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Educare alle differenze di genere: stiamo attenti al ‘curricolo nascosto’ [INTERVISTA]

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Se è vero che è molto difficile per un docente prendere una posizione nel dibattito sulle differenze di genere, tanto incerte e complesse sono le questioni ad esso sottese (sono il frutto di un processo evolutivo?

Conta più la componente biologica o quella culturale?), diventa sempre meno eludibile un altro tipo di domanda: come regolarsi nella vita quotidiana di fronte alle situazioni di asimmetria, discriminazione, esclusione sociale che sulla differenza si fondano?

Anche perché nel suo modo di parlare e trattare gli studenti un insegnante corre più di quanto non creda il rischio di ‘etichettare’ ed imprigionare in certi ruoli o in certi stereotipi. Ne abbiamo parlato con Rossella Ghigi, Professoressa Associata in Sociologia della Famiglia e delle Differenze di Genere e Co-fondatrice del Centro Studi sul Genere e l’Educazione dell’Università di Bologna, che nel suo nuovo saggio edito dal Mulino “Fare la differenza. Educazione di genere dalla prima infanzia all’età adulta” suggerisce ai docenti percorsi di consapevolezza per riequilibrare le differenze e contrastare la segregazione formativa.

Professoressa Ghigi, chiariamo innanzitutto la relazione esistente tra educazione di genere e parità tra i sessi: in che modo educare alla diversità è il passo essenziale che bisogna compiere per disfare la disuguaglianza?

Questo è un punto fondamentale, su cui è importante fare chiarezza. Se ci poniamo l’obiettivo di contrastare una cultura che prevede ex ante una diseguale distribuzione delle risorse sulla base delle caratteristiche ascritte alle persone, allora dobbiamo intraprendere un lavoro culturale che è necessario improntare fin dall’infanzia. Alcuni sostengono che l’educazione di genere si propone di insegnare “il genere giusto” a bambini e bambine, o che essa finisca per essere confusiva. Altri affermano che essa intende trasmettere una qualche ideologia che livelli tutti rendendoci “simili”. Così facendo, si confondono due piani concettuali diversi, quello dell’essere medesimo e quello dell’essere uguale. L’opposto dell’uguaglianza è la disuguaglianza, non la differenza: lavorare per contrastare la disuguaglianza non significa eliminare le specificità di ognuno. Al contrario, significa costruire un ambiente inclusivo (non confusivo) per le differenze, un ambiente cioè adatto alla libera espressone delle singolarità e dei talenti. Il che, in una società complessa, in cui convivono in stretta vicinanza persone con background molto diversi (da questo punto di vista, è bene ricordare come il nostro sistema scolastico si possa pregiare di essere ancora relativamente poco segmentato dal punto di vista delle origini sociali rispetto ad altri), rappresenta l’ingrediente fondamentale per una convivenza democratica e civile.

Una parte consistente del suo saggio è dedicata agli insegnanti e sollecita la loro riflessione sul cosiddetto ‘curricolo nascosto’, cioè l’insieme di quei comportamenti, inconsapevoli o impliciti, che etichettano il genere degli alunni e delle alunne, orientando e condizionando in qualche modo le loro scelte. Porta esempi come ‘Bambini, ricordate alla mamma di mettere un cambio nella borsa della scuola’, ma cita anche ricerche basate su videoregistrazioni in classe che mostrano la maggiore propensione degli insegnanti a intrattenere con i maschi conversazioni più lunghe e a dare loro più informazioni. Quanto è diffusa, a suo avviso, questa consapevolezza tra i docenti italiani? C’è un segmento di scuola più propenso a riflettere su questo tema?

