Disturbi del comportamento alimentare,, possibili azioni della scuola

I Disturbi del Comportamento Alimentare non colpiscono solo gli adolescenti: c’è evidenza che l’anoressia – ad esempio – possa colpire anche durante la prima infanzia (0-2 anni) oltre che nella seconda.
Questo è solo uno dei vari disturbi dell’alimentazione che si può riscontrare – con un’incidenza effettivamente maggiore nell’adolescenza e nella pre-adolescenza – durante lo sviluppo: si tratta di anoressia, bulimia, obesità, pica, ruminazioni.
Oggi, inoltre, ne sono anche frequenti forme miste (anoresso-bulimiche ad esempio), o del tutto nuove ed entrate a pieno titolo nel DSM V solo da poco (come il binge-eating, ovvero un’alimentazione incontrollata che letteralmente significa “maratona di cibo”, o “episodio di abbuffata”). Benchè in tali casi l’apporto psicologico sia essenziale per poter guarire, il supporto di famiglia e scuola può e deve esserci per rinforzare gli aiuti medici.
Anoressia
Sicuramente uno dei disturbi del comportamento alimentare più noti: l’anoressia (dal greco óreksis, cioè ‘appetito’, con il prefisso dell’alfa privativo) sta a indicare, appunto, una patologica inappetenza, che porta il soggetto affetto (soprattutto ragazze, con un rapporto femmine-maschi di 9 a 1) a lasciarsi lentamente morire di inedia, nei casi più gravi.
Si distinguono due grandi forme di anoressia della prima infanzia:
– ANORESSIA ESSENZIALE PRECOCE. Raro quadro clinico che si può manifestare nei primi giorni o nelle prime settimane di vita: è l’anoressia del lattante che, se all’inizio si manifesta solo come un atteggiamento passivo del bambino verso il cibo, può poi diventare anche “d’opposizione” – durante lo svezzamento.
– ANORESSIA DEL SECONDO SEMESTRE. Si manifesta tra il quinto e l’ottavo mese, quando s’introduce un’alimentazione artificiale.
In questi casi, ovviamente l’unico aiuto possibile è quello medico, essendo i bambini troppo piccoli per frequentare la scuola: è vero però che bisogna porre molta attenzione agli infanti che presentano un’anoressia della prima infanzia perché saranno più disposti degli altri a svilupparne una di seconda infanzia. Infatti, quando il soggetto in questione cresce, avendo avuto un rapporto di passività e/o opposizione con il cibo e la sua fonte (la mamma), porterà con sé una concezione conflittuale del rapporto madre-figlia o comunque con le figure genitoriali in generale. Spesso, infatti, il rifiuto dell’alimentazione può essere una risposta a una certa rigidità del nucleo famigliare o genitoriale, e può portare in due direzioni: all’ANORESSIA MENTALE (NERVOSA O PSICOGENA), dove le ragazze si vedono “grasse” pur essendo scheletriche, o alla forma mista tra ANORESSIA e BULIMIA in cui, a fasi in cui non mangiano o mangiano pochissimo, alternano grandi abbuffate seguite da vomito auto-indotto, lontano da sguardi indiscreti come quelli dei genitori.
Bulimia
Il profilo psicologico delle persone bulimiche è diverso da quello delle anoressiche, perché più estroverso e a cavallo tra depressione, nevrosi ossessive e crisi epilettiche.
La malattia è caratterizzata non solo da abbuffate programmate e seguite da vomito auto-indotto, ma da abuso di lassativi ed eccessi iper-fagici incontrollati (come dei raptus).
Chi è bulimico è generalmente consapevole della propria malattia, a differenza di chi è anoressico, e conosce la concezione sfasata che ha del cibo. Esso infatti viene visto come qualcosa di terapeutico, se ingurgitato nella maggior quantità possibile: una volta assolto questo compito, però, non serve più, e quindi viene gettato via col vomito. Si ritiene che ciò rappresenti la conseguenza del rapporto del fanciullo col cibo durante la prima infanzia, dove i genitori confondevano il “pianto da fame” col “pianto da qualcos’altro”, e quindi davano da mangiare al bambino anche quando non ne aveva bisogno. Per cui, il bulimico non può fare a meno del cibo, ma neanche può eliminare il senso di colpa ossessivo che lo accompagna una volta ingerito.
Indicazioni per docenti ed educatori
Premesso che si tratta di patologie gravi che necessitano di un supporto medico, va anche detto però che i disturbi del comportamento alimentare si portano anche in classe.
Ed è qui che il docente o l’educatore può fare qualcosa, in tre direzioni:
– FAR ACQUISIRE ALLO STUDENTE/STUDENTESSA UNA NUOVA APPERCEZIONE DELLA PROPRIA IMMAGINE;
– EFFETTUANDO UNA RISTRUTTURAZIONE COGNITIVA ED EMOZIONALE DELL’ELEMENTO “CIBO” E DEL CONCETTO DI “ALIMENTAZIONE”;
– PER PERMETTERE AL/ALLA GIOVANE DI AVERE MAGGIORE AUTOCONTROLLO SUI PROPRI COMPORTAMENTI.
Come visto, infatti, quelli evidenziati sono disturbi portano con sé una percezione del proprio corpo slegata dalla realtà, e una distorsione cognitiva che- anche se può sembrare paradossale – non si può curare con la razionalità: ricordiamo infatti che il 90% delle nostre scelte ha carattere inconscio e “di pancia” piuttosto che di testa.
Ciò di cui questi ragazzi hanno bisogno, dunque, è di fare nuove esperienze positive col cibo, perché il rapporto con quest’ultimo diventi non più conflittuale ma armonioso: il primo passo in questa direzione, dato che rifiutano di mangiare (o lo fanno secondo le proprie regole), è di far passare il rapporto egodistonico che hanno col loro corpo ad un rapporto egosintonico. Per farlo, in primis bisognerà attuare meccanismi di rinforzo – non tanto negativi (punizioni se non mangia) quanto positivi (un’attività a cui la ragazza tiene tanto ma solo dopo essere aumentata di peso).