Giannelli (ANP): sottrarre studenti da terrore valutazione, stop ansia dei programmi. Docenti formati. INTERVISTA

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Modificare profondamente le prassi didattiche in tutte le aule delle nostre scuole, con un piano realizzato unitariamente su tutto il territorio nazionale secondo le modalità della clinica. Sottrarre gli alunni al terrore della valutazione dell’errore in matematica e all’ossessione della valutazione.

Smetterla con l’ansia di finire il programma, esigenza soddisfatta “a scapito dello sviluppo di un’adeguata competenza relazionale”, introdurre l’approccio erotico recalcatiano dell’“Ora di lezione”.

Procedere con più coraggio verso “l’individuazione di un percorso che fornisca alla scuola veri professionisti positivamente formati e non docenti laureati e in possesso di competenze disciplinari ma privi degli attrezzi del mestiere”. Il tutto, con gentilezza. Una bella sfida, quella lanciata da Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp), con il suo libro intitolato “Rivoluzionare la scuola con gentilezza”, Ed Guerini e associati, 230 pagine, appena arrivato in libreria, un libro che tutti i docenti dovrebbero leggere e nel quale l’autore mette insieme gli interventi di alcuni studiosi che da tempo hanno preso a cuore le sorti della scuola italiana.

Rivoluzionare. Con gentilezza. Un ossimoro, almeno in apparenza. Ma si tratta di un ossimoro voluto dall’autore, che propone di ricorrere a varie forme di pungolo e di incentivo psicologico, mutuati dalla “Nudge, la spinta gentile” dell’economista Richard Thaler, “per tentare – spiega Giannelli – di modificare delle abitudini radicate ma sbagliate e controproducenti”. Si propone cioè “una teoria del cambiamento che, anziché vietare i comportamenti irrazionali e imporre quelli razionali, si limiti ad architettare e mettere in atto meccanismo che, per quanto irrazionali essi stessi, ci spingano nella direzione giusta”.

La direzione, immaginata da Giannelli e dagli autori di vari capitoli del libro, parte dalla consapevolezza che occorra fare qualcosa di importante, di decisivo. Che la scuola non possa più stare a guardare. Che il futuro non possa più aspettare. E che occorra riportare l’istruzione in cima alle priorità del sistema e della politica. Dunque si parte dalla constatazione che i problemi oggettivi sono sotto gli occhi di tutti. Giannelli non ha fatto in tempo a citare le riflessioni del ministro dell’Istruzione, con cui Lorenzo Fioramonti ha motivato le proprie dimissioni di Natale. Sarebbero state l’occasione nuova, uno spunto ulteriore, glielo chiederemo nell’intervista. Ma ha potuto far proprie le preoccupazioni scaturite dal Rapporto sulle prove invalsi 2019, gli esiti Pisa e altri risultati che richiamano l’urgenza di intervenire sul pianeta istruzione con la massima celerità, poiché il cambiamento non è più differibile.

Modificare che cosa?

Non si dibatte a sufficienza si difetti del sistema scolastico ma le modifiche strutturali sono urgenti. Ma modificare che cosa? Intanto occorre prendere coscienza che siamo nel 2020. Giannelli ricorda che l’organizzazione scolastica è stata immaginata pensando al lavoro nelle fabbriche, con una didattica finalizzata all’ammaestramento e alla demonizzazione dell’errore mentre la società attuale richiede forti dosi di creatività nei giovani e nei lavoratori, creatività che mal si concilia con una prassi scolastica che “frustra le risposte sbagliate e inibisce nei discenti i tentativi di fornire risposte creative e non standardizzate alle domande e ai quesiti posti dai docenti, negando alla radice il valore epistemologico del metodo di apprendimento basato su tentativi ed errori, che è invece alla base della ricerca scientifica”. E invece sarebbe ora di voltar pagina e considerare bravissimo non l’alunno che dice ciò che il docente vuol sentirsi dire in situazioni cognitive standardizzate, ma lo studente che propone risposte e soluzioni originali a un problema nuovo, assumendosi la responsabilità di sbagliare. E qui urge cambio deciso di paradigma, dacché occorrerebbe accompagnare il processo di iperspecializzazione degli apprendimenti scolastici con un superamento progressivo ma sostanziale delle barriere esistenti tra una disciplina e l’altra, gelose reciprocamente, agli occhi dei docenti, della propria sovranità. “I confini tra le discipline non sono più concepibili come confini lineari di netta separazione”, scrive Giannelli. Sono semmai “aree di interazione, spazi intermedi ove nascono i problemi più interessanti, gli approcci più originali”.