Esiste una diffusa consapevolezza dell’esistenza di disequilibri di genere nel nostro Paese, specie tra insegnanti e persone con un livello di istruzione medio-alto. I sondaggi ci dicono, infatti, che spesso chi ha un titolo di studio come la laurea concorda a livello teorico e politico con l’idea che sia necessaria una maggiore distribuzione del carico di lavoro dentro le mura domestiche tra uomini e donne, oppure che fare carriera sia più difficile per le donne che per gli uomini, ceteris paribus. Il punto è che questa consapevolezza poi è difficile applicarla nel quotidiano. E spesso si sposa a forme sottili di sessismo e stereotipizzazione di cui è difficile rendersi conto (il cosiddetto sessismo benevolo, per esempio, che spesso si registra nelle inchieste su insegnanti o educatori/educatrici). Quella che manca, più che una consapevolezza, è una formazione specifica sul tema delle differenze. Non è un caso se felici occasioni di autoformazione come l’appuntamento annuale di Educare alle Differenze (ormai alla sua sesta edizione in settembre) vedono arrivare insegnanti di scuole di tutti gli ordini e gradi. E’ necessaria una formazione che tenga in conto il percorso da fare, le metodologie più affermate, i segnali da tenere in considerazione, come cerco di mostrare nel mio libro. Il cui sottotitolo le dà una risposta anche alla seconda parte della domanda: si può fare educazione di genere dall’infanzia all’età adulta. Nel senso che acquisire strumenti e abilità critiche rispetto al genere (e alle differenze in generale) è utile e opportuno sia per bambini e bambine, ma anche per adulti. Nel testo, infatti, mi rivolgo tanto ai genitori quanto a chi fa educazione 0-6 anni, quanto a chi può inserire la prospettiva di genere nell’insegnamento delle discipline, fino a chi intende erogarla in università o nel luogo di lavoro.

Il suo non è certamente un mettere sotto accusa il nostro sistema scolastico, che da almeno trent’anni contempla iniziative molto serie sulla parità di genere e contro la segregazione formativa, ma si ferma anche a rilevare la forte battuta d’arresto nella direzione verso un sistema più attento che si è registrata negli ultimi anni. Una comunicazione fuorviante ha assimilato le iniziative sulla parità di genere alla cosiddetta ‘teoria del gender’, come è stato possibile? Non si tratta di una reazione eccessiva e di una grande occasione persa?

Nel testo cerco di sfatare tre miti diffusi da una vera e propria campagna di disinformazione: il fatto che l’educazione di genere sia una novità nel nostro paese, il fatto che essa risponda a un’unica ideologia e il fatto che essa complichi delle cose altrimenti semplici e “spontanee” perché “naturali”. Nel testo spiego perché questi tre assunti sono infondati. Ma in generale, cerco di spiegare come sia una pura illusione quella di appendere il genere all’attaccapanni della classe quando suona la campanella, e di poter entrare in un contesto neutro. Il genere è già a scuola, attraversa i libri di testo, le relazioni, il linguaggio. E’ necessario farsene carico, per non lasciar agire indisturbate le disuguaglianze di cui esso può farsi portatore: se non è la scuola saranno altre agenzie a parlare di femminilità, maschilità, relazioni di genere. D’altra parte, se non esiste una unica «teoria del gender» e molte sono le metodologie possibili, è anche vero che è possibile darsi uno scopo comune: contrastare le possibili sofferenze che derivano dai codici di genere.

Nella parte finale del suo saggio spiega che possono esserci diverse occasioni per inserire in maniera strutturata una prospettiva di genere nei contenuti e nel modo in cui si insegna. Vuole farci qui qualche esempio di come si possa riuscire in questa ‘integrazione’?

Nel testo faccio riferimento a una ormai ampia letteratura su come si possa insegnare una qualsiasi disciplina con un’ottica di genere, dalle materie umanistiche a quelle scientifiche. Non si tratta di inserire l’«ora di educazione al genere» o l’«ora di educazione all’affettività», quanto di riuscire ad affrontare i contenuti curricolari con una prospettiva critica. Prendiamo l’insegnamento della storia. Adottare un’ottica di genere non significa inserire le suffragette o le donne della Resistenza nel programma (passo indubbiamente da fare, certo). Si tratta di dare conto di come gli avvenimenti storici abbiano strutturato le relazioni di genere e i significati che attribuiamo al maschile e al femminile. Una storia fatta di guerre e trattati di pace, per dirla con una nota battuta, è una storia di lui (history) spacciata per la storia anche di lei (herstory). Negli ultimi quarant’anni il lavoro delle storiche ha però superato l’idea di recuperare il ruolo delle donne semplicemente come oggetti passivi dei rapporti di dominio, ma ha saputo ricostruire una forma di protagonismo femminile. Si tratta di restituire complessità a questo soggetto della storia e alle sue iniziative, ma anche di considerare una pluralità di soggetti e di fonti. Lavorando non solo sui pieni, ma anche sui vuoti. Le faccio un esempio concreto di cui ho letto il resoconto qualche anno fa. Un laboratorio di genere in una scuola primaria ha previsto la discussione della giornata dei monaci benedettini in epoca medievale e l’assegnazione di una ricerca da fare a casa: trovare informazioni sulla quotidianità delle monache. La sfida si era rivelata difficile per gli alunni, che erano tornati in classe dicendo di essere riusciti a trovare soltanto informazioni sui monaci. Questa fu in seguito l’occasione per ragionare criticamente sulle fonti e su quell’assenza di informazioni, prima di iniziare una ricerca specifica sulla vita delle monache guidata dall’insegnante su fonti secondarie.

