte mia ho messo in atto una serie di strategie: dall’utilizzo del tono vocale, alla comunicazione non verbale, al controllo della classe. In un gruppo la prima cosa che fanno i ragazzi è cercare l’adulto da tiranneggiare. Reazione sbagliata di noi docenti è creare per questo relazioni esclusive. Io, come nella scuola reale, non ho raccolto la loro domanda di esclusività. Ho
puntato sul modo corretto di comunicare, gestire tempi e modi di lavoro. Ed esser flessibili, pronti a mettersi in discussione è fondamentale. L’apprendimento è frutto di una interazione, umana e professionale. Per esempio a “Il Collegio 7”, di fronte a discenti sempre più difficili, fragili, a volte tormentati, ho fatto ricorso alla didattica individualizzata e differenziata: in sostanza, rispondere ai bisogni di ognuno con attività mirate, e diversificare nello stesso tempo. È il modo migliore per
valorizzare gli interessi dei discenti, ed esser disponibile a continui aggiustamenti. Ogni collegiale doveva raggiungere quegli obiettivi che io docente mi ero prefissato per lui. Per fare ciò, ovviamente, era d’obbligo conoscerli in fretta e molto bene: nelle loro abilità, nel modo di apprendere, per metterli nelle condizioni di lavorare al meglio.

Sin da subito ha messo in chiaro che esige rispetto. Si sente un docente severo?

Il sogno di ogni insegnante è lavorare con allievi volenterosi, interessati, rispettosi delle regole. In molti casi, invece, la realtà è ben diversa e ci si trova a che fare con ragazzi come i collegiali: rumorosi, annoiati, poco partecipi. A me come insegnante è richiesto di destreggiarmi, a mo’ di equilibrista, tra disciplina, dialogo, psicologia, pedagogia. A volte, la reazione istintiva con una classe difficile come quella del 1958 è: Tappati le orecchie e scappa! E magari ci si sente inadeguati. Oppure si urla, si usa il pugno di ferro. Forse utile per mantenere la disciplina, ma alla lunga controproducente. Perché? Nascono malumori e disaffezione per la scuola. Io ho coinvolto i miei collegiali, li ho motivati, ho creato un ambiente di apprendimento produttivo. Con la sola disciplina si mantiene l’ordine, ma non si gestisce la classe 1958. Mi sento un insegnante severo, ma giusto. A “Il Collegio 7” la mia missione è stata quella di far rispettare l’istituzione scolastica.

Per questo ho portato sempre con me il regolamento della scuola, pronto in ogni occasione a ricordarlo ai collegiali, che sembravano esserselo dimenticato. Ho dato alla sezione “Avviamento professionale” un bel po’ di filo da torcere, soprattutto durante le lezioni di dattilografia.

È stato più emozionato da presidente di commissione di maturità con gli studenti del carcere o al primo ciak in studio per le riprese della trasmissione?

Sono due esperienze comuni, in quanto uniche nella loro diversità. Ho varcato le porte di aule assai diverse dalle solite. Nel docu-reality di Rai 2 ci sono state rigide selezioni per entrare a far parte del cast, invece nelle casa circondariale bastava buttare l’occhio fuori dalla porta, nel corridoio, per vedere gli agenti della Polizia Penitenziaria. Quella del carcere è stata un’esperienza molto forte. Tra quei muri tocchi con mano come la scuola possa davvero fare la differenza. È indispensabile per ricostruire dal di dentro un uomo. Questo si dovrebbe ricordare più spesso. I maturandi ergastolani erano emozionati, proprio come i loro compagni collegiali de “Il Collegio 7” al momento degli esami per ottenere la licenza media. Hanno affrontato le prove in modo molto responsabile. Sullo scritto i detenuti hanno riflettuto a lungo; riletto con molto attenzione e hanno
utilizzato tutto il tempo. All’orale mi hanno confidato che erano gli scritti i più temuti. Studiare e arrivare al termine di un percorso a volte accidentato è un successo per tutti: la scuola è stata, per loro, una seconda opportunità.

Come vede il suo futuro? Cosa vuol fare “da grande”?