Oltre le discipline

È questa una tesi che rimanda al contributo degli autori che sottolineano l’idea intitolata “Oltre le discipline”. Oggi, spiegano gli autori (Maria Guida, Elena Mosa, Silvia Panzavolta) “i docenti più sensibili cominciano ad avvertire lo stridente contrasto tra insegnare per discipline chiuse in rigidi steccati e vivere al contempo in un mondo sempre più complesso e interconnesso che necessita di un approccio integrato, olistico interdisciplinare”. Questa idea “promuove l’approccio transdisciplinare alla conoscenza, organizzando il curricolo attorno a nuclei essenziali, grazie a una progettazione collegiale a vari livelli, e propone un frame-work organizzativo-pedagogico che permette il passaggio dalla didattica per contenuti alla didattica per competenze e che sostenga e renda strutturale, anziché episodico, il processo innovativo”. Le materie, spiegano gli autori, non vengono cancellate, “piuttosto cambia il modo attraverso il quale gli studenti si rapportano alle fonti di conoscenza nei contesti di apprendimento. A questo scopo vengono promossi metodi attivi e laboratoriali coerenti con un approccio induttivo, che si realizzano mediante una riprogettazione dell’orario scolastico, spesso a classi aperte, che prevedono compiti di realtà che si concretizzano nella realizzazione di un prodotto finale il quale, sottoposto a una valutazione autentica, obbliga alla concretezza, al coordinamento tra docenti diversi e a riferirsi a un ‘committente’ esterno alla scuola o almeno alla classe”.

