DaD sì o DaD no? Dipende. Lettera

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inviata da Felice Alessandro Spampanato – A questa semplice domanda mi sento di rispondere con un dipende. Dipende innanzitutto dalla durata. Se la DaD resta l’unica modalità di vivere la scuola, la mia risposta è negativa. Se invece è parte integrante della didattica “in carne ed ossa”, riscontro un risvolto effettivo.

E’ da decenni ormai che gli insegnanti più volenterosi, gli “immigrati digitali” -secondo la felice definizione coniata da Prensky Marc- introducono nelle loro lezioni le TIC -le tecnologie dell’informazione e della comunicazione- , come sostegno digitale strutturato, per motivare i propri studenti e alunni, i cosiddetti “nativi digitali”, nella presentazione di attività ed elaborazione di contenuti.

Infatti, secondo le più recenti ricerche nel campo delle neuroscienze e della psicologia dell’apprendimento, l’influenza delle nuove tecnologie sta avendo notevoli ripercussioni a livello
cognitivo-emotivo sugli adolescenti di oggi. I continui stimoli informatici, in effetti, hanno ripercussioni dirette sull’apprendimento e sulla stessa matrice cognitiva della mente: il multitasking cognitivo, per il quale gli alunni riescono a concentrarsi su più attività contemporaneamente.

Il gap generazionale tra insegnanti e studenti è ancora molto esteso e non mancano le resistenze tra i docenti nell’uso delle TIC. Ai tempi della Covid -19, un maestro o professore che si consideri moderno e inclusivo non può certo ignorare l’importanza della Rete nella didattica e nella formazione.

L’uso delle TIC è un sottinteso della didattica a distanza. Possiamo affermare che la DaD è all’ennesima potenza di una scuola che si basa sulla comunicazione, condivisione, collaborazione e fiducia, visti in chiave digitale. Tuttavia, se la scuola di pochi anni fa mirava al rapido ed efficace raggiungimento della competenza informatica, vista come opportunità di conoscenza, interazione ed espressione di sé, con la DaD infinita stiamo assistendo ad un graduale rigurgito, a un sintomatico malessere condiviso tra docenti, studenti e famiglie.

Com’è sempre accaduto nel susseguirsi ciclico dei movimenti artistico-letterari, il troppo storpia, e dalla corsa delle scuole per l’accaparramento delle LIM -coi punti delle Coop-, si sta passando al desiderio di una didattica bucolica, al ritorno alla natura, all’osservare ed apprendere en plein air.

L’altro aspetto che bisogna considerare è la fascia di età con cui si lavora. E’ indubbio che alcuni ragazzi, che frequentano la scuola secondaria di secondo grado, o studenti che frequentano
l’università o adulti-lavoratori, possano trovare vantaggiosa la DaD. Ma anche in questo caso le peculiarità personali di ogni studente fan pesare il piatto della bilancia in un senso o nell’altro:
l’organizzazione lavorativa, il risparmio di tempo per raggiungere l’istituto, le competenze informatiche specifiche, le peculiarità legate alla personalità, alle attitudini, agli stati d’animo.

D’altro canto, nascosti dietro gli schermi, spesso gli studenti si allontanano o si assentano completamente dalla lezione per fare tutt’altro: c’è chi consuma pasti, chi fuma, chi gioca ai
videogiochi… E’ per questo motivo che le lezioni in DaD possono avere senso solamente se gli studenti sono visibili e partecipativi. La telecamera accesa è dunque un sine qua non che permette
uno scambio comunicativo al meno a volto scoperto.

La scarsa connettività delle reti casalinghe, gli improvvisi black-out, l’assenza di apparecchi informatici funzionanti, sono tra i punti deboli della Didattica a Distanza. Le scuole hanno cercato di venire incontro agli studenti e famiglie con difficoltà economiche attraverso il prestito di device, quali tablet o telecamere, e a predisporre corsi di aggiornamento informatici per professori e studenti non avvezzi ai pacchetti G-suite e alle applicazioni più in voga.

Durante i lockdown è stato scelto di sacrificare gli studenti più grandi nella convinzione che i bambini della materna, della scuola primaria e secondaria di primo grado (solamente del primo
anno) avessero maggior necessità di stare insieme, in un unico ambiente, con le maestre e i compagni. E’ provato che la stragrande maggioranza dei discenti – al di là della loro età- soffre nel
non poter stare coi propri pari per condividere quei momenti di distrazione dalle lezioni canoniche (l’intervallo, le uscite didattiche, le gite…) che sono parte integrante e attiva della vita scolastica.