Oggi mi voglio godere i miei studenti, e penso di farlo ancora per qualche anno scolastico: amo accettare le sfide che la professione docente mi offre ogni giorno. In questi anni, oltre ad aver presieduto le Commissioni, ho preparato diverse classi agli Esami di Stato, ed è molto bello essere ricordato, esser punto di riferimento anche dopo diversi anni. Vorrei poi passare dalla didattica alla gestione. Il mio prossimo obiettivo sarà lasciare la cattedra, e potermi sedere dietro alla scrivania
più importante, quella di Dirigente Scolastico. Mi piace la visione di sistema, rivestire una funzione manageriale della struttura scolastica. Un segnale di buon auspicio in questa ottica è giunto pochi giorni fa da Roma: sono stato contattato dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, dopo la selezione di docenti del 2021 per la costituzione delle Équipe Formative Territoriali. Ora sono chiamato a Viale Trastevere, per una posizione di comando al MIUR. Sto valutando se accettare o meno l’incarico. In prospettiva c’è anche l’intenzione di dedicarmi ad un altro progetto, al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. In breve, c’è la possibilità di rientrare fra i “privilegiati” da destinare all’estero.

Spesso i reality vengono demonizzati. Lei come difende questa forma di intrattenimento dalle critiche?

“Il Collegio 7” è un docu-reality, un genere televisivo basato sulla rappresentazione della “realtà”, ovvero situazioni di vita reale, non sceneggiate. Mira a trasformare la realtà in una forma di intrattenimento leggero, in questo caso con uno scopo educativo. Considerando che noi professori rispettiamo un “canovaccio di stile targato 1958”, i collegiali improvvisano, interpretano quello che sono nel 2022. È inevitabile l’effetto grottesco, e dunque comico, della trasmissione, come pure
per i critici, quello “trash”.

I punti fissi? Troviamo i “confessionali”, dove i collegiali si confidano al pubblico in privato. Poi le punizioni per chi trasgredisce le regole in proporzione alla gravità del gesto, con provvedimenti del caso, che variano dall’isolamento all’espulsione. C’è la presenza di due sorveglianti che controllano il rispetto della ferrea disciplina del collegio. Infine l’esame di valutazione al termine del percorso per i sopravvissuti.

Da parte mia ho accentuato il rispetto del regolamento del collegio, con effetto educativo, nel suo essere anacronistico, fuori dal tempo odierno. Altri anacronismi comici: il lungo divieto ai ragazzi dell’uso di smartphone, oggetti elettronici, cosmetici e il consumo di cibo diverso da quello servito al collegio. Ancora, con l’obbligo di consegnare tutti i loro effetti personali, indossare la divisa scolastica, sottoporsi al taglio dei capelli. Inoltre, c’è una cornice narrativa da documentario, con la
voce di Nino Frassica, che ci riporta all’atmosfera degli anni, in cui l’Italia assaggiava il miracolo economico. Il 1958 è un anno di grande ottimismo e spinta verso la crescita, ma è anche di contraddizioni: di forti migrazioni interne, di svuotamento delle aree rurali e di espansione delle città. Sono anni in cui in Italia cresce anche la domanda di istruzione e il boom della produzione industriale richiede figure specializzate.

Come si spiega il fascino del Collegio?

Il Collegio, realizzato in collaborazione con “Banijay Italia”, è basato sul format internazionale “Le Pensionnat – That’ll Teach’Em”, di cui la Rai ha acquisito i diritti. Quello che posso dire è che sono davvero moltissime le domande di aspiranti studenti con il sogno di far parte della classe più famosa della TV. Per la realizzazione del programma abbiamo lavorato in 110 persone, sono state utilizzate 14 telecamere con operatore, 32 microfoni a collarino e un drone per le riprese in aeree.
“Il Collegio” è il programma più visto dai giovanissimi. I teenagers odiano la disciplina, ma poi la sognano. Per gli studenti questa diventa così una sfida a tutto tondo: abituati a vivere in simbiosi con cellulari e social, perennemente iperconnessi, con la disponibilità di un clic che può portarli ovunque, oggi si relazionano protetti da una tastiera, da uno schermo, si nascondono dietro ad un like o ad una chat, si sentono al sicuro e liberi. Eppure sembrerebbe che di tutta questa libertà le nuove leve non sappiano più bene cosa farsene. C’è una sorta di piacere inconscio alla disciplina militare. Al di là della visibilità derivata dall’apparire in TV, se questa trasmissione sta funzionando così bene e piace, è perché rappresenta un’esperienza educativa di formazione e di relazioni molto diversa e lontana dalla realtà quotidiana che i ragazzi vivono di solito. Forse, dunque, è
necessario porsi una domanda, perché i giovani stanno cercando di dire qualcosa. Ferrea disciplina, regole, divisa pulita, punizioni e divieti. Di questo sentono la mancanza i teenagers? Vogliono mettersi alla prova, capire se riuscirebbero a farcela in un sistema di scadenze e di adulti rispettosi che comunicano autorevolezza. Potrebbe essere questo il nocciolo della questione: la comunicazione con qualcuno che li guidi verso ciò che si può fare e verso ciò che non si può.