Insegnanti, fattore decisivo

Per Licia Cianfriglia il fattore decisivo sono gli insegnanti. “Non abbiamo più alibi – scrive lei in uno dei capitoli del libro di Giannelli – Intervenire sul capitale umano è la vera strada per cambiare la scuola e il cambiamento non può più attendere. Non possiamo ignorare i risultati preoccupanti delle indagini nazionali e internazionali che ci raccontano di un sistema educativo che lascia indietro percentuali troppo alte di giovani, che non raggiungono livelli accettabili neppure nelle competenze di base. E non possiamo continuare a sottovalutare il mancato un match tra i profili in uscita dal nostro sistema formativo e le competenze richieste dei contesti produttivi, che nega un futuro lavoro a tanti ragazzi e lascia le aziende prive delle persone di cui hanno bisogno. In un contesto che cambia velocemente sotto la spinta dell’innovazione tecnologica, la scuola non può restare a guardare e deve assumere in modo nuovo la responsabilità di promuovere negli studenti l’acquisizione di apprendimenti di qualità e di competenze utili per la vita per il lavoro”. Eppure tante sono le resistenze, denuncia l’autrice, da parte di un sistema che tende ad autoconservarsi. Tuttavia la creatività, scrive Cianfriglia, non si arrende “e tante idee continuano a nascere sotto la spinta di dirigenti e docenti innovatori irriducibili”.
Una sfida, abbiamo detto all’inizio. Un progetto ambizioso, insiste l’autrice: “Un progetto di trasformazione ambizioso – scrive Cianfriglia – da affidare alla guida dei dirigenti della scuola, garanti dell’offerta formativa, fornendo loro adeguate leve di gestione del personale, fulcro chiave di un possibile miglioramento”. All’autrice non sfugge certo la necessità di provvedimenti, drastici e a tratti dolorosi, che investano il sistema del reclutamento e della formazione. E se il primo deve “essere liberato dalla gabbia paralizzante delle graduatorie del criterio di anzianità, che non consentono l’assegnazione del personale alla scuola e alle classi secondo criteri di competenza e merito”, la formazione non prevede sconti. La soluzione immediata e urgente, secondo Cianfriglia, “è in un imponente piano di formazione degli insegnanti in servizio, che si discosti con decisione da quanto fatto fino ad ora”. Questo nel breve periodo, puntando sugli insegnanti in servizio, molti dei quali non sono giovanissimi, “modificando profondamente”, entro i prossimi dieci anni, “le prassi didattiche in tutte le aule delle nostre scuole, attraverso la formazione obbligatoria all’uso didattico delle tecnologie e all’acquisizione di strategie e metodologie che sollecitino la motivazione degli studenti e le loro diverse forme di intelligenza”. Cianfriglia è convinta che il futuro della scuola sarà condizionato dalla qualità dell’insegnamento, un fattore effettivamente e colpevolmente trascurato negli ultimi decenni. Invece occorre procedere con più coraggio verso “l’individuazione di un percorso che fornisca alla scuola veri professionisti positivamente formati e non docenti laureati e in possesso di competenze disciplinari ma privi degli attrezzi del mestiere”. Che un piano imponente di formazione in ingresso per i nuovi assunti e di formazione continua non sia più procrastinabile è chiaro a tutti anche se il tema è spesso dribblato. Ma l’autrice parla anche di “mancanza di coraggio nel definirne uno di livello universitario destinato in modo esclusivo alla docenza nella scuola, mettendo in discussione l’intero modello di formazione culturale di tipo accademico”. Serve questo ma serve anche rivedere il sistema delle retribuzioni gli insegnanti, “che ne adegui i livelli a quelli dei colleghi europei anche eventualmente rivedendo negli orari di servizio”. L’effetto sicuro sarebbe, secondo Cianfriglia, “quello di attrarre alla docenza nella scuola secondaria anche le eccellenze, che ora preferiscono altri impieghi più redditizi e di maggiore soddisfazione professionale, ed eviterebbe all’insegnamento di essere considerato una scelta residuale o di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare”.

Ma veniamo agli studenti.

Di quale scuola hanno bisogno i nostri figli? Non quella della (attuale) complicazione) ma quella della complessità. E’ questo il nocciolo della questione affrontata con passione da Leonardo Previ, che fa dire al titolo del suo capitolo: “Lasciamo che i nostri figli s’innamorino della complessità”. Prima che andare a scuola diventasse un obbligo, scrive Previ, “gli umani adoravano imparare. Non che ora lo detestino, semplicemente le cose che stanno loro più a cuore le imparano lontano da scuola”. Un dato di fatto dal quale non si può prescindere. E affinché la scuola si riappropri della propria capacità seduttiva, il sistema si deve interrogare in merito alla domanda? Di quale scuola c’è bisogno? E ancora: chi sono i nostri ragazzi migliori? “Credo si possa ormai dire a voce alta che gli studenti più capaci, quelli che suscitano il ribrezzo dei valutatori e l’affetto degli innovatori, cioè gli studenti che hanno intuito quando non compreso che fuori da quell’aula sono attesi dalla complessità, sono quelli che nella scuola della complicazione vanno male, prendono brutti voti, sono svogliati, non stanno attenti, non stanno fermi. Dovremmo deciderci a constatare che c’è molta intelligenza nella insubordinazione scolastica; senza questa constatazione è difficile comprendere dove ci troviamo”. Di quale scuola ci sarà bisogno? Non quella dell’angustia. “Le nostre scuole – conclude Previ – sono diventati tristi, sembrano covi di burocrati. Non si impara nulla senza gioia”.