La chiusura degli alunni nelle proprie case per ore davanti ai rettangoli luminescenti, con genitori spesso assenti, è certamente cosa deplorevole. Va tuttavia sottolineato, come testimoniato da tanti bambini della primaria e secondaria di primo grado, che l’andare a scuola nelle modalità imposte dai Dpcm è ugualmente frustrante. L’obbligo di indossare le mascherine, almeno per i bambini di età superiore ai 6 anni, comporta la perdita della spontaneità ed espressività corporea.

L’utilizzo della mascherina in classe, oltre a provocare disagio nel respirare, parlare e comprendersi, sta creando disturbi legati alla comunicazione pura delle emozioni. Non mi riferisco soltanto ai sorrisi, – che stiamo imparando a trasmettere con gli occhi e che tanto bene fanno a chi li riceve- ma a quell’incredibile varietà di sfumature emozionali che l’amigdala trasforma in espressioni facciali. Un bravo docente, in classe, ha bisogno di uno scambio comunicativo diretto e puro coi suoi alunni. Il distanziamento fisico viene ad aggravare una situazione comunicativa già resa precaria dalla copertura dei volti. Il contatto fisico è essenziale nella crescita del gruppo.

Il non poter toccare oggetti senza la paura di contagiarsi, lo stare per ore inchiodati al banco, o il non potersi toccare vicendevolmente -una stretta di mano, una pacca sulla spalla, un abbraccio – tutto ciò crea irrigidimento, smarrimento, frustrazione. Gli adolescenti, ed in particolare gli alunni della scuola secondaria di primo grado – coinvolti in quella delicata fascia d’età in cui entrano bambini ed escono uomini e donne- hanno bisogno di conoscere se stessi e il genere opposto attraverso le relazioni.

In tanti anni nella Scuola, le attività e i laboratori che ho realizzato, ogni qual volta si verificavano situazioni conflittuali, dove emergevano azioni di bullismo o assenza di unità di gruppo, si basavano sul contatto. Uno dei laboratori creati, per rafforzare l’intelligenza emotiva, è il “gioco degli abbracci”: consiste nel guardarsi in faccia, un alunno di fronte all’altro, e nel dirsi
qualcosa di piacevole, dopodiché nell’andarsi incontro e darsi un abbraccio. Incontro ancora studenti per strada che mi raccontano di aver provato un vulcano di emozioni in quei pochi minuti;
per loro era un mettersi in gioco, dal momento di scegliere se partecipare o no all’attività, ad accettare di aprirsi a qualunque compagno di classe, al dover riuscire a esprimere, prima a parole e
poi con un abbraccio, i propri sentimenti. Quest’attività è solo un esempio di quello che non si può più fare. O almeno fino a quando non ci diranno che a Scuola potremo tornare a toccarci.

Quando si ferma la Scuola tutta la società è coinvolta – travolta- chi in un modo chi in un altro, e tutti ne parlano; un po’ come avviene quando si sente parlare delle lingue straniere, tutti
possono affermare la propria idea linguistica e spacciarsi per esperti glottologi. Lascio dunque ai giornalisti, ai politici e alle chiacchiere da bar (fuori dal bar!) i commenti più disparati

Quella breve parentesi di didattica in presenza al 50%, mentre attraversavo i vuoti corridoi del mio istituto, tra frecce e bolli, colleghe e bidelli mascherati e disinfettati, fredde le aule, chiusi i luoghi di aggregazione, l’ho vissuta come un triste presagio. Sembra che, ancora una volta, siano altri gli interessi: la convinzione che la vaccinazione di massa sia l’unica via percorribile per poter riaprire, rischia di affossare ancor più le relazioni interpersonali già precarie tra gli attori del mondo scolastico.

Il mio augurio è rivolto agli studenti di ogni ordine e grado affinché ci sia sempre in loro spirito d’iniziativa e la capacità di scindere le lezioni nozionistiche dalle attività significative che li
rendono protagonisti del loro percorso di apprendimento. Che la curiosità vada di pari passo con la spontaneità e che si creino laboratori che si prendano cura delle emozioni, dei cuori e non soltanto delle teste degli alunni. Che ci sia sempre spazio nella Scuola per l’attivismo, per la critica costruttiva, per la libertà di scioperare. Che tutto ciò continui ad essere al centro del dibattito scolastico. Ma dal basso, qualcosa di grosso si sta muovendo, per garantire la libertà di scegliere. Il diritto allo studio e al libero insegnamento, per esprimere liberamente il proprio pensiero.

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