“Di che colore era la bambina con la quale giocavi? Non sono sicuro ma forse era nera”. Ius Scholae? Riconoscimento di un dato di fatto [INTERVISTA]
«In 30 anni l’Italia è diventato un paese a forte immigrazione e in questo contesto ci sono tanti ragazzi, circa un milione e mezzo, che o sono nati in Italia o sono arrivati dopo che però sono nelle nostre scuole: è una anomalia, si tratta di riconoscere una situazione di fatto».
Memi Campana è un insegnante modenese da poco andato in pensione dopo una vita trascorsa a scuola. Fa parte del Movimento di Cooperazione Educativa e si sta battendo da molti anni assieme ad altri soggetti, tra cui il SaltaMuri – una rete che raggruppa insegnanti genitori, associazioni e soggetti interessati a una educazione non discriminante – per l’approvazione del cosiddetto Ius Scholae, cioè della riforma della legge sulla cittadinanza che consenta a tanti bambini e ragazzi che frequentano le nostre scuole per un lasso di tempo considerevole di diventare cittadini a tutti gli effetti.
Campana sottolinea il ruolo svolto dai ragazzi e dalle ragazze che hanno avviato la campagna Dalla parte giusta della storia, con la quale i protagonisti riusciti a portare alla calendarizzazione in Parlamento di questa novità. La proposta di legge sta dividendo il mondo politico in questo momento e investe un tema che è sempre più urgente affrontare in un Paese le cui scuole sono affollate da un numero imponente e in rapida crescita di alunni stranieri. Nati in Italia da famiglie di immigrati, non godono ancora della cittadinanza italiana. «Quando un bambino cresce in un ambiente economico, spaziale, sociale culturale, e diventa parte integrante delle condizioni di vita di quel posto – sottolinea Campana, autore di un intervento pubblicato di seguito – non avere la cittadinanza lo penalizza: dalla gita in Francia, all’accesso a una società sportiva, tanto per fare alcuni esempi pratici».
Professor Memi Campana, come vede le polemiche di queste ore sulla proposta di legge sullo Ius Scholae?
«Le vedo con chiarezza, a conclusione di un dibattito che avuto una forte accelerazione con la campagna L’Italia sono anch’io, che ha raccolto 200.000 firme e che ha portato il dibattito sulla presenza dei ragazzi immigrati alla ribalta della conoscenza del sistema informativo. E giustamente».
Perché?
«Perché il dato di fondo è che nel 1992 quando fu fatta la legge sulla cittadinanza gli stranieri erano 250.000. Nel 2010 erano già 3 milioni. Ora sono oltre 5 milioni. E’ chiaro che c’è stata una accelerazione importantissima, che è sfociata in un primo momento in una proposta di legge di iniziativa popolare che fu approvata alla Camera e non al Senato nel 2013. Si è ripreso ora lo spirito di quella battaglia. Ci sono oggi tantissimi ragazzi e ragazze nati qui. Nati cioè da genitori che sono nati all’estero, ma loro sono nati qui. E’ la seconda generazione che comincia a essere numerosissima».
Diamo qualche numero
«Negli ultimi 3 o 4 anni dei ragazzi stranieri presenti in Italia il 90 per cento è nato in Italia. Fino a 10 anni fa la percentuale era all’opposto. Cioè il 90 per cento era nato all’estero e poi era arrivato in Italia. E’ questo che pone il problema della cittadinanza. La realtà di fatto è data dalla presenza di bambini, di ragazze e di ragazzi, di giovani che sono nati in Italia e fanno la vita di tutti gli altri ragazzi italiani, con i quali vengono in rapporto su un piano di assoluta e reciproca parità. Io nella mia attività scolastica ho avuto a che fare con bambini bianchissimi e nerissimi. Giocavano insieme e ricordo che un giorno chiesi a uno di loro, che aveva i capelli biondi, se fosse nera la bambina con cui aveva giocato e con cui s’era tanto divertito. Lui mi rispose: mah, non ricordo, non sono sicuro ma forse era nera. Questo piccolo esperimento dimostra che il bambino percepisce la realtà relazionale, non il colore della pelle o le caratteristiche di carattere sociale. Questo piccolo esperimento dice che il colore della pelle è apparentemente un dato cromatico sensoriale, in realtà è un dato culturale, ma non per il bambino, perché il bambino percepisce un altro dato: quel bambino e quella bambina sono più bravi in quella determinata attività , sono più veloci… Ma non il dato del colore della pelle».
