Da campagna denigratoria dei genitori, ai rimproveri di un dirigenti, al divieto di andare in bagno: è lesa dignità del docente. Sentenze

Dignità. Per la Treccani significa “Condizione di nobiltà morale in cui l’uomo è posto dal suo grado, dalle sue intrinseche qualità, dalla sua stessa natura di uomo, e insieme il rispetto che per tale condizione gli è dovuto e ch’egli deve a sé stesso”.
Sono state diverse le sentenze, nel pubblico e nel privato, che hanno trattato la questione della tutela della dignità del lavoratore. Ne vediamo alcune.
Lesa la dignità del lavoratore a cui viene vietato di recarsi in bagno
Con Sentenza 111 del 2019 il Tribunale di Lanciano ha accolto il ricorso di un lavoratore a cui fu impedito di andare al bagno e si fece la pipì addosso. “Orbene, come è noto, nell’ambito del rapporto di lavoro, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare non solo l’integrità psicofisica ma anche la personalità morale del lavoratore, ai sensi dell’articolo 2087 del cc vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’articolo 32 Cost. Quanto alla tutela dell’integrità fisica e agli artt.1,2,4,35 quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione dà luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniale, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte in sostanza in un’ipotesi di risarcimento danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista. Sulla base dell’istruttoria svolta è dunque possibile concludere nel senso che il datore di lavoro non ha adottato tutte le misure idonee a salvaguardare la personalità morale dei prestatori di lavoro in aperta violazione dell’articolo 2087 c.c e nel dettaglio non ha predisposto un sistema organizzativo che consenta al lavoratore di allontanarsi dalla propria postazione lavorativa per soddisfare un bisogno primario non controllabile né preventivabile.”
Va provato il pregiudizio subito, quando si lamenta la lesione della dignità
“La situazione giuridica riconosciuta in capo al dipendente che aspiri al conferimento di un determinato incarico non è di diritto soggettivo c.d. potestativo, ma di interesse legittimo di diritto privato. Per converso, la situazione facente capo al datore di lavoro è di “potere discrezionale” provato, essendo in facoltà dello stesso, pur nel rispetto dei limiti di legge, di accogliere o meno la richiesta di conferimento dell’incarico. Ne consegue che il giudice giammai può emettere sentenza con la quale accerta il diritto del ricorrente a vedersi conferire l’incarico cui aspira, essendo lo stesso attribuibile solo a seguito di valutazione discrezionale della P.A., ma, al più, ove accerti che il potere discrezionale sia stato esercitato travalicando i limiti previsti dalla legge, potrà dichiarare illegittimo il provvedimento di conferimento dell’incarico impugnato, così costringendo la P.A. a operare una nuova valutazione, nel rispetto delle norme in precedenza violate. Il mancato conferimento di un determinato incarico non appare di per sé idoneo a ledere la dignità professionale di coloro che aspiravano ad ottenerlo, dovendosi, ad ogni modo, fornire la prova in concreto del pregiudizio lamentato, sulla scorta di circostanze oggettive e specifiche e non di mere valutazioni soggettive del richiedente. Peraltro, in consimili fattispecie di interesse pretensivo, non sussiste alcun periculum in mora tutelabile in via cautelare d’urgenza.” (Trib. Trani 22/9/2011)
Se la forma del provvedimento disciplinare lede la dignità del lavoratore va dichiarato illegittimo
“Il licenziamento disciplinare illegittimo è da considerarsi ingiurioso non allorquando la contestazione riguardi un fatto lesivo dell’onore e del decoro del lavoratore, bensì laddove la forma del provvedimento e la pubblicità data a esso siano effettivamente lesive della sua dignità, atteso che un licenziamento ingiustificato o immotivato – sicuramente illegittimo e produttivo di danno risarcibile a norma di legge – non è, per ciò solo, anche ingiurioso, per cui il lavoratore non può pretendere a tale titolo un ulteriore risarcimento, ove non provi l’ulteriore e diverso danno subito.” (Corte app. Venezia 6/6/2007)
Il mobbing, nelle sue varie esplicazioni, lede la dignità
