Domenico Starnone: “Già dagli anni ’80 è una brutta scuola. Dopo aver lasciato l’insegnamento mi sono promesso di non parlare più di istruzione”

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L’infanzia, la scuola, il delitto Turetta-Cecchettin, l’amica geniale. Domenico Starnone si racconta in un’intervista al Corriere della Sera, ripercorrendo le tappe fondamentali della sua vita e della sua carriera di scrittore.

A 17 anni, la folgorazione: un incipit di Italo Calvino, tratto da Luna e Gnac, lo spinge a dedicarsi alla scrittura. “Un incipit strepitoso”, ricorda Starnone, che gli rivela la sua vocazione. Prima di allora, solo letture ottocentesche, recuperate alle bancarelle dell’usato: dai Misteri di Parigi a Cechov, da Rocambole a Tolstoj.

Padri e figli, tra fascismo e Sessantotto

Un’infanzia segnata dalla malinconia, popolata da mondi fantastici, e poi la scoperta della scrittura, “prosecuzione di quel piacere infantile”. Starnone, insegnante prima che scrittore, analizza il rapporto tra padri e figli, dalle famiglie degli anni Trenta e Quaranta, cresciute all’ombra del fascismo, fino alla sua generazione, influenzata dal Sessantotto. “Siamo cambiati in superficie”, afferma lo scrittore, “ma i tratti di fondo della cultura patriarcale ce li siamo portati dietro”. Sulla scuola, un giudizio severo: “Dopo il fervore degli anni Settanta, quella degli anni Ottanta era già una brutta scuola. L’idea che potesse assicurare a tutti un’istruzione e una formazione di qualità era già contraddetta dai fatti”.

Il delitto Turetta-Cecchettin e il libro del secolo

Starnone commenta anche il delitto Turetta-Cecchettin: “Forse a Filippo Turetta è sembrato che la laurea ratificasse la potenza della ragazza”. Un gesto estremo, dettato dalla paura di perdere il ruolo dominante, di non essere all’altezza dell’imperativo di “fare l’uomo”. Infine, un commento su L’amica geniale, definito dal New York Times uno dei libri del secolo. Starnone si schermisce: “Se mi pronuncio siamo subito ai pettegolezzi”. E sulle voci che lo vorrebbero autore, insieme alla moglie Anita Raja, dell’opera firmata Elena Ferrante, taglia corto: “Sono frottole”. Pur riconoscendo il valore del romanzo, conclude: “Il libro del secolo deve ancora arrivare”.

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