Docenti di sostegno, “togliamoli di mezzo… ma in senso positivo. Vi spiego come”. INTERVISTA a Dario Ianes
Le nuove norme sulla formazione dei docenti di sostegno saranno in grado di colmare la grande richiesta di personale idoneamente formato? Ne abbiamo parlato con il Professor Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».
Professor Ianes, ci eravamo lasciati con il dubbio sul ruolo di INDIRE nella formazione dei docenti di sostegno, in una recente intervista il Ministro Valditara in parte ha chiarito questo ruolo affermando che il sistema universitario è inadeguato e che INDIRE contribuirà ad aumentare il numero di personale formato. Cosa ne pensa?
Bisogna fare un bel passo indietro ed in particolare al 2011, quando con il collega D’Alonzo partecipammo in qualità di docenti e tecnici, indicati dalle famiglie delle persone con disabilità, ad una commissione per la stesura del decreto che fondò il TFA così come lo conosciamo e che è arrivato al nono ciclo. Nella commissione avevamo mandato di costruire questo percorso TFA con un unico veto molto chiaro, ovvero che non si facessero formazioni online.
Questo perché dal punto di vista dei familiari fare attività in presenza è molto più formativo rispetto alla modalità online e infatti nel decreto era espressamente indicato il divieto di fare attività online. È un decreto che di fatto ha un’architettura complessa, a cominciare dalle prove di ammissione e lo sanno bene i tanti che in questo anni purtroppo non sono riusciti ad accedere a questo percorso, ma al di là di questo, c’era un’architettura formativa che partiva da una decina di insegnamenti per un totale di 60 crediti, che rappresenta un intero anno accademico.
Gli insegnamenti spaziavano sulle varie competenze fondamentali, dalla psicologia dello sviluppo, ai disturbi del neurosviluppo, alla gestione della classe e via dicendo, insomma c’erano un po’ i fondamenti di un ruolo di sostegno inclusivo e non di un ruolo di sostegno che si prende il ragazzo e lo porta fuori dalla classe. Inoltre c’erano anche insegnamenti legati alla collaborazione interprofessionale per fare rete con i servizi. Poi c’erano 9 laboratori che erano calibrati per ordine di scuola, ad esempio c’era il laboratorio che si occupava della didattica della matematica che era ovviamente differente tra infanzia, primaria, secondaria di primo e di secondo grado, per cui nei laboratori si andava ad approfondire in senso pratico quelli che sono i vari aspetti sia della didattica che delle competenze ad esempio legate ai comportamenti problema, oppure ai disturbi emozionali e così via.
Poi c’era anche il tirocinio, che veniva gestito da parte dell’università con dei tutor che trovavano la scuola e la classe, si collegavano con il tutor della scuola che accetta il tirocinante e lo porta con sé nelle varie attività e il docente distaccato in università che faceva una rielaborazione con gli studenti dei loro vissuti in tirocinio e delle loro attività. Per cui c’era un’attività pratica nelle scuole sia gestita da un tutor nella scuola che supervisionata e rielaborata e rimpastata nel tirocinio diretto dal personale distaccato in università. In più il portfolio delle competenze, elaborato teorico e discussione finale.
Ecco questa era l’architettura finale, che è molto impegnativa, e chi insegnava faceva salti mortali per fare questo percorso. Però dobbiamo dire che è un tipo di situazione che ha un senso formativo, perché si ricevono degli input generali più teorici, su cui lo studente viene valutato come in qualsiasi normale esame universitario, poi però si devono fare dei laboratori, il tirocinio, la tesi del tirocinio, il tirocinio indiretto e tutta questa serie di attività è impossibile farlo online. Da qui la critica che viene dal Ministro che le università sono inadeguate, ma come possiamo fare tutto quello che ci siamo detti online? Faccio un esempio per capirci meglio, per costruire i gruppi di laboratorio efficaci non si può andare oltre le venti persone, un laboratorio con 400 persone perde la sua funzione laboratoriale e diventa una predica frontale come un qualsiasi corso.
Un corso frontale lo puoi fare anche a 600 persone, lo abbiamo fatto anche noi, ma poi per il laboratorio devi avere dei gruppi di massimo venti persone. Inoltre un laboratorio non si fa da solo, devi avere un docente che lo struttura, ma non un docente teorico, bensì un docente che ha una grossa competenza pratica, che svolge già le attività che propone e che porta la sua esperienza. Questo è un problema per l’università, perché con numeri grandi si ha bisogno di tanti laboratori e di conseguenza servono tanti docenti con la giusta esperienza e pratica per la materia a cui il laboratorio è dedicato, non è facile trovare persone che insegnano e che riescono poi a portare avanti così tanti laboratori, quindi diventa un problema di sostenibilità.