Entriamo nel merito della nuova proposta di legge
«La proposta di legge introduce l’idea di considerare cittadino italiano chi per almeno 5 anni convive in uno stesso spazio umano fruito, contemporaneamente, assieme agli altri. Non sarei così d’accordo sullo ius soli, cioè sul diritto di diventare cittadini per nascita sul territorio dello Stato. Ma il lasso di tempo di 5 anni per un bambino sotto i 16 anni è un dato estremamente significativo e sufficiente perché si dica: sei alla pari, hai un diritto».
Dal suo punto di vista, chi si oppone, perché si oppone?
«Chi si oppone sembra mostrare un pregiudizio identitario per cui si nutrirebbero dei dubbi su un aspetto che la Costituzione non solo non prevede ma che addirittura schiva, che è la nozione di italianità. I tedeschi in Alto Adige sono italiani ma non possiedono tutta questa italianità. Qualcuno però nutre dei dubbi sull’italianità di chi è nero. E’ su questo terreno che ci si batte. Negli ultimi vent’anni, sicuramente negli ultimi dieci, si assiste alla presenza di un milione di ragazzi sotto i 18 anni che sono nati qui. Affollano nidi e scuole. E’ la relazione umana che si svolge all’interno di uno stesso spazio sociale che determina il diritto di cittadinanza di persone che hanno il diritto di partecipare alle scelte che riguardano la vita della città».
Cosa comporterebbe per la scuola italiana l’approvazione di questa legge?
«Comporterebbe la condivisione di un sentimento di appartenenza a un medesimo destino di tante persone, ciascuna con le proprie caratteristiche. Cosa che a scuola già avviene. Anche perché la cultura non si insegna, si co-costruisce: la cultura non è un dato, è un processo ».
Brevi note su Cittadinanzae riforma della Legge 91/1992
Di Memi Campana
Nel 1789 l’Assemblea nazionale costituente francese approvò la “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” [diritti dell’uomo e del cittadino], che intese abolire per sempre ogni forma di sudditanza nei confronti di poteri assoluti di qualunque natura.
A questo fine estese la nozione di “cittadino” ad ogni categoria sociale, senza distinzioni di genere, di censo, di fede politica o religiosa.
In una condizione storica caratterizzata dall’ “uno” [re, imperatore, papa, principe, signore…] e dai “pochi” [nobili, clero, condottieri…] l’ammissione di “tutti” , elevati alla dignità di “popolo sovrano”, ben meritò il titolo di rivoluzione per antonomasia.
Oggi, a distanza di trent’anni dalla legge 91 del 1992, che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana, si tratta di riprendere l’aspetto includente del diritto di cittadinanza e di rafforzarlo, anche alla luce dell’art. 3 della Costituzione [ripreso nell’art. 2 della Dichiarazione Universale del ’48], che afferma l’uguaglianza davanti alla legge e la pari dignità sociale di “tutti i cittadini”.
L’espressione, scelta dai costituenti, merita qualche considerazione, particolarmente nell’attuale momento e contesto storico. Infatti, da quando il flusso di immigrati stranieri in ingresso è diventato consistente, cioè da venticinque anni in qua, qualcuno ha cercato di darne una interpretazione restrittiva, sostenendo surrettiziamente – ma neanche tanto – che la nozione di “cittadino” comporti dei qualificativi di carattere culturale, linguistico, religioso, identitario, addirittura etnico.
Si cominciò a registrare, già all’inizio del nuovo millennio, una sempre più diffusa pressione per l’ottenimento della cittadinanza italiana che, a partire dal Trattato di Maastricht del 1992, comporta automaticamente la cittadinanza dell’Unione Europea.
Le reazioni non si fecero attendere.
Autorevoli politici e prelati sostennero la necessità di favorire l’arrivo in Italia solo di extracomunitari di fede cattolica o, comunque, solo da paesi che rispettassero la libertà religiosa [chiaramente si trattava di escludere i paesi islamici, ma – cosa piuttosto interessante – le altre libertà non contano? Soprattutto, non conta che la Costituzione italiana dica con forza e chiarezza, all’art. 10, “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese, l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione, ha diritto d’asilo”?].
