Elogio della distanza dalle emozioni. Lettera

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Inviato da Rosa Armellino – Queste mie riflessioni sono frutto di una relazione che, come docente nell’anno di prova, ho dovuto redigere per un corso on line sullo sviluppo di competenze sociali e comunicative nella didattica a distanza.

La riflessione che vi propongo è quella relativa al ruolo delle emozioni nella didattica; aspetto che è all’ordine del giorno in molte considerazioni sulla Didattica a Distanza (DAD). Personalmente ritengo che compito degli insegnanti sia quello di offrire ai loro allievi gli strumenti per poter decifrare la realtà. Questo significa che nell’aula, virtuale o non, occorre insegnare a ricollocare le emozioni al loro posto, e non a esaltarle o valorizzarle a detrimento delle conoscenze che un insegnante deve trasmettere. È attraverso il dialogo e la parola dell’insegnante, che occorre mettere in tensione emozioni, sentimenti e pensiero logico. A questo proposito va ricordato quanto afferma Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921) in cui spiega come la massa nasce a partire dall’identificazione a un tratto del capo. Quelli che prima erano singoli individui, una volta identificati allo stesso soggetto, il capo, si trovano di colpo a fare unità, gruppo, infatuati del loro ideale e contemporaneamente accomunati empaticamente fra loro, come di lì a poco in Germania accadrà col nazismo. Freud analizza bene questo meccanismo psichico che rassicura gli individui perché dà loro un’identità che è sempre vacillante, tranne che nei soggetti paranoici, che invece sono ben ancorati al loro “io”. Le emozioni per Freud non fanno altro che mascherare al soggetto la verità del suo desiderio inconscio, per questo non faccio mie le tesi sostenute da diversi psicopedagogisti e psicologi, che per motivare gli alunni ad apprendere, enfatizzano l’empatia e le emozioni: la necessità di “carezze emotive”, come sostiene Daniela Lucangeli, professore di Psicologia dell’Educazione e dello Sviluppo all’Università di Padova, o l’importanza di dover socializzare e fare gruppo da parte degli alunni.

Questo mi ha portato a riflettere e a leggere interventi di studiosi, letterati e filosofi, che in questo periodo di quarantena stanno evidenziando la questione di cosa bisogna intendere per “presenza” e che tipo di presenza è messa in gioco nella trasmissione del sapere. Da docenti, sappiamo bene che ciò che interessa a un allievo e che può muoverlo a impegnarsi nello studio è appunto lo studium, l’amore, direi il desiderio che anima il docente e il modo in cui si pone rispetto al sapere. Nella relazione docente-discente, il docente è messo nella posizione di colui che ha un sapere che all’allievo manca e che chiede di essere colmato, ora questo fenomeno, che in psicoanalisi si chiama transfert, e che s’installa in maniera automatica ogni volta che si crea un’asimmetria fra chi non sa e chi è supposto sapere, è il primo tempo di un processo più complesso. Se si fermasse qui saremmo ancora alla fase della suggestione, quella pre-analitica per intenderci, in cui è l’altro che ha un sapere, ciò che invece un analista fa, se sa mantenere la sua posizione, è altro. Paradossalmente, infatti, non è il pieno, ma il vuoto, la mancanza, in altri termini il desiderio che comporta la caduta stessa del soggetto-supposto-sapere, che deve occupare la scena. È in questo nuovo scenario che si apre la possibilità, per l’allievo, di produrre del nuovo a partire da ciò che ha potuto reperire del discorso in cui era immerso, facendo così non cessare l’alienazione in cui era preso, ma farla sua e abitarla diversamente.

Per questo se c’è transfert di saperi è perché c’è transfert di desiderio e quindi la questione del “corpo docente” diventa centrale, perché un sapere lo si incorpora. Esso fa parte di ciò che si è diventati e non c’è vero sapere che non sia un “gaio sapere”, ed è di questo che il docente è chiamato a portare testimonianza e non, invece, di un sapere burocratizzato. Se ha senso parlare di “carezze emotive”, quindi, lo è nella misura in cui un docente sa compiere un atto, quello di elevare un vissuto alla dignità del simbolico, così come Lacan seppe fare con il vissuto traumatico di una giovane donna, a cui i tedeschi avevano deportato i genitori, trasformando la parola Gestapo, emersa dal racconto di un sogno, in un geste-à-peau, in una carezza sulla pelle.

Saremo all’altezza di sperimentare nuovi modi per portare questa testimonianza, anche nell’era del digitale? Credo che bisogna accettare la sfida, e più che essere resilienti, altra parola molto à la page, si tratta di essere capaci d’imparare a imparare che non è solo una delle competenze chiave europee raccomandate dal Consiglio dell’Unione Europea, ma direi la competenza per eccellenza dell’essere umano. La psicanalisi ci insegna che nulla si può apprendere se non facendo esperienza sulla nostra pelle di cosa significa parlare e che c’è un sapere che non si trasmette geneticamente, ma per via genealogica. È questo quello che è davvero difficile da imparare, saper cogliere che c’è un dire, l’inconscio, che resta inascoltato in ciò che si dice, come afferma Lacan ne L’étourdit. Aprire le orecchie per ricevere lo stile attraverso cui l’umano si rivela all’uomo, nella letteratura, nel canto, nella poesia, nell’arte, nella religione – come afferma lo psicanalista Christian Dubuis Santini – è la vera posta in gioco per il nostro domani a dispetto di qualsiasi pandemia.

Che il compito sia a dir poco complesso lo aveva già detto Freud per il quale psicoanalizzare, educare e governare sono tre professioni impossibili.

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