Se si vuole fare una formazione fatta bene, che effettivamente cambi il comportamento delle persone, perché alla fine dobbiamo dircelo, la formazione deve cambiare i comportamenti delle persone, altrimenti da solo un pezzo di carta o un’informazione vaga, quindi se si vuole cambiare i comportamenti bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare.
In tutto questo le università hanno cercato di calibrare i numeri da un lato basandoli sul fabbisogno territoriale, a volte non rispettandolo perché il Piemonte ha bandito pochi posti rispetto alle esigenze mentre la Sicilia ne ha bandito molti posti rispetto ad un fabbisogno piccolissimo, ma poi i numeri sono stati anche fatti sulla base della reale disponibilità del corpo docente, non tanto di quelli che fanno il corso teorico, perché all’interno della facoltà si riescono ad individuare tra incarichi interni ed esterni, ma per i laboratori diventa molto complesso e se si vogliono fare seriamente c’è un problema di numeri.
Quindi non si tratta di un problema di sostenibilità economica, anche perché gli studenti pagano tanti soldi e le università hanno degli utili sostanziosi sui costi reali dei TFA, ma di sostenibilità del corpo docente, se si vuole fare un’attività seria.
Uno dei dubbi è legato ai percorsi di formazione, le università hanno una grande esperienza che gli permetterà di avviare agevolmente i percorsi formativi dei 30 CFU. Come può contribuire INDIRE alla creazione di questi percorsi?
Ho tanto rispetto per INDIRE, ma non si è mai occupato nel dettaglio di formazione a livello universitario su questi temi, per cui la ritengo una specie di scorciatoia per metter in campo un altro soggetto, ma poi in realtà quello che prefiguro è che al di là di INDIRE, che può essere una specie di bandierina per distogliere l’attenzione, in quel decreto, poi convertito nella legge 106/2024, si prevede che i TFA possano essere fatti dalle università, per cui si intendono tutte le università, anche quelle telematiche considerato che sono corsi che possono essere fatti online.
Dunque immagino che diverse università telematiche si mettano nei 30 CFU a fare una formazione massiva online e senza quel discorso sui laboratori, tirocinio e tirocinio indiretto. Sono convito che purtroppo non sarà una formazione di buona qualità, saranno delle videolezioni e poco più, tra l’altro sappiamo che le attività online non sempre, e secondo me quasi mai, hanno la stessa valenza formativa di quella in presenza.
Il numero degli alunni certificati cresce continuamente e aumentano sempre più gli ambiti su cui dovrebbero operare gli insegnati di sostegno, basti pensare al nuovo filone legato alla plusdotazione. Come può un docente riuscire ad avere una buona preparazione in un campo così vasto?
Parto dalla prima considerazione, l’aumento delle certificazioni. Questo è un dato veramente drammatico che andrebbe studiato a fondo. Credo che alla base ci siano due grandi motivi, il primo è legato effettivamente alle capacità più avanzate di fare alcune diagnosi, per esempio l’aumento dei disturbi dello spettro dell’autismo, che aumentano in tutto il mondo e non solo in Italia, sono un effetto della capacità di identificare precocemente alunni con questo tipo di disturbo e diagnosticarlo, e questo da un punto di vista scientifico e dell’intervento è un bene.
Poi ci sono degli studi che, al di là della capacità di diagnosi, indicano come realmente aumentano i disturbi, dove c’è una prevalenza di questi aumenti legata ai fattori di tipo ambientale piuttosto che di altro genere, quindi c’è una reale crescita, un reale aumento di questi disturbi. Poi c’è un altro fattore, che reputo negativo, che è l’aumento di complessità e di stress a carico della scuola, nel senso che se nella scuola ho persone sempre più stanche, demotivate, sfiduciate, con classi sempre più eterogenee e complesse, dove aumentano i problemi comportamentali ed emozionali, di relazione, cioè ho un carico negli insegnanti di disagio, di stress e di difficoltà sempre più alto, è chiaro che i docenti desiderano un aiuto, un qualcuno che entri in questa situazione e dia una mano.
Attualmente questo aiuto arriva solo attraverso la certificazione di disabilità, e magari questa ricerca di aiuto può portare a spingere realtà legate ad una situazione di difficoltà emozionale o comportamentale ad essere identificate come un disturbo oppositivo provocatorio, insomma ad avere una pressione di un sistema in affanno sul sistema sanitario, che è accreditato per fare le diagnosi, che cerca attraverso le varie diagnosi di avere personale in più che poi arriva attraverso la figura dell’insegnato di sostegno più o meno specializzato.
