Dietro la cattedra, un’insegnante si racconta senza filtri: “Ecco il diario di una maestra (quasi) normale”. La storia di Nora De Luca [INTERVISTA]
Un’aula di scuola primaria può sembrare un mondo a parte, un microcosmo fatto di gioie infantili, piccole tragedie quotidiane e sfide educative complesse.
A svelarci i retroscena di questo universo spesso sconosciuto è Nora De Luca, pseudonimo dietro cui si cela un’insegnante che ha deciso di raccontare la sua verità con ironia e schiettezza nel libro “I figli degli altri” (edito da Mondadori).
Attraverso uno stile vivace e coinvolgente, l’autrice ci introduce in un ambiente scolastico tutt’altro che idilliaco, dove le difficoltà di bilancio si scontrano con le esigenze di alunni provenienti da contesti sociali eterogenei.
Tra aneddoti divertenti e riflessioni profonde, l’autrice affronta temi come il coinvolgimento emotivo con gli alunni, le difficoltà del sistema scolastico, l’importanza del senso di comunità e la sfida di integrare gli studenti stranieri. Un ritratto autentico di chi, nonostante le frustrazioni, continua a credere nel potere trasformativo dell’educazione.
Nell’intervista a Orizzonte Scuola, Nora De Luca si racconta senza filtri, svelandoci il suo modo di vivere la professione docente, tra impegno costante, sfide emotive e la consapevolezza di contribuire a “fare questa cosa grande”: crescere gli adulti del futuro.
Nel libro descrivi momenti di grande empatia e connessione con i tuoi alunni, come quando appoggi la testa sulla spalla del Mastino dopo lo scontro con il padre di Gianni. Come gestisci emotivamente il coinvolgimento profondo con le storie e i problemi dei bambini, mantenendo allo stesso tempo un equilibrio professionale?
“Purtroppo, è una risposta che non ho. Credo che il tempo, un po’ di esperienza, mi stiano aiutando ad affrontare l’aspetto emotivo del mio lavoro. Ma per quanto sia, ti coglie sempre e comunque impreparata. Non siamo preparati ad affrontare il dolore, la paura, il senso di fallimento. Né in noi, né nei bambini. Credo che l’unica risposta che ho sia improvvisando”.
La figura di Gianni, con la sua gioia di vivere ma anche con i suoi momenti di profonda malinconia, sembra averti colpito particolarmente. Come ha influenzato il tuo modo di vedere il ruolo dell’insegnante nell’affrontare le difficoltà personali degli alunni?
“Nei primi tempi del mio lavoro vivevo questa vicinanza con le loro difficoltà profonde con fatica. Mi capitava spesso di portarmi a casa, quelle sensazioni. In realtà mi succede un po’ anche adesso. Sono arrivata anche a pensare che fosse un peso che non riuscivo a gestire nel quotidiano, che forse il lavoro di insegnante, soprattutto alla primaria, avesse una ricchezza che era anche, insieme, dolorosa. Avevo pensato che una soluzione a questa “fatica” fosse cambiare ordine di scuola, passare al liceo. Mi sembrava un contesto in cui c’è un coinvolgimento minore. In realtà, non lo saprò mai. Ho fallito nel mio piano di evasione”.
Descrivi spesso la scuola come un ambiente caotico e a volte disfunzionale. Nonostante ciò, sembri trovare un senso di appartenenza e comunità, soprattutto evidente durante il funerale di Mena. Come concili questa contraddizione e cosa ti spinge a continuare nonostante le frustrazioni?
“Fare l’insegnante ti porta a occupare un posto, un ruolo, per quanto piccolo, all’interno di una comunità di scuola, di quartiere. La comunità non te la scegli, o per lo meno non me la sono scelta io. Ci sono dentro le cose e le persone che ti piacciono e quelle che non sopporti, ma ha una sua realtà e una sua forza. Il senso di appartenenza, l’avere obiettivi comuni sono ricchezze nel mondo di adesso. Credo che quel sentimento di appartenenza, di avere uno scopo, di poter fare una piccolissima differenza compensi tante frustrazioni”.
Il tuo libro offre uno sguardo crudo e onesto sulla realtà scolastica, inclusi i pregiudizi e le difficoltà nell’integrazione degli alunni stranieri. Cosa speri di ottenere condividendo queste verità scomode e quali cambiamenti vorresti vedere nel sistema educativo?
“Non ho l’ambizione che un libro come il mio possa portare un cambiamento. Certo, chi lavora a scuola sa quanto sarebbe necessario. A partire dall’iniziare a considerare chi è nato e si è formato nel nostro Paese come nostro concittadino dato che, noi per primi non abbiamo fatto nulla di diverso che nascere e formarci in questo Paese”.
La relazione con Francesco sembra rappresentare un momento di vulnerabilità e desiderio personale in mezzo al caos della vita scolastica. Come bilanci la tua vita personale e professionale in un ambiente che sembra assorbire così tanto di te?
“In realtà, cerco di farmi una vita, come dicono gli anglosassoni. La scuola è parte delle mie giornate, come lo sono la mia famiglia, i miei amici e tutto quello che mi piace fare. Spero di non finire mai chiusa in una stanza murata per sbaglio come Fantozzi, ma mai dire mai”.
Alla fine del libro, rifletti sul fatto che forse la cosa più importante non è piacersi o avere le stesse idee, ma stare insieme ogni giorno per “fare questa cosa grande”. Cosa rappresenta per te, personalmente e professionalmente, questa “cosa grande” di cui parli?
“Crescere gli adulti del futuro, e così, contribuire a disegnarlo”.