Didattica, parla un genitore dalla zona rossa della Lombardia: quella in tempo di Covid è veramente scuola?

Lasciare ai genitori la scelta tra lezioni in presenza e online: abbiamo chiesto il vostro parere, abbiamo chiesto di raccontarci come da insegnanti, studenti, genitori, state vivendo questo periodo difficile. Numerose le testimonianze inviate a [email protected]
Ringraziamo coloro che ci hanno voluto lasciare un messaggio pro o contro la possibilità che siano i genitori a scegliere la tipologia di didattica, che pubblicheremo in forma anonima se non diversamente richiesto, portiamo all’attenzione una testimonianza che ci giunge dalla Lombardia, zona rossa con le scuole primarie e la classe prima della secondaria di primo grado in presenza. Ma dire “in presenza” non equivale spesso ad una situazione di tranquillità.
“lettera firmata – Chi vi scrive è una famiglia che pre pandemia è sempre stata veementemente contraria a qualunque deroga all’obbligo di frequenza. Mai avrei pensato di trovarmi in una situazione in cui avrei preferito tenere mia figlia a casa piuttosto che mandarla a scuola.
Ma chi vi scrive lo fa dall’epicentro della zona rossa per eccellenza. Scrivo da Milano, epicentro nell’epicentro Lombardia, che a guardare i dati è (di nuovo) una delle regioni più malate d’Europa: regione che viaggia sui 200 morti al giorno, un numero di morti che dimostra una palese sottostima delle infezioni, cosa prevedibile dato che il tracciamento è saltato da un paio di mesi. Regione dove i test li fanno solo ormai ai sintomatici: dopo aver man mano rosicchiato la definizione di “contatto stretto” ormai si è deciso che, ai contatti stretti, il test non viene fatto proprio e bona. Regione dove gli ospedali sono ormai al limite della saturazione.
Ecco va detto, va detto cos’è la scuola in Lombardia, Como, Varese, Milano in questi giorni. La scuola nelle zone di emergenza sanitaria NON è sicura, non può esserlo dal momento in cui è saltato il tracciamento, che era parte integrante del piano di messa in sicurezza delle scuole, e non può esserlo dato che le disposizioni regionali non richiedono praticamente più quarantena se ad essere positivo è un insegnante. Come ho detto il tracciamento non esiste più, e i bambini, in gran parte asintomatici, non sono più rilevabili. Gli insegnanti, se positivi, devono assumersi la responsabilità di dire che hanno mantenuto mascherine e distanziamento, cosicché i bambini non risultino contatti stretti. E se qualcuno si contagia, rischiano pure dei guai, perché implicitamente si presuppone sia colpa loro, che non abbiano seguito i protocolli.
Ma tutto questo non funziona, e tutti noi abbiamo un amico, un parente, un fratello o un cognato che si è ammalato, perché insegna, perché è dipendente ATA, perché il compagno del figlio era positivo. Ma bisogna andare avanti. E così la scuola milanese, la scuola di Monza, la scuola del brianzolo e del varesotto in questi giorni si impregna del terrore del genitore oncologico costretto a mandare il figlio a scuola, dell’insegnante con il peso della responsabilità e magari un genitore anziano in casa, del bambino che ha già visto il fratellino intubato.
Se la scuola fosse quella di sempre, si potrebbe dire che, forse, ne vale la pena. Ma com’è la scuola in tempo di COVID? Si parla di una scuola con una forte carenza di insegnanti, che spesso, positivi, si trovano a dover insegnare da casa. Bambini ammassati davanti a un unico monitor, in barba al distanziamento, in una classe fredda (letteralmente, visto che le finestre devono rimanere spalancate) e dalla connessione scarsa, supervisionati da un bidello, con l’insegnante che fa lezione da casa, utilizzando le sue ore di malattia, solo per buon cuore. La didattica a distanza, ma in classe. Alla peggio, se l’insegnante non si presta a utilizzare le ore di malattia, magari perché semplicemente sta troppo male, si susseguono supplenti su supplenti, o semplicemente, la classe viene parcheggiata a un ATA. E nonostante ciò i bambini sono costretti alla frequenza.
E i bambini a casa in isolamento? Capita più spesso di quanto vorrei ammettere che questi vengano abbandonati dagli istituti, in barba al diritto d’istruzione, perché i pochi insegnanti presenti devono gestire le classi in presenza. Le fantomatiche DDI prevederebbero la DAD per loro, di fatto questa capita che non si attivi nelle elementari. Così vengono abbandonati a loro stessi, in situazioni critiche, con famiglie in isolamento, e magari, un genitore in terapia intensiva. Eh sì, capita anche questo.
Come si può pensare che in questa situazione così precaria, dar la scelta alle famiglie, come già si fa in America, infici, in questo momento, il diritto di istruzione? Semmai può agire in senso contrario: obbligando le scuole ad attivare la DAD, non vi è rischio che, se un bambino è in isolamento per familiare positivo al COVID, questo bambino venga abbandonato a se stesso e lasciato indietro rispetto alla classe; si evita che un genitore impaurito (per ragioni più che legittime) faccia frequentare il figlio a singhiozzo, oppure lo ritiri da scuola. Il tutto mantenendo un distanziamento vero a scuola per chi a scuola ci deve andare e mettendo, stavolta per davvero, in sicurezza le classi.
Si parla comunque di una situazione di emergenza, nella quale le scuole secondarie sono già in Didattica a Distanza per le stesse ragioni: perché imporre l’obbligo di frequenza ai bambini fino ai 12 anni, quando le scuole sono palesemente aperte perché è necessario il servizio di child-care, e non perché sono sicure?
Ed è questo il quesito che vi vorrei porre io: come si può imporre l’obbligo scolastico in una situazione del genere? Come si può imporre alle famiglie la rinuncia alla salute, alla vita, quando le alternative ci sono, e sono già attuate in altre regioni d’Italia e in altri gradi d’istruzione? Non è giusto che una famiglia pugliese o campana o una con figli abbastanza grandi per stare a casa da soli abbiano la possibilità di salvaguardare la propria salute, e una famiglia lombarda invece abbia l’obbligo di rischiare la vita e non abbia la possibilità di usufruire di strumenti tecnologici che, di fatto, dovrebbero essere già attivati nelle scuole.
Quando si diceva “terremo aperti a tutti i costi”, bisognava prevedere cosa quel “a tutti i costi” implicasse: insegnanti, malati, in DAD e studenti, in presenza, seguiti da personale ATA, che seguono videolezioni in classe, mentre i malcapitati che si sono ammalati, oltre al trauma di avere magari un genitore o un nonno in terapia intensiva, rimangono indietro col programma. Eppure la scuola elementare, in zona rossa, in pandemia, è questa.
Questo quanto stanno vivendo moltissime persone a me vicine.
Tutto ciò con gli ospedali al collasso e il tracciamento saltato da quasi 2 mesi. Con la paura che, se il prossimo sarai tu, magari per te non ci sarà il letto in ospedale.”