Riprogettare la matematica

E che cos’è che s’impara peggio nelle nostre scuole? Quale sarà mai la disciplina che crea maggiore angoscia negli studenti, quella dove si attestano i peggiori esiti nazionali e internazionali? La matematica. Che va ripensata. “Riprogettare il curriculum di matematica” è il titolo dell’intervento di Lorella Carimali, che snocciola i dati del mezzo disastro in tema di competenze in matematica. Dati che, scrive l’autrice, “rivelano che i ragazzi, e in prevalenza le ragazze, oggi non sono in grado di decodificare la realtà che li circonda, di risolvere problemi quotidiani con un certo tasso di complessità, come quelli che riguardano le questioni economiche e/o statistiche. Eppure in un mondo in continuo divenire come il nostro la competenza matematica, intesa come un modo di affrontare la vita con fantasia e spirito critico, risulta fondamentale per essere cittadini liberi”. Carimali è convinta che molti di questi giovani saranno “destinati a diventare adulti analfabeti funzionali, cioè incapaci di applicare le abilità matematiche nelle situazioni della vita quotidiana, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si troveranno a vivere, con l’impossibilità di prendere decisioni autonome senza subire condizionamenti e quindi non potranno esercitare il loro diritto costituzionale di essere cittadini e cittadine liberi”. Se è così, va da sè che occorra ripensarla, la matematica, introdurre una didattica innovativa e più efficace, agendo anche sul piano motivazionale. “Gli alunni – spiega l’autrice – sono motivati quando riconoscono una coerenza del percorso formativo con le loro esigenze, i loro interessi, i loro obiettivi personali al mondo che li circonda”. Magari introducendo in classe un clima sereno di lavoro “non condizionato dall’ossessione per la valutazione”, trasformando il tempo e l’errore da nemici in amici. E basta con il luogo comune secondo cui molti si convincono che per la matematica io non sono portato. Poiché l’intelligenza, scrive Carimali, citando Reuven Feuerstein, è educabile e rieducabile “e l’insegnante in questo caso è l’agente di cambiamento, cioè il mediatore. Il suo compito è quello di fare in modo che il soggetto divenga consapevole dei propri processi cognitivi, impari ad imparare dalle situazioni e in tal modo riesca ad apprendere in modo sempre più autonomo, potenziando progressivamente le sue capacità e la sua intelligenza. Si tratta di risvegliare, stimolare, sostenere il bisogno di conoscere di comprendere che è innato nei ragazzi, ma che spesso viene trascurato impedendone, così, l’espressione. In questo caso i ragazzi diventano dei bravissimi esecutori di procedure ma non le padroneggiano perché le hanno imparate meccanicamente e quindi non hanno acquisito competenze matematiche, ma solo conoscenze e abilità procedurali che non sanno trasferire in ambiti diversi”.

Già, una bella sfida. E tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo tanto lavoro, immane, da fare. C’è da cambiare tutto, altro che gentilezza. Togliere la paura della valutazione e del voto, presentare i problemi, insegnare a pensare matematicamente, insegnare a imparare dagli errori, trasformare il docente in un coach, allungare i tempi, fare in modo che i ragazzi credano nei propri docenti, lodare l’impegno e non i risultati, far correggere le verifiche agli studenti, rivedere i libri di testo. Una bella sfida, una vera rivoluzione, da condurre con gentilezza, certo, ma anche con la dovuta efficacia nel coinvolgere gli attori principali su cui si regge lo sperato cambiamento. Poiché, per dirla con Antonello Giannelli, “nessun docente pensi che sarà ascoltato dallo studente per ore solo perché è un docente”.
Tanti gli interventi contenuti nel libro, come si diceva. Oltre agli autori sopra citati, vanno ricordati gli interessanti interventi di Paola Lisimberti (Fine delle trasmissioni), Marco Braghero (La Finlandia: una comunità educativa che funziona), Alberto Cassone (La Folkeskole danese: all’opposto estremo dell’Europa), Maurizio Gentile (La valutazione, strumento essenziale per l’apprendimento), Cristiana Pivetta (Un’esperienza di apprendimento globale ‘oltre le discipline’), Annamaria Porru, Laura Mattera, Natalia Reoyo Serrano (Scuola ed emozioni: il ruolo della neuroeducazione).