Per comprendere queste difficoltà cito sempre delle ricerche di Raffaele Iosa, di parecchi anni fa, le quali ci dicono che quando hai un corpo docente stabile, che vuol dire che si sono costruiti dei legami forti tra gli insegnati, che sono capaci di programmare insieme, di allearsi, ecco che in questo caso si vede come la richiesta di ore di sostegno e di certificazioni è molto più bassa; dove invece si ha un corpo docente che cambia continuamente, con poca formazione, motivazione e collaborazione, ecco che lì l’appiglio ad andare a fornire gli elementi al sistema sanitario, a spingere le famiglie per avere una certificazione, è più alto e credo che questo sia effettivamente un problema.
Arrivando alla plusdotazione, anche qui dovremmo cercare di uscire da una logica delle categorie, tra chi ha un deficit e chi ha un qualcosa in più, invece bisognerebbe entrare nell’idea che siamo tutti differenti, con varie abilità e stili, dove una didattica inclusiva riesce ad offrire diverse opportunità legate alle necessità dell’alunno. In una didattica inclusiva, aperta, plurale, differenziata, è come trovarsi un negozio di articoli sportivi dove provi i vari materiali adatti alle tue capacità, ai tuoi obiettivi e ai tuoi hobbies, per poi personalizzarli. Per cui credo che la plusdotazione sia un ottimo innesco per pensare ad una didattica inclusiva non solo schiacciata su quelli che non ce la fanno, ma aperta come ventaglio ad offrire varie opportunità, anche per chi può beneficiare di forme di complessità e di difficoltà più alte.
Un’ultima domanda, sul sostegno abbiamo visto che rincorrere la richiesta di personale formato ha portato il sistema ad un cronico affanno, con criticità che riguardano in modo particolare le scuole del Nord Italia. Lei propone un cambio di approccio che coinvolge anche i docenti curricolari e dove l’insegnante di sostegno rappresenta l’esperto che supporta e forma tutto i docenti. È questa una possibile soluzione a questo problema?
Questo lo sostengo da 13 anni, per me è la soluzione alla crisi cronica e irreversibile, direi proprio strutturale, del sostegno. La soluzione è proprio toglierlo di mezzo, abolirlo ma in senso positivo, nel senso di evolverlo. Attualmente in Italia abbiamo circa 250.000 insegnanti di sostegno, con un numero sempre crescente e il cronico problema legato alla formazione, per cui se noi prendessimo questo personale e ne mettessimo 220.000 in organico funzionale, curricolare, perché innanzitutto sono degli insegnanti, dove diventano dei contitolari reali, di fatto andiamo ad aumentare e rafforzare in pianta stabile l’offerta formativa con degli insegnati curricolari a tutti gli effetti e non con delle persone che sono nominate soltanto perché c’è la diagnosi.
Il 20% rimasto sono quei docenti che negli anni hanno sviluppato delle competenze eccezionali, fatti di convegni, master, lauree, eccetera, tutto fatto a spese loro con grandissimi sacrifici, e quindi quelle competenze devono essere messe a disposizione di tutti i colleghi, diventando degli esperti itineranti, chiamiamoli così, che operano su un ambito territoriale o su una rete di scuole in modo da poter essere quelli che con la loro specializzazione e la loro competenza vanno a fare formazione. Ma non vanno a fare prediche o ad aprire sportelli, bensì vanno in classe, nelle situazioni concrete, a far vedere come si opera nello specifico e aiutando i colleghi ad imparare a farlo.
Per cui con questa evoluzione non si avrebbe più l’insegnate di sostegno classico, ma avremmo un corpo docente più ricco, più potente, con più di 200.000 mila nuovi innesti, e parliamo di numeri che fanno veramente la differenza, perché sul corpo docente si va a mettere un ulteriore 25% di persone che lo arricchiscono, e non di poco, per la gestione di tutto quello che ci dicevamo prima, quindi didattica plurale e offerta formativa a seconda delle esigenze dell’alunno; invece dall’altro lato andremmo ad avere un gruppo di circa 30.000 persone che presidiano sulla base delle loro competenze le varie scuole.
Tra queste persone troveremo chi è esperto di autismo, chi di comunicazione aumentativa e alternativa, chi di aspetti emozionali, chi di apprendimento cooperativo e via dicendo, e questi esperti vanno nelle classi a modificare la realtà. Questo è quella che ritengo la soluzione del tema del sostegno, cioè evolverlo in due direzioni, da un lato aumentando e normalizzando il corpo docente, perché è lì che si fa inclusione, e dall’altro lato creando una struttura di forte competenza che dà supporto tecnico ai colleghi, che spesso sono da soli e non sanno cosa fare.