Crisi rapporto tra genitori e docenti, “Gli organi collegiali hanno fallito e poi c’è la chat delle mamme”. INTERVISTA a Daniele Novara

Perché è diventato così difficile educare i nostri figli? Ne abbiamo parlato con il Professor Daniele Novara, pedagogista, autore, fondatore e direttore del CPP, Centro PsicoPedagogico per l’educazione e la gestione dei conflitti.
Professor Novara, c’è una parte del mondo educativo che si scaglia contro i genitori, accusandoli di avere abdicato al loro ruolo di educatori e spesso in conflitto con altre istituzioni educative come la scuola. Quanto è in crisi quella che doveva essere un’alleanza educativa?