Intervista all’autore

“Noi continuiamo sempre a pensare ai venticinque, trenta studenti che ascoltano la lezione con diligenza, che poi vanno a casa a studiare, accanto alla mamma che li aiuta, e che il giorno dopo tornano a scuola e ripetono quel che hanno studiato. Ecco, questo modello non c’è più, è finito. Bisogna cambiare impostazione. Per imparare l’analisi del testo non devi per forza farlo come dice il professore se quel testo non ti piace. Sceglierai magari un testo di Bob Dylan, l’importante è che tu lo faccia. Ma ci vuole una classe docente più formata e da noi non è possibile”. Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione Nazionale Presidi, è l’autore del volume “Rivoluzionare la scuola con gentilezza. Idee e proposte didattiche per vincere una delle maggiori sfide del XXI secolo”, nel quale ha raccolto gli interventi di alcuni esperti di istruzione, scuola e formazione.

Rivoluzionare con gentilezza. Presidente Antonello Giannelli, con tutto quello che lei e gli altri autori di vari capitoli proponete nel libro, e vista l’urgenza che è sottesa ai cambiamenti richiesti, il titolo sembra un ossimoro.

“Questo libro vuole essere una collezione di stimoli. Il titolo riprende quello del fortunato saggio ‘Nudge, la spinta gentile’ dell’economista Richard Thaler, laddove nudging sta per esigenza di pungolo, di incentivo psicologico, di stimolo, appunto. Da un lato è necessario cambiare molte cose nella nostra scuola,mcon la velocità tipica delle rivoluzioni, dall’altro lato non ha senso imporre una cosa del genere dall’alto. Non ha senso farlo con qualche circolare, sarebbe una visione burocratica che non va bene per l’insegnamento. Occorre farlo con gentilezza”.

La società è cambiata, la scuola sembra non essersene accorta fino in fondo. Sembra questo il filo conduttore che lega tutti gli interventi che ha raccolto nel volume.

“Non ne faccio una colpa a nessuno. Non c’è una volontà di restare arretrati. La società è complessa e ciò che è accaduto è che mentre il sistema scolastico fa fatica a cambiare invece la società sta cambiando rapidamente, le dinamiche sono diverse. Ed è un problema culturale di cui non si parla. Si parla di crocefissi, di aumenti di stipendio pur giustificati, di necessità di assumere i precari. Ma non si parla mai di ciò che serve all’istruzione, di quel che occorre agli studenti e al Paese. L’istruzione è un problema del Paese ma questo da noi non è stato compreso”

Perchè?

“Le ipotesi si possono sprecare. In Italia difettiamo di cultura scientifica. L’impostazione gentiliana rispetto alla cultura scientifica ha dei pregiudizi. C’è una scarsa tendenza ad adattare i modelli teorici ai fatti. È così, ogni volta che si attua una riforma non si attende mai di vedere se ha funzionato, ma si dice che non funziona senza aspettare di vedere se funziona. C’è questo atteggiamento antiscientifico”.

Il libro denuncia la frammentarietà dei saperi

“Viviamo in epoca si iperspecializzazione. Questo fa sì che una persona sappia poco di vari argomenti. Il ruolo della scuola è quello di dare senso a questa frammentarietà. Occorre insegnare non solo le singole nozioni ma a imparare a cogliere i nessi. Quello che si direbbe, con un altro linguaggio, capacità di giudizio critico. Invece l’insegnamento è centrato sulle nozioni. In tutte le occasioni dove sono stato presidente di Commissione agli esami di Stato ho notato che il sapere dei ragazzi ha sempre un fondamento nozionistico. Ma non è questo quel che serve. Occorre un forte investimento sulla formazione”.

Nel libro si scrive che lo studente che prende 10 è spesso colui che dice quel che il docente vuole sentirsi dire…