“La fattispecie conosciuta come mobbing gerarchico o verticale o bossing consiste nel complesso di comportamenti di ostracizzazione connotati da violenza, come abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, etc. perpetrate da parte di superiori, ripetuti per un apprezzabile lasso temporale e lesivi della dignità personale e professionale, nonché eventualmente, della salute psico-fisica del lavoratore, tenuti con il fine di indurre la vittima ad abbandonare da sé il lavoro.”(Trib. Bologna 13/4/2010)
Quando il controllo dei lavoratori può ledere la dignità degli stessi
La Cass., sent. 17/7/2007 n. 15892 aveva negato legittimità all’installazione, poiché unilaterale, di un sistema di registrazione della matricola e degli orari per l’accesso e l’uscita dal garage aziendale tramite badge, sulla base dei seguenti condivisibili principi: “L’insopprimibile esigenza di evitare condotte illecite da parte dei dipendenti non può assumere portata tale da giustificare un sostanziale annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza del lavoratore. Tale esigenza non consente di espungere dalla fattispecie astratta i casi dei c.d. controlli difensivi, ossia di quei controlli diretti ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori quando tali comportamenti riguardino, come nel caso, l’esatto adempimento delle obbligazioni discendenti dal rapporto di lavoro – e non la tutela di beni estranei al rapporto stesso -, ove la sorveglianza venga attuata mediante strumenti che presentano quei requisiti strutturali e quelle potenzialità lesive, la cui utilizzazione è subordinata al previo accordo con il sindacato o all’intervento dell’Ispettorato del lavoro. Consegue a tale rilievo la necessità – ex art. 4, comma 2, dello Stat. lav. – che l’istallazione della contestata apparecchiatura sia oggetto di accordo con le RSA o consentita dall’intervento dell’ufficio pubblico, affinché i dipendenti ne possano avere piena conoscenza e possano eventualmente essere stabilite, in maniera trasparente, misure di tutela della loro dignità e riservatezza”.
Condannato un dirigente che umilia una docente per aver leso la sua dignità
La Cassazione, con la sentenza 17689 del 2014 ha condannato un preside che per aver “umiliato” la professoressa che arriva in ritardo a scuola. Per i giudici il vero scopo era quello di attuare una «vera opera di umiliazione e svilimento della dignità morale della docente, cagionandole uno stato di abituale sofferenza fisica e morale».
I genitori non possono ledere la dignità degli insegnanti
La Cassazione con sentenza 9059 del 12 aprile 2018 ha accolto il ricorso di una maestra vittima di quella che è stata definita come una campagna denigratoria da parte di alcuni genitori. Come si legge nella sentenza “ la condotta denigratoria ascritta all’odierno resistente ebbe diacronicamente a dipanarsi attraverso una serie di atti e comportamenti univocamente e pervicacemente intesi a ledere l’onore, il prestigio e la stessa dignità dell’insegnante. Ma, specularmente, il giudice civile, nella valutazione e liquidazione del quantum debeatur, non può e non deve ignorare, -quasi che la dimensione della giurisdizione si collochi entro un asettico territorio di pensiero tanto avulso dal reale, quanto insensibile ai mutamenti sociali e culturali in cui essa viene esercitata (in argomento, tra le altre, Cass. 21619/2007, che discorre di “dimensione storica” dei criteri di causalità; Cass. 5146/2018, che ricostruisce espressamente il risarcimento da perdita di chance in termini di scelta “di politicadel diritto”) -il preoccupante clima di intolleranza e di violenza, non soltanto verbale, nel quale vivono oggi coloro cui è demandato il processo educativo e formativo delle giovani e giovanissime generazioni. Alla stregua del così compiuto accertamento dell’an debeatur, da ritenersi provato alla luce di quanto sinora esposto, sarà compito del giudice del rinvio procedere alla liquidazione del danno sul piano equitativo, valutando tutte le circostanze emerse nel corso del giudizio, che hanno inevitabilmente cagionato un grave e duraturo sentimento, sul piano sia emotivo che relazionale, di disistima, di vergogna e di sofferenza nel soggetto leso”