Esame di Stato: la prima prova scritta, grande assente. Lettera

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Inviata da Giorgia Loi – Non può passare inosservata la soppressione, per il secondo anno consecutivo, dello scritto d’italiano.

La prova trasversale a tutti gli indirizzi, la più potente sul piano pedagogico, la più democratica sotto il profilo sociale, la più introspettiva sul piano personale, il termometro vero della maturità, ancora una volta scompare dall’orizzonte delle priorità, immolata sull’altare di dubbie scelte politiche al punto che, per chi non se la beve tutta la storia dell’anno da ricordare, è inevitabile chiedersi dolorosamente il perché e se, per caso, non si rischi una deriva rispetto alla quale sarà difficile tornare indietro, temo.

Sui benefici della scrittura ho detto altre volte e qui mi preme sottolineare come non sia un’arte che s’impara nell’ultimo anno di scuola superiore, ma un paziente e certosino lavoro in continuo divenire, sin dal primo anno di scuola. Più si scrive, più si scoprono le infinite possibilità che ha la parola di mettere in relazione l’individuo col sé e con l’altro e di aiutarlo ad elaborare il reale.

Tutti gli insegnanti d’italiano sanno che ogni tema trasuda potentemente di umanità che si fa spazio tra le virgole e i punti e dove le idee corrono e crescono con il maturare degli studenti e l’ampliarsi del loro campo vitale ed esperienziale, perché  “il linguaggio- come diceva James Hillman- può esprimere ogni sfumatura emotiva, ed è proprio questa la sua bellezza e il suo potere.”

Ma la parola scritta di più, perché resta lì, sulla pagina bianca, a ricordarci che quel pensiero noi l’abbiamo partorito in un “qui ed ora”, rispetto al quale ci siamo poi evoluti come è nel corso naturale degli eventi.

La scrittura è memoria, dunque, identità, autodeterminazione, esercizio completo e complesso della nostra azione democratica, autoriflessione, è la vita che scorre nelle pagine autografe di chi la produce. Le parole
scritte sono “rifugio”, come mi scrisse qualche anno fa una studentessa.

Come si è potuto anche solo lontanamente pensare di privare ancora una volta i maturandi di questo diritto? È bastata una pandemia a determinare questa scelta che, fra tutte quelle che riguardano la scuola, mi pare una delle più anticostituzionali? “Non in mio nome!”, vorrei gridare se qualcuno che è al governo mi potesse sentire, se la democrazia valesse ancora qualcosa. “Non in mio nome!” È così distante, quello che diciamo agli studenti in classe, rispetto a quello che si trama nei palazzi del potere, che questa professione sta diventando alienante.

Penso che se fossi stata una maturanda in questo tempo buio, di evidente sonno della ragione, senza lo scritto d’italiano mi sarei sentita defraudata, privata dell’essenziale strumento per me identitario, autentico di esprimere me stessa fino in fondo.

Dovremmo chiederci seriamente se non si stia cavalcando questa crisi epocale per dare il definitivo colpo di spugna ad una prova che nasce con l’anima stessa della scuola, oggi palesemente deformata da una visione utilitaristica asservita alle leggi del libero mercato.

D’altronde la guerra al tema tradizionale è vecchia già di qualche anno e soprattutto è apartitica. L’economista Gavosto si lasciò sfuggire poco tempo fa come lo svolgimento dei temi si addica certo a scrittori ed eruditi, ma sia completamente inutile per il resto dei lavoratori, a servizio invece del mercato e del profitto. E i decisori politici, di anno in anno, di riforma in riforma, sotto le mentite spoglie di presunte rivoluzioni, da destra come da sinistra, stanno avallando quest’eresia pedagogica, e cioè che la conoscenza sia un’appendice della prassi e, di conseguenza, la scrittura un orpello superato della vecchia scuola novecentesca, come direbbe oggi Bianchi, probabilmente pericoloso, dico io, perché rappresenta la forma più alta di esercizio del pensiero.

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