“… e possibilmente con le sue parole. Verissimo. Occorre invece premiare l’originalità e la capacità di argomentare bene anche una tesi sbagliata, che sia fuori dagli schemi. Del resto è quel che si fa con i debate, ora di moda. Il presentare argomenti e tesi, fondate, da parte dei ragazzi, nei dibattiti, è una buona pratica. Ho sempre cercato di ascoltare gli studenti. Dal punto di vista educativo è molto importante stimolare gli studenti alle proposte. La scuola è frustrante perché richiede che lo studente dia delle risposte preconfezionate. La ricerca delle risposte non convenzionali non è premiata come prassi didattica. Se ci pensa, la preoccupazione dei nostri studenti è quella di sapere che cosa i docenti vogliono sentir dire, poiché lui sa che non sarebbe premiata l’originalità. Ma così s’insegna il conformismo. D’altronde, se pensiamo alla storia delle scoperte scientifiche, scopriamo che le scoperte più grandi venivano subito ridicolizzate, prima di essere apprezzate per le novità che apportavano. La vicenda dell’accrescimento della cultura grazie alle scoperte e alle intuizioni è un processo che non riusciamo a riprodurre nelle aule. È tutto artificiale, rispetto a ciò che accadeva un tempo”.

Un tempo era tutto diverso?

“La società, un tempo, era diversa. La nostra scuola era impostata per una piccola élite, gli altri andavano a fare gli operai e i contadini. Oggi un approccio del genere sarebbe fallimentare. Tutti devono contribuire alla ricchezza collettiva e se la dispersione scolastica che ne risulta è così alta si produce un grave danno alla collettività, dunque non è più accettabile quel modello. Serve un’elevata cultura per restare nel gioco della collettività. Oggi gli operai operano con le macchine a controllo numerico, controllano i robot. Devono restare aggiornati, e quindi c’è l’esigenza di una formazione continua che però non è praticata a causa di retaggi culturali del passato. Pensiamo agli Its, gli Istituti tecnici superiori, che non sono praticati. Nonostante tutti sappiano che servono e che tutti coloro che li frequentano trovano subito un posto di lavoro, non sono incentivati”.

Confermo, poiché mi è capitato di insegnarvi. Ma perché succede questo?

“C’è molto pregiudizio. Vuol mettere il frequentare un’università accademica? Si pensa ancora che laurearsi in lettere sia più elevato che essere specializzato in un Its. E poi ci sono problemi di costo. In media è un sistema molto positivo, una cosa molto interessante, ma costa. Le dimissioni del ministro dell’Istruzione da questo punto di vista ci dicono con maggior chiarezza che gli investimenti nel settore dell’istruzione sono inadeguati perché non abbiamo la cultura per investire in istruzione e ricerca. Non capiamo che l’investimento paga, non subito, ma dopo un po’ di tempo sì, e quindi non abbiamo la cultura per capire che l’investimento nel settore è strategico perché porta a dei guadagni dopo un po’. E quindi si taglia invece che investire. È una politica miope. In Finlandia una cosa del genere non si mette in discussione”.

È solo un problema di risorse?

“C’è un problema di risorse e un problema di regole organizzative. Ritengo che si debbano dare più poteri ai presidi: se le cose non vanno bene, questi dirigenti si prendono le responsabilità. Da noi c’è solo un grande pregiudizio culturale e il risultato è che non riescono a gestire le scuole. Io sono per la responsabilizzazione delle persone, invece si tende a non responsabilizzare e a essere indulgenti”.

Entriamo nel dettaglio di alcune questioni. Nel libro si parla di superare l’ossessione per il programma

“La prassi didattica consiste nel dispensare tantissime nozioni pur di finire programmi anzichè concentrarsi su pochi argomenti sui quali andare in profondità e stimolare il giudizio critico”.

Il volume sottolinea che l’autorità parentale è venuta meno e che questo si riflette sui docenti.

“Succede in tutto l’Occidente. Nell’arco dei secoli il principio di autorità dei genitori sta scomparendo nell’Occidente. Prima i genitori sceglievano il destino dei figli, chi sposare, quale mestiere intraprendere. Oggi nessuno pensa più di dire ai propri figli cosa fare o chi sposare. Prima i figli erano proprietà dei genitori. Oggi lo Stato sottrae i bambini, se i genitori non riconoscono i loro diritti costituzionali. Il principio di autorità viene sempre meno, e quindi quando a scuola manca di rispetto verso i docenti, questo va visto come un riflesso. Ma noi non possiamo mandare via da scuola il 30 per cento dei ragazzi solo perché questi ragazzi non riescono a stare irreggimentati in classe. L’alternanza scuola e lavoro risponderebbe proprio a questo. Noi continuiamo sempre a pensare ai 25/30 studenti studenti che ascoltano la lezione con diligenza, che poi vanno a casa a studiare accanto alla mamma che li aiuta e che il giorno dopo tornano a scuola e ripetono quel che hanno studiato. Ecco, questo modello non c’è più, è finito. Bisogna cambiare impostazione. Per imparare l’analisi del testo non devi per forza farlo come dice il professore se quel testo non ti piace. Sceglierai magari un testo di Bob Dylan, l’importante è che tu lo faccia. Ma ci vuole una classe docente più formata e da noi non è possibile”.