È difficile tuffarsi in un viaggio nel tempo, soprattutto per lei che all’epoca del reality non era ancora nato? Come si è preparato?

Io sono nato l’8 febbraio 1990, sotto il segno dell’acquario. Sul set de “Il Collegio 7” mi sono ritrovato nei panni del “Professore Istruttore” di discipline Tecnico-Pratiche e, a seguito della riforma sperimentale del 1958, la mia disciplina e diventata “applicazioni tecniche” nella classe unificata.
Mi sono acculturato sul periodo storico e ho interpellato moltissime persone che hanno vissuto la scuola di quegli anni. Da qui è nata l’idea di voler essere il Prof. Zilli, quell’insegnante “bizzarro” che insegnava “cose” che oggi potrebbero sembrare desuete ma ritenute, secondo me, utili ai collegiali. Magari hanno acquisito competenze che non gli serviranno nella vita ma che hanno insegnato loro il valore del lavoro manuale. Le applicazioni tecniche sono state forse l’ultima delle materie di cui curarsi, ma da quegli esercizi hanno imparato che c’era un mondo di persone attorno a loro che in quegli anni viveva della fatica fisica, che nelle fabbriche, nelle officine e nelle campagne dove tanti loro antenati andavano a lavorare si produceva quel benessere indispensabile di cui oggi beneficiano proprio questi ragazzi. Era quella una scuola che insegnava ancora il valore del mestiere e un’Italia dove l’insegnante era punto di riferimento, il primo livello dell’autorità dopo i genitori. C’era un insegnamento etico nel distinguere la pinza dalla tenaglia, il martello dal mazzuolo, ecc. Si doveva limare e piallare, segare e avvitare, imparare a comporre un disegno tecnico ed eseguire un lavoro leggendolo. Si scopriva l’uso delle macchine e la cautela con cui bisognava usarle. Un lavoro dei più delicati: ne “Il Collegio 7” il Prof. Zilli ha avuto l’arduo compito di insegnare ai collegiali il rispetto reciproco, l’umiltà e la nobiltà del lavoro, la bellezza che c’è in un relè, in una rosa innestata, in un’elettrolisi.

Come sono i rapporti con l’altro friulano, il veterano Maggi?

La passione per lo studio, per l’insegnamento e per la scuola accomuna me e il collega Maggi. Inoltre, essendo entrambi friulani non potevamo non essere uniti e motivati dall’amore per il Friuli- Venezia Giulia. Il nostro debutto sul piccolo schermo con il docu-reality “Il Collegio 7” di Rai 2 ci ha permesso di richiamare l’attenzione ai pregi sempre più amati a livello turistico della nostra terra, benché la nostra Regione si sia ormai sdoganata dal provincialismo. Nulla del resto è più provinciale in un mondo globale. Al Teatro Arrigoni di San Vito al Tagliamento (PN) ho seguito con emozione la presentazione dell’ultimo libro di Andrea, dal titolo “Storia di amore e di rabbia”. Il veterano Maggi lo vedo come un bravo direttore d’orchestra: sa che gli studenti sono come strumenti musicali tutti diversi, ognuno a suo modo meraviglioso. Il compito dell’insegnante è quindi saper scoprire e valorizzare le potenzialità di ognuno, permettendogli di spiccare, ma in armonia con gli altri.

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