I docenti non si arrendono. Lettera

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Inviato da Linda Ciano – Non ci credo… Non posso e non voglio crederci… Invece, è esattamente così! L’ennesimo insulto al nostro lavoro, alla nostra professionalità e ai nostri sacrifici che, al tempo di messer virus, si sono esponenzialmente moltiplicati.

È domenica e, dopo interminabili giorni di videolezioni preparate in remoto ed editate da me – che non sono propriamente una “nativa digitale” o una docente con spiccate caratteristiche “nerdiane” – di videoconferenze mattutine e, spesso, pomeridiane; di documenti finali; di preparazione degli scrutini e di valutazioni che, mai come in questa situazione, hanno richiesto una riflessione ed una ponderazione straordinarie… eccolo lì! L’inquisitore di turno!

Questa volta, cotanta eminenza dal giudizio veloce si chiama Alessandro Sallusti, direttore de “Il Giornale”, che si è scagliato con veemenza contro “i professori (che) stanno cercando di evitare la rottura di dover tornare al lavoro dopo quattro mesi di semi vacanza”, dopo aver premesso che “la scuola italiana e il suo corpo docente e dirigente sta scrivendo una delle pagine più squallide della sua storia”. Continua: “Se in tempi normali tutto questo potrebbe essere classificato tra le tante storture e furbizie del pubblico impiego, in tempi di pandemia suona come una vera vigliaccata”.

Qualche considerazione, mio egregio direttore, sugli insegnanti “vigliacchi”, che non possono anelare a diventare modelli educativi per i nostri giovani, sempre secondo il suo parere. Quanti mi conoscono bene possono serenamente testimoniare che io amo la scuola visceralmente, credo nell’educazione come strumento di miglioramento etico della società e sento, talvolta anche con una carica eccessiva, tutta la responsabilità del mio essere educatrice, innanzitutto e soprattutto. È la motivazione imprescindibile per cui oggi asserisco con forza la mia stanchezza verso i soliti noti che fondano le loro teorie e formulano le loro certezze sull’odioso e incancrenito clichè del “i professori lavorano diciotto ore settimanali e stanno in vacanza quattro mesi all’anno”. Basta. Le diciotto ore settimanali non sono mai esistite, perché, mio gentile direttore, il nostro lavoro continua a casa tra correzioni, preparazione delle lezioni e preoccupazioni per i nostri ragazzi. In una società dove la vera devastazione va ricercata nella complessità delle relazioni sociali, dell’alterazione del concetto di “famiglia”, della martellante proposta di disvalori che domina il mondo mediatico e informativo, noi siamo come una “nota stonata”, e il nostro canto “fuori dal coro” si fa talvolta disperato, mai arrendevole tuttavia.

Nei mesi della pandemia, mio esimio direttore, chini sui NOSTRI PC – non quelli forniti dall’azienda – irretiti da un costante sentimento di inadeguatezza e di impotenza, abbiamo “educato”. Nel senso etimologico del termine. Abbiamo cercato di “trarre fuori” dai nostri ragazzi le loro paure, le loro ansie, il loro senso di disagio in un mondo che ha giocato e continua a giocare la sua scommessa sulla pelle dei giovani. Abbiamo instancabilmente lavorato con e per i ragazzi, con connessioni carenti, strumenti inadeguati, tempi dilatati. E noi saremmo dei vigliacchi? Le potrei raccontare di maestre che hanno bussato alle case dei loro studenti meno abbienti per consegnare i compiti quando era ancora possibile. Le potrei raccontare di scuole, come la mia, che hanno consegnato pc e device a ragazzi in difficoltà. Le potrei scrivere di genitori che mi hanno chiamata, piangendo, per raccontarmi la tragedia dei loro lutti familiari. Le potrei parlare di colleghi che, alla soglia della pensione, si sono reinventati nella veste di “digital seniors”.

Le potrei descrivere la collaborazione e la comprensione che hanno contraddistinto la nostra fatica degli ultimi mesi. Le potrei leggere le innumerevoli lettere che i miei alunni hanno scritto per esprimere il loro dolore, capire un evento per loro incomprensibile, confidare la sofferenza per la morte dei propri nonni. Avrei voluto mostrarle i nostri volti preoccupati, lo sforzo di un sorriso e di un “buongiorno”. Avrei voluto farle ascoltare il flebile suono delle voci stanche di ragazzi costretti a stare in casa, guardando il mondo dischiudersi sulla loro adolescenza, ma da una finestra. Siamo stati vicini ai nostri giovani, con i nostri limiti e la nostra forza, con i nostri personali malesseri e l’ardore di portare speranza e rassicurazione. E noi saremmo vigliacchi???

Mio stimato direttore, un modesto suggerimento da un’insegnante che nella scuola delle contraddizioni e dell’educazione crede fermamente: la prossima volta, non abbia così tanta solerzia nel voler etichettare e additare con toni perentori e sbrigativi. Nell’incertezza dell’oggi e del domani, noi siamo ancora chini sui nostri pc, con gli occhi gonfi e la costante preoccupazione per i nostri ragazzi, il nostro futuro. Si sforzi di guardare tra le righe e oltre la banale semplificazione di un microcosmo, quello scolastico, molto più complicato e variegato, di ciò che lei ha ritenuto opportuno rappresentare con tanta univoca superficialità. È l’ennesima ferita. Ma io non mi arrendo. Noi non ci arrendiamo.
La tolleranza è una conquista dell’educazione e una sconfitta del pregiudizio.
Lo ha detto Emanuela Breda. Io lo asserisco con piena consapevolezza.

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