Poi si introdusse un principio detto di “ius culturae”, al fine di superare lo “ius sanguinis”, ma – ed è tuttora materia di confronto e contrasto – in senso restrittivo e premiale. Si intese, infatti, non tanto assicurare la frequenza nella scuola dei minori con cittadinanza non italiana [ma tutti i minori hanno l’obbligo scolastico fino ai sedici anni e l’obbligo formativo fino ai diciotto. Qual è il senso di dire: tutti i ragazzi devono andare a scuola, ma i ragazzi stranieri devono pure andare a scuola?], bensì pretenderne – alla primaria – la promozione, dando così potere di concessione della cittadinanza a maestre e maestri.
Si è anche proceduto, una quindicina di anni fa, alla stesura, su impulso del Ministero dell’Interno, di un documento denominato “Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione”, peraltro priva di valore giuridico, da sottoporre alla volontaria adesione delle comunità religiose in Italia. Il principio di laicità, che la Corte costituzionale ha dichiarato essere principio fondante della Carta è chiaramente qui sotto sforzo. Un’operazione, dunque, quantomeno ambigua.
Anche le competenze linguistiche sono state invocate, con impostazione penalizzante [un approccio sempre sbagliato, ma odioso quando tocca il terreno della lingua]: “Se non parli italiano non meriti la cittadinanza”. Ma se l’intento è l’integrazione comunicativa, a un obbligo deve corrispondere una efficace e capillarmente diffusa offerta formativa di italiano L2, attuata nel rispetto delle rispettive lingue madri e all’altezza del crescente bisogno di comunicazione e comprensione reciproca.
Infine, anche e addirittura, si suggerì come condizione premiale l’espletamento del servizio militare, cosa che di questi recentissimi tempi, suona piuttosto macabra.
Dunque, si vede come le sette discriminazioni [sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e condizioni sociali] da cui mette in guardia l’art. 3 della Costituzione [per meglio dire: che la Costituzione vieta espressamente] siano sempre in agguato, e sta alla nostra vigilanza democratica segnalarne la presenza, ovunque si annidino.
Alcuni hanno tentato di piegare l’espressione “tutti i cittadini” a propositi discriminatori ed escludenti, ma “correttamente la Corte costituzionale – come ha osservato un eminente giurista – ha ripetutamente risposto che l’art. 2 ‘riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo’ [nel senso di genere umano] e quindi, se si facesse eccezione per gli stranieri, si cadrebbe nell’assurdo del non ritenerli egualmente soggetti alla legge” .
I diritti di cittadinanza – nella loro valenza di diritti umani fondamentali – nel corso della storia si sono poi progressivamente incorporati nella persona stessa, “che li porta con sé al di là delle frontiere, che sono state invece concepite sempre più per escludere il non cittadino. Quando i diritti di cittadinanza accompagnano la persona, quale che sia il luogo in cui si trova, allora l’insieme di questi diritti diventa patrimonio comune dell’umanità . L’“homme” e il “citoyen”, dunque, hanno via via ridotto lo spazio di separazione indicato dall’“et”.
Si tratta di superare la cittadinanza intesa in senso puramente e rigidamente identitario, al di là di ogni pur legittima appartenenza linguistica, etnica o culturale che sia, in vista di quella che sempre più è una condizione di condivisione di vita e di destino dell’intera umanità.
“Il mondo giuridico odierno – osserva Zagrebelsky, già presidente della Consulta – in molti campi è destinato ad affrancarsi, seppure con andamento contraddittorio, dal territorio, inteso come spazio circondato da confini, cui il diritto pubblico occidentale assegna il compito di identificare gli Stati e che ha rappresentato per secoli la dimensione delle sistemazioni giuridiche e costituzionali dei fatti sociali” .
Uno degli ambiti destinati a rendere sempre meno rigidi i confini – nonostante tutto, nonostante i tragici fatti bellici di oggi, che però sono destinati a soccombere di fronte a una sempre più matura coscienza di specie, pena la fine della specie stessa e con essa della storia – è precisamente quello del diritto di cittadinanza e della sua contiguità con i diritti della persona.
Oggi le dimensioni sociali politiche e culturali si sono allargate, e sempre più si espandono: “la terra appartiene ai viventi o, forse, i viventi appartengono alla terra. Alla terra, comunque non più ai territori”.
In questa direzione va il nostro impegno di uomini e donne che intendono essere pienamente protagonisti del tratto di storia che percorriamo e costruiamo.