Galimberti: “Il cellulare ci rende paranoici. Non è tecnica, è patologia”. Il filosofo svela i danni nascosti dello smartphone: addio alla socializzazione vera

Il cellulare, onnipresente compagno delle nostre giornate, non è un semplice strumento tecnologico. Nelle parole del filosofo Umberto Galimberti, si trasforma in un potente agente di cambiamento sociale e psicologico, capace di alterare la nostra percezione del mondo, delle relazioni e persino di noi stessi. Un’analisi lucida e a tratti inquietante che svela i lati oscuri di un dispositivo che ha rivoluzionato le nostre vite.
Il cellulare: non solo tecnica, ma sociologia e psicologia
In video presente su YouTube e virale nelle ultime settimane, Galimberti evidenzia come il cellulare, ormai presente fin dalla primissima infanzia, non sia solo un mezzo tecnico, ma un vero e proprio strumento di socializzazione. Non regalare un cellulare a un bambino significa, di fatto, escluderlo dalle interazioni con i coetanei, dimostrando come la tecnica sia ormai “esondata” nel tessuto sociale e psicologico. Il filosofo sottolinea i danni causati dall’uso eccessivo del cellulare, citando l’incapacità di sopportare la distanza e la regressione a uno stadio infantile in caso di mancata risposta ai messaggi. L’avvento delle app di controllo trasforma le relazioni in un esercizio di paranoia e controllo generalizzato, minando la fiducia e l’idea stessa di possesso nelle relazioni interpersonali. Galimberti critica l’idea di possesso (“mia moglie”, “mio figlio”), sottolineando come l’altro sia un’entità autonoma da rispettare nella sua alterità.
Derealizzazione, desocializzazione e la cultura della performance
L’uso smodato dei dispositivi digitali porta, secondo Galimberti, a processi di derealizzazione e desocializzazione. I giovani possono “nuotare negli abissi dell’oceano senza bagnarsi” o “visitare Pechino senza andarci”, finendo per conoscere il mondo solo attraverso le immagini e i suoni veicolati dalla tecnologia. Tale passaggio da una cultura della lettura a una cultura visiva ha conseguenze negative sul cervello, che non è più costretto a tradurre i segni grafici in immagini, degradando rapidamente. La desocializzazione si manifesta nella perdita del contatto fisico e della comunicazione non verbale, elementi fondamentali per la creazione di amicizie autentiche. La schiavitù del cellulare, con l’obbligo percepito di rispondere immediatamente, è un ulteriore sintomo di questa dipendenza. Galimberti paragona provocatoriamente il nome “cellulare” ai mezzi di trasporto dei detenuti, sottolineando la privazione di libertà che ne deriva. La conoscenza del mondo avviene ormai “rientrando in casa” attraverso i dispositivi, ma si tratta di un mondo “allestito”, non della realtà autentica. La cultura della performance e dell’efficienza, imposta dalla tecnica, porta a un degrado umano, spingendo le persone a essere costantemente “up to date” e in “performance”, contribuendo all’aumento dell’uso di psicofarmaci e cocaina.
La fine del sacrificio
Galimberti affronta anche il tema del lavoro e del sacrificio nella società contemporanea. I giovani di oggi, a differenza delle generazioni precedenti, non sono più disposti a sacrificare la propria vita per il lavoro, privilegiando il tempo libero e il godimento. Tale “erosione della ricchezza accumulata dal mondo genitoriale” è vista come una conseguenza della mancanza di propensione al sacrificio. Tuttavia, Galimberti riconosce anche che non è giusto che la vita sia al servizio del lavoro, ma il contrario. In questo contesto, il filosofo lancia una provocazione, suggerendo alle organizzazioni di artigiani di creare centri per immigrati, insegnando loro l’italiano e un mestiere. La motivazione dietro questa proposta risiede nella convinzione che gli immigrati siano “biologicamente e psicologicamente più forti” dei giovani italiani, citando la loro capacità di affrontare sfide estreme per raggiungere l’Italia.