Un insegnamento attento alle differenze di genere e orientato alla parità tra i due sessi dovrebbe potersi appoggiare anche a una editoria scolastica attenta, ma sappiamo bene che nei libri di testo per bambini e ragazzi campeggiano spesso stereotipi duri a morire…

Quelli che per Rossana Pace nel lontano 1986 erano “cliché desueti” nei modi di rappresentare uomini e donne nei libri di testo sono ancora presenti, come i più recenti studi di Irene Biemmi hanno mostrato. Le immagini di genere di molti testi scolastici non soltanto sono stereotipiche, ma poco aderenti alla realtà. Purtroppo il codice di autoregolamentazione degli editori (Polite) non ha dato i frutti promessi da questo punto di vista. Tuttavia è crescente la sensibilità verso una rappresentazione che non deve essere degradante né discriminatoria e non mancano case editrici che si fanno carico esplicitamente della questione (penso a molti albi illustrati per la prima infanzia, ricchi di immagini non stereotipiche). Recenti polemiche su un esercizio di un libro di testo per la scuola primaria, che prevedeva che la mamma “stirasse e cucinasse” e il papà “lavorasse e leggesse” hanno fatto, come si dice, il giro del web, e questo non sarà passato inosservato a chi i libri vuole venderli. Se gli insegnanti iniziassero a tenere conto di questo elemento nella scelta dei libri di testo, gli editori finirebbero per accrescere la propria sensibilità su questo. Fosse anche soltanto per ragioni di mercato.

Pensa che gli ambienti universitari siano attenti a questo particolare bisogno dei futuri docenti? C’è chi non vede di buon occhio l’approccio alle discipline così come viene proposto gli ‘studi di genere’…

L’università rappresenta sicuramente un ambiente più aperto alla prospettiva critica di genere rispetto a molti altri contesti lavorativi – probabilmente è (ancora) il più aperto. Le indicazioni per i finanziamenti europei alla ricerca inseriscono ormai ovunque il tema del genere nelle proprie parole chiave e, specie per le aree umanistiche e sociali, molti muri sono ormai caduti. Rispetto alla ricerca, più complicato è il discorso per la didattica universitaria. Come osservava anni fa Paola di Cori, si è a lungo inserito il genere “sotto mentite spoglie”, cioè senza poterlo sostanzialmente nominare nel titolo o nel programma del proprio corso e la strada ultimamente appare in salita (ma nascono anche fruttuose collaborazioni per far fronte a questo, come la neonata rete GIFTS, che riunisce studiose e studiosi di genere e sessualità di tutta Italia). Per quanto riguarda nello specifico la formazione di chi si occupa di educazione, posso dire di avere il privilegio di lavorare in un Dipartimento di Scienze dell’educazione che ha aperto un Centro Studi sul Genere e l’Educazione (CSGE) ben dieci anni fa, e che ha inserito nei piani di studio di alcuni corsi, come quello per Educatore sociale e culturale, materie dedicate al genere. Diverso è il discorso per Scienze della Formazione Primaria, il cui curriculum è stabilito a livello nazionale. In ogni caso, l’università non è una roccaforte isolata dal resto ed è chiaro che agisce e risponde a quanto emerge nella società. Per questo motivo è necessario che si metta a disposizione per fornire soprattutto fuori dalle proprie mura una corretta informazione, basata su metodologie corrette, un linguaggio chiaro e una conoscenza solida. Questo sì che può fare una bella differenza.

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