In uno dei capitoli l’insegnante viene immaginato come un coach, un facilitatore.

“Il punto è che bisogna intendersi sui termini. Il docente che ammannisce informazioni non serve più perché chiunque, quelle informazioni, le trova da solo su internet. Quel dicente serviva cento anni fa. Oggi serve un docente che insegna a ragionare e a collegare le informazioni in maniera critica”.

Gli insegnanti sono un fattore decisivo per la scuola e per il suo rilancio e nel libro questo concetto viene sottolineato quasi in ogni pagina. Come se ne esce?

“Con un piano di formazione massiccio e capillare. Un’altra mia idea è che la formazione debba essere di tipo clinico. Non possiamo formare i docenti, insegnando loro a insegnare, con delle lezioni teoriche fatte in aula. Pensiamo al giovane medico. Lui deve seguire una clinica in cui affianca il medico per vedere come si opera, come viene suturata una ferita, se no non sarebbe un medico. Lei si farebbe operare da un medico che fosse diventato medico senza questo tipo di formazione? Invece affidiamo tranquillamente i nostri figli a insegnanti che spesso non sono formati. Vediamo la scuola come un servizio di baby sitting, questa però è una visione sbagliata. Occorre riuscire a mettere a sistema quelle che sono ottime prassi, presenti in realtà singole, che altrimenti restano estemporanee. Abbiamo docenti straordinari. A questi docenti dovremmo chiedere di insegnare agli altri docenti come si fa questo lavoro, ma non lo facciamo”.

Sostenete che occorra riformare radicalmente e con coraggio reclutamento e formazione.

“Sarebbe la chiave di volta. Non si può gestire un milione di dipendenti dettando le regole dal centro. Invece bisognerebbe scegliere con oculatezza i dirigenti, verificare gli esiti degli apprendimenti e correggere gli errori, intervenendo dove non va bene. L’esempio della Finlandia è illuminante. Lì non esistono le scuole private e quindi le uniche sono pubbliche e quindi il tema ricorrente che il privato è meglio non tiene. Penso che la scuola sia uno dei settori più importanti di qualunque paese. Non aver chiaro questo significa pregiudicare il futuro della collettività. Auspico che si sviluppi un dibattito, al quale partecipi l’opinione pubblica, altrimenti rimane un discorso per addetti ai lavori. Quando si parla di scuola in genere si parla di crocefissi da togliere o rimettere, di precari, di buste agli esami di Stato. Quando cominciamo a parlare di come si insegna? Ce lo diciamo nei convegni ma poi finisce lì. L’esigenza di un buon servizio sanitario e più sentita rispetto a quella per un buon servizio scolastico”.

Torniamo alle dimissioni del ministro dell’Istruzione. Come le ha giudicate?

“Io credo che da un lato occorra dare un riconoscimento alla coerenza del ministro. Siamo così poco abituati a qualcuno che rinuncia alla poltrona che cerchiamo subito delle dietrologie. La decisione del ministro Fioramonti serve a mettere in luce che l’istruzione non è considerata in alto tra le priorità. Si parla solo per dire che bisogna assumere 50.000 docenti, che pure vanno assunti, ma il dibattito sull’istruzione è un’altra cosa. Significa chiedersi come fare per consentire che i nostri ragazzi si inseriscano proficuamente nella collettività. Non solo sul piano occupazionale, si tratta di insegnare ai ragazzi a interloquire proficuamente e correttamente con gli altri.

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