Disabilità e DSA, breve guida sulla certificazione
di Lorenzo Picunio – Molti genitori chiedono chiarimenti sulla certificazione della disabilità. Chi nota una difficoltà grave della crescita intellettuale del proprio figlio può rivolgersi al proprio pediatra di base per chiedere una verifica neuropsichiatrica. Oppure saranno gli insegnanti a suggerire la stessa verifica. Va considerata anche l’esistenza di problemi di carattere non neuropsichiatrico, ad esempio oculistici o dell’udito, per i quali può essere necessaria una visita specialistica.
Dalla verifica neuropsichiatrica possono scaturire degli approfondimenti. In base ad essi, se del caso, l’Asl di residenza certifica una disabilità, a norma della legge 517 del 1977 e della legge 104 del 1992. Questa certificazione di disabilità non “marca” per tutta la vita, e ha valore per un certo tempo, un anno, o un ciclo scolastico. Chi si rivolge ad un centro privato deve – almeno nella maggior parte delle leggi regionali – far confermare la certificazione dall’Asl.
La certificazione non viene data – ovviamente – a cuor leggero: non basta un ritardo nell’apprendimento della lettura e della scrittura, anche di alcuni mesi. Occorre che gli neuropsichiatri individuino una specifica sindrome, dal ritardo mentale medio o grave, alla sindrome di Down, all’autismo. Altro sono le disabilità sensoriali (ipovedenti e non vedenti, non udenti), altro ancora le disabilità motoria.
Il neuropsichiatra può riconoscere una condizione più grave, prevista dal comma 3 dell’art. 3 della legge 104 del 1992. Ai fini del sostegno scolastico il “comma 3” da’ la possibilità di avere un intero insegnante di sostegno (“uno a uno”), ma solo dopo la ratifica da parte dell’ Unità Valutativa Multi Dimensionale.
Nel primo caso (“art. 3 comma 1” della legge 104; dalla legge: “É persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che é causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione”) la scuola, avvertita dalla famiglia, assegnerà un quarto dell’orario di un insegnante di sostegno. Cioè 6 ore alla scuola d’infanzia, cinque e mezzo alla primaria, 4 e mezzo alla secondaria. L’insegnante di sostegno ha, di norma, sostenuto un corso di specializzazione: nei fatti accade che si nominano anche supplenti non specializzati, e che non garantiscono continuità per gli anni successivi al primo (e non certo per colpa loro).
Nel secondo caso si parla di “art. 3 comma 3”, attinente l’autonomia personale (dalla legge: “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità”). In questo caso l’alunno ha diritto ad un rapporto 1 a 1, cioè all’orario completo di un docente di sostegno: 25 ore all’infanzia, 22 alla primaria, 18 alla secondaria. .
Talvolta il bambino è seguito anche da altre figure, “accudienti” od altro, assegnate dall’Asl, dal Comune o – in caso di disabili sensoriali – dalla Provincia.
Nel Piano Educativo Individualizzato va indicato l’orario, e il Piano è sottoscritto anche dai familiari, oltre che dal servizio di neuropsichiatria infantile che segue il bambino (al fine di redigere ed aggiornare i Pei due volte all’anno gli insegnanti, il neuropsichiatra, la famiglia si incontrano nel Gruppo di Lavoro Handicap Operativo, Glho).
Il modello italiano dell’integrazione, nato con la legge 517, è un grande dato di civiltà, e ci mantiene ad un livello d’avanguardia rispetto alle altre nazioni europee. Ogni tanto qualcuno prova a metterlo in discussione, sognando il ritorno a classi speciali o differenziali. Ma basta chiedere a chi ha convissuto a scuola con un bimbo disabile quanta ricchezza venga da questo incontro. E ai genitori dello stesso bimbo quanto è stato importante andare a scuola con gli altri bambini.
Un altro tema che si affianca a questo è quello dei Dsa, disturbi specifici dell’apprendimento: esiste una legge, la 170 del 2011, che riconosce questi disturbi individuandoli in dislessia, disgrafia, discalculia, adhd.
Per i bambini e i ragazzi affetti da questi disturbi non sono previsti interventi di sostegno , ma soltanto l’utilizzo di compresenza che la scuola dovesse avere (peraltro ormai ridotte al lumicino) e la disponibilità di “strumenti compensativi o dispensativi “. Ad esempio è dispensativo evitare all’alunno la lettura a voce alta, compensativo permettergli di usare un computer con sintesi vocale o schede stampate più in grande.
Il più frequente di questi disturbi è la dislessia: detto in maniera semplice, dislessico è chi non riesce a leggere la parola intera, ma deve compitare le singole lettere. Può imparare? Sì, anche molto bene, ma la sua fatica nello studio sarà sempre maggiore di quella di chi non ha lo stesso disturbo.
Dislessici sono circa il 5% degli alunni in Italia, in maggior numero nei paesi di lingua inglese.
Il disturbo è valutato da un neuropsichiatra dell’Asl, su richiesta del pediatra: si può controllare a partire dai 5 anni,con test predittivi, ma l’effettiva insorgenza avviene dai 6 in su.
Gli altri disturbi sono meno frequenti, in crescita è l’adhd, difficoltà di attenzione e concentrazione.
Per tutti i Dsa la scuola redige annualmente un Piano Didattico Personalizzato. Lorenzo Picunio