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È possibile valutare gli studenti senza mettere un’etichetta? “Un 7 non stimola al miglioramento”. INTERVISTA a Daniele Novara

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Valutare senza etichette? Abbiamo chiesto il parere al Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.

Professor Novara, lei afferma che bisogna uscire dalla scuola come luogo che registra gli errori, ci spiega cosa intende?

La paura di sbagliare è una spaventosa complicazione nei processi di apprendimento, perché bisogna distinguere fra il necessario stress, che per imparare agisce dentro di noi, da quello che invece è un elemento emotivo che rischia di bloccare, ossia la paura. Se la scuola fa vivere l’errore come momento di contrazione emotiva, su cui l’alunno finisce con il trovarsi in una sorte di tunnel problematico e addirittura ansiogeno, blocca quello che è la formazione dell’apprendimento stesso, ossia utilizzare l’errore come strumento di crescita. Uno degli esempi più ricorrenti è il caso del bambino che deve imparare ad andare in bicicletta senza rotelle, ovviamente deve cadere per imparare, non c’è un piano B, o cade o non impara. Se, viceversa, il genitore lo spaventa intimandogli di non cadere, come farà a quel punto il bambino ad imparare, è tecnicamente impossibile e lo stesso vale per tutti i processi di letto-scrittura, così come per la questione legata al metodo di apprendimento.

Capisco che gli alunni non hanno metodo, ma per riuscire ad acquisirlo devono metterci tutta la pazienza del mondo, riuscire provando e riprovando, tentativo ed errore, fino a quando capiscono cosa gli risulta sostenibile, ad esempio capiranno che dovranno studiare per nuclei concettuali, sottolineando, facendo delle sintesi, sono solo alcuni esempi ai quali attingo dalla mia esperienza liceale e universitaria. Ognuno ha un proprio stile di apprendimento, in base a come è strutturato il proprio cervello in quelle che sono le connessioni neuronali, ad esempio c’è a chi basta studiare mezz’ora prima di dormire e al mattino successivo essere freschi come un gallo, questo per dire che per arrivare al metodo bisogna sbagliare per imparare e non avere paura di sbagliare.

Rispetto a quello che ha appena detto, la valutazione sommativa certifica la prova basandosi proprio sulla ricerca dell’errore e della mancanza, Cosa pensa di questo tipo di valutazione?

Qui siamo proprio nell’archeologia valutativa. Facciamo l’esempio più tragico ed eclatante, e riporto delle formule che non mi piacciono tanto ma le riporto così come sono, come ad esempio lo studente che alla scuola secondaria di secondo grado prende un voto basso come un 2, un 3 o un 4 all’inizio del secondo quadrimestre, nella logica sommativa a quel punto, per riuscire ad arrivare per lo meno alla sufficienza, lo studente deve prendere un 7, se il voto precedente era un 3 nemmeno basta, siamo addirittura sotto, siamo alla media del 5, per cui per arrivare ad una sufficienza vera e propria deve prendere un 8, il che francamente , per un alunno che parte da 3, non è semplicissimo.

Il buon senso ci dice qualcos’altro, ovvero che la scuola è un luogo di apprendimento e se l’alunno parte senza avere l’apprendimento, ad esempio dal 3 per rimanere nell’esempio precedente, vuol dire che ha tanto spazio di manovra in avanti per l’apprendimento, non può pensare al voto preso ragionando che essendo nel secondo quadrimestre non riuscirà mai a prendere un 7 o un 8. Invece la scuola deve registrare i suoi progressi, per cui se un alunno prende un 3, poi passa al 5 e infine passa al 7, per me, come pedagogista, è fuori discussione che la sua valutazione è 7, non ho alcun dubbio, perché è quello il suo percorso, non ha senso mettere insieme i voti, vuol dire contrarre gli alunni sui suoi errori e toglierli la motivazione. Se prendi un voto basso al momento sbagliato dell’anno scolastico ti sgonfi, ed è inutile poi dire “ce la puoi fare”, ma come è possibile? Ritengo che la sommatoria sia catastrofica, invece io propongo un’altra modalità di valutazione, che permette di motivarsi, di stare sul pezzo, di sentire la forza e il gusto dell’imparare, e non di dover fare i conti con un voto sbagliato che magari lo studente ha preso in un momento anche sbagliato della sua storia scolastica.

Lei ha portato come esempio una valutazione numerica, prendiamo il caso di un voto come il 7, che è un voto abbastanza positivo ma che indica che ci sono ancora dei miglioramenti da fare, come fa l’alunno a comprendere dove migliorarsi leggendo semplicemente il voto numerico senza che quest’ultimo sia accompagnato da una descrizione dei punti di forza e di debolezza?

Esatto, è proprio così. Mettiamo in chiaro due questioni inequivocabili dal mio punto di vista, la prima è che il voto cristallizza la valutazione, essendo un numero lo cristallizza letteralmente, ma l’elemento più critico in assoluto non è neanche quello, è che il voto non parla, al punto che sarà capitato a tutti di prendere un 5 a scuola e di andare dal professore a chiedere spiegazioni sul voto basso pur avendo studiato, e magari ci sentiamo dire di non preoccuparci e che è un 5 positivo, dato per determinati motivi, ma dove sono scritti questi motivi? Questo è un problema molto serio, come fa un ragazzo ad orientarsi? Va in depressione e non coglie la natura di quella valutazione, dobbiamo, invece, aiutare gli alunni a capire il loro percorso e non a restituirgli una cristallizzazione di giudizio.

Non è un giudizio la scuola, non è un tribunale, ma è un luogo dove si può costruire insieme una comunità di apprendimento, è un luogo dove c’è sempre la possibilità di ricominciare, di partire con un nuovo inizio. Basterebbe aver studiato un po’ di più Jean Piaget il quale ci diceva che i bambini imparano per rivoluzioni cognitive, nel senso che il bambino per dei mesi non esplicita l’apprendimento, quindi sembra che non stia imparando niente, e poi improvvisamente dimostra l’apprendimento acquisito, si tratta di assimilazione e accomodamento, così come la definiva Jean Piaget questa operazione.

La stessa cosa oggi ci dicono le neuriscienze quando si parla del cervello che ha bisogno di incrociare tutte le sue neuroconnessioni per mettere insieme un apprendimento, in particolare nella scuola devi aiutare questo processo attraverso l’applicazione e non la ripetizione, attraverso il fare, il provare, lo sperimentare, l’essere nella situazione. Ci vuole una scuola che sappia uscire dalle mura sempre più strette dell’aula, che sappia incrociare il territorio ed incontrare le persone, far vivere agli alunni il bello che li circonda, come scoprire l’arte medioevale o la storia in generale percorrendo la propria città, leggendolo sui mattoni degli edifici di quel tempo, oppure studiare la botanica nel parco o scoprire gli animali direttamente nella vita di tutti i giorni. L’Italia ha 1/3 del patrimonio storico e artistico mondiale e teniamo gli alunni nelle aule senza cogliere il vantaggio enorme che si avrebbe nell’uscire e confrontarsi.

Ogni paese, ogni città italiana è ricchissima di occasioni, quelle che chiamo situazioni stimolo, e quindi, per concludere questo discorso, la mia proposta è quella di adottare una valutazione evolutiva che si basa sul valutare i progressi e non gli errori. È simile alla cosiddetta valutazione formativa, di cui in diverse circolari ha parlato anche il Ministero, però la valutazione formativa è uno sguardo complessivo sull’alunno e certamente va bene, ma la valutazione evolutiva è qualcosa di molto tecnico, si parte da una prova d’opera iniziale in modo che l’equipe degli insegnanti colga i punti di partenza degli alunni e su quella base strutturare poi le valutazioni. Allora possiamo dire che la valutazione che valuta i progressi è una valutazione anti-pigrizia, perché è molto comodo stare lì abbarbicati al voto, all’interrogazione programmata, a ripetere contenuti più o meno mandati a memoria o comunque acquisiti nella forma della memoria e non dell’applicazione.

Più interessante, ma anche più creativo e più faticoso, è doversi impegnare per creare un continuo miglioramento, anche per chi è già avanti, come ad esempio gli alunni che già alla prima classe della scuola primaria hanno capacità superiori ai loro compagni che devono essere invogliati non ad aspettare gli altri al traguardo per essere raggiunti, ma invogliati a guardare avanti, ad essere valutati sui loro ulteriori progressi, sui loro miglioramenti, altrimenti quelli che chiamiamo plusdotati si impaludano nella vita scolastica che offre loro ben poco e non funziona. Quindi la valutazione evolutiva è efficace sia per chi parte dal poco che per chi parte dal tanto, e lo è ancor di più per gli alunni con dei deficit che sono quelli più bisognosi di essere valutati sui loro progressi.

Pensiamo ad un alunno dislessico, valutiamolo sui progressi senza bombardarlo di etichette di varia natura, che non ne ha bisogno, cerchiamo di capire come migliora, aiutiamolo. Il problema non è facilitarlo all’inverosimile, ma fare in modo che compia tutti i suoi passettini verso i suoi obiettivi e cogliere anche la natura particolare di una formula neurologica che ha anche tanti vantaggi, come ci dimostrano tanti straordinari personaggi della nostra storia che erano dislessici e se la sono cavata meglio di tanti altri.

Un’ultima domanda. Lei ci ha parlato di una valutazione che accompagna, però spesso sia alunni che genitori sono abituati a dare un valore all’apprendimento proprio dal voto assegnato, sia esso positivo o negativo. Secondo lei è possibile valutare un alunno senza dover necessariamente mettere un’etichetta, ovvero è possibile una scuola senza voto?

Certamente è possibile, è quello che in qualche modo tutti auspichiamo ed è quello che sta già avvenendo nella scuola dell’infanzia. Nei paesi civili la scuola dell’infanzia è obbligatoria, ad esempio in Svizzera e Francia per citare i paesi che confinano con noi, perché la scuola dell’infanzia è la più importante in assoluto. Dai 3 ai 6 anni tutte le bambine ed i bambini dovrebbero andare a scuola, perché è lì che si creano le basi per tutto il resto della vita, lì non ci sono voti e quello va considerato, nessuno si sogna di mettere i voti alla scuola dell’infanzia, per fortuna, sperando che a nessuno venga in mente qualche idea un po’ strana.

Lo stesso vale per la scuola primaria che fino al 2009 aveva una valutazione più o meno narrativa, poi c’è stato il ritorno infelice ai voti numerici, sempre dall’1 al 10 perché siamo collegati quasi militarmente al decalogo di antica confessione, e infine, tre anni fa tra il 2020 e il 2021, grazie al lavoro di pedagogisti e di politici un filino illuminati, si è puntato non tanto al ritorno alla valutazione pregressa, che aveva sei formule letterarie, ma ad una valutazione narrativa vera e propria, basata, come è noto, soltanto su quattro dizioni, ben articolate, che permettono agli alunni della primaria e ai loro genitori di capire su cosa stanno lavorando, quindi di parlare e di dire alle famiglie e tanto più agli alunni, perché sono loro che poi vanno a scuola, cosa sta succedendo e in che modo possono sviluppare i loro miglioramenti e tutto il loro potenziale, che io definisco un potenziale maieutico.

Quindi non si tratta di inventarsi niente, ma bisognerebbe al più presto, com’era prima del 2009, portare la valutazione narrativa anche nella secondaria di primo grado per poi portarla successivamente anche nella secondaria di secondo grado. Attenzione, non si tratta, come qualcuno vuol far credere, di una rivoluzione, ma è un fatto tecnico. Così come nelle nostre abitazioni siamo passati dai termosifoni in ghisa a quelli in acciaio o all’istallazione dei climatizzatori, tutto al fine di apportare miglioramenti, così anche nella scuola si fanno dei cambiamenti tecnici cercando di raggiungere degli standard e delle prestazioni migliori, è solo quello.

Dobbiamo rispettare la pedagogia come scienza che ci ricorda l’importanza di una valutazione che permetta agli alunni e ai genitori di capire, per cui non solo si può fare una scuola senza voti, ma è la cosa assolutamente migliore che permette alla scuola finalmente di proporsi come luogo di esperienza condensativa delle potenzialità delle nostre bambine, dei nostri bambini, delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi.

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