“Gli studenti non sono anime perse, soggetti pericolosi e personaggi in cerca d’autore, fermate la legge che introduce discipline non cognitive. Vi spiego perché”. Intervista al prof. Bagni

Ha scritto di recente Giuseppe Bagni, presidente del CIDI (Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti), che si fa fatica a commentare il Ddl approvato dalla Camera lo scorso 11 gennaio che prevede l’introduzione sperimentale e volontaria di discipline non cognitive nei percorsi formativi. Uno sdegno che nel giro di poche frasi diventa l’invito a fermare in tutti i modi possibili l’iter legislativo di questa proposta.
Dietro di essa, spiega il Presidente, si cela una visione distorta della scuola, una sorta di malato in terapia intensiva che ha bisogno del massiccio intervento di parametri aziendalisti per rivitalizzarsi e che, in sintonia con tutto questo, d’ora in avanti dovrebbe andare sempre più a valutare negli studenti ‘amicalità’, ‘stabilità emotiva’, ‘apertura mentale’, attitudini finalmente slegate dai saperi disciplinari e altamente funzionali al contesto produttivo. Il discorso si lega poi all’Esame di Maturità: Bagni è d’accordo nel considerare la seconda prova a carattere non nazionale una breccia che rischia di minarne la serietà, la credibilità e, con esse, anche il valore legale.
Finisce l’egemonia del cognitivo e inizia quella della psicologia della personalità: quale idea di scuola hanno i promotori di questo Disegno di legge? Quale linea pedagogica lo supporta?
“Credo che dietro ci sia una pedagogia che vorrebbe ridurre l’insegnamento a leggere, scrivere e far di conto, per poi dare centralità ad azioni che vadano a incidere sul carattere, sulla capacità di creare legami, superare ostacoli, sulla parte più intima delle persone, per forgiarne il carattere, come è stato detto. Emerge una idea pericolosa e quasi distopica dell’essere umano, come se gli studenti fossero anime perse, soggetti pericolosi da plasmare secondo regole economiche, personaggi in cerca d’autore, quando sono loro gli autori e spetta solo a loro scrivere la sceneggiatura della loro storia. Colpisce l’unanimità della Camera nell’approvazione del Ddl perché mostra una distanza netta, quasi una estraneità dei nostri parlamentari dal mondo della scuola, che da anni nei suoi documenti fa riferimento a valori come la partecipazione, la cooperazione per il conseguimento di obiettivi comuni, oppure la capacità di iniziativa autonoma, di utilizzo delle risorse per risolvere un problema”.
C’è un po’ l’idea – come giustamente scrivi – che dimensioni come la coscienziosità o l’apertura mentale siano insegnabili direttamente dalla cattedra…
“Esattamente: tutte queste importantissime attitudini sono il risultato della metabolizzazione personale delle conoscenze acquisite, dei legami costruiti, delle esperienze vissute dagli studenti nella scuola. Chi si entusiasma di fronte a uno scenario come quello descritto dal Ddl ha forse in mente docenti che insegnano dando da studiare “da pagina a pagina”. Non voglio difendere la scuola così com’è, sappiamo che ha bisogno di cambiamenti per compiere fino in fondo il suo mandato costituzionale, ma questa evoluzione non può essere guidata o dettata dai paradigmi economicistici del capitale umano, delle character skills o della capacità motivazionale”.
Nel documento non è citata direttamente, ma è certo sottesa, l’idea che la scuola viva relegata in una sorta di subalternità rispetto al contesto produttivo: non a caso le aziende hanno per loro natura il pallino di entrare nella personalità del lavoratore per capirne il grado di malleabilità, di abnegazione… tutto torna perfettamente! Forse i nostri deputati non hanno saputo leggere tra le righe.
“Le aziende hanno scopi diversi da quelli della Costituzione, che indica chiaramente che il compito della scuola non è cercare elementi di valutazione nell’animo dei suoi allievi, ma creare e offrire le condizioni per favorire lo sviluppo armonico e integrale della persona. Definirei a dir poco allarmante la visione della scuola che emerge da questo documento: un malato in terapia intensiva che ha bisogno dell’ossigeno di metodologie in voga nel tessuto produttivo, che ora dettano anche le linee guida dell’azione educativa. È esattamente il contrario: è la scuola che dà ossigeno, che ha al suo interno le potenzialità per cambiare la storia di tante persone e di un intero territorio. La povertà educativa non riguarda solo la scuola ma tutto il contesto ne è responsabile, e soprattutto le scelte economiche sbagliate, mentre è la scuola che deve compensare, riparare. A me pare che ci sia una sostanziale mancanza di rispetto verso il suo ruolo nella società, come si è visto anche nelle manganellate ai cortei degli studenti”.
Ecco, veniamo alle proteste degli studenti. Si sarebbero aspettati forse un coinvolgimento maggiore – e in effetti l’hanno reclamato a gran voce – in una decisione che li riguarda molto da vicino, quella sull’Esame di Stato.
“Bisognava pensare nell’ottica di una prova nazionale coerente con il lavoro svolto nelle classi, che sappiamo non è stato omogeneo. Puntare al massimo sulle capacità degli studenti nel cogliere le connessioni interdisciplinari tra le materie in una prova utile a dimostrare al meglio ciò che hanno appreso e metabolizzato nel corso del quinquennio. Lo scritto di italiano sarebbe potuto essere, o forse può ancora essere, una occasione di riflessione, un modo per collegare l’esperienza vissuta in pandemia a tutto ciò che è stato appreso a livello di conoscenze”.
Cosa pensi della seconda prova? Sarà preparata dai Consigli di Classe, una anomalia presentata come un modo per essere equi verso tutti gli studenti.
“Si è voluto reintrodurre la seconda prova per dare il segnale del ritorno alla normalità, pensando che toglierle il carattere nazionale, affidandola alla commissione, fosse la mossa sufficiente per addolcire la pillola. Tutti auspichiamo il ritorno a scelte non emergenziali, ma la normalità sancita per decreto, come se potesse essere retroattiva sugli anni di scuola trascorsi, è una bella ipocrisia. Per quanto riguarda l’equità, temo che se ne resti ben lontani: sappiamo bene che ci saranno consigli di classe che opteranno per un rigore estremo, altri che presenteranno agli studenti prove equivalenti a quelle svolte magari appena 15 giorni prima. Si crea il contrario di un Esame di Stato con le prerogative di trasparenza e di equiparazione tra le diverse scuole e le diverse aree del Paese, mentre la cosa più opportuna sarebbe stata, a mio avviso, lasciare la sola prova scritta di italiano per indagare al meglio i contenuti all’orale in un colloquio pluridisciplinare, come spiegavo prima”.
Poi c’è forse un altro aspetto da scandagliare: non so quanto sarà facile l’anno prossimo tornare a prove di indirizzo uguali per tutti, perciò nasce il sospetto che ci si possa servire di questa novità come di un cavallo di Troia che piano piano porterà all’abolizione del valore legale del titolo di studio.
“Senz’altro si apre una breccia nella serietà dell’Esame di Stato e, se le cose non dovessero cambiare nel giro di poco, ci sarà presto chi si domanderà che valore può avere un titolo conseguito in questo modo. Forse ci si è lasciati trascinare dall’idea sbagliata che per essere seria la Maturità deve essere necessariamente anche selettiva: non sono d’accordo, l’Esame di Stato deve essere serio per essere un momento rilevante per lo studente, è lui il soggetto pluridisciplinare, è lui che dovrebbe avere consapevolezza di essere capace di stabilire le connessioni tra i diversi linguaggi e i diversi stimoli che ha ricevuto nel corso degli anni. L’esame di maturità in altre parole dovrebbe avere una logica opposta a quella sottesa ai test: pensato così non avrebbe creato tutta questa rabbia che ora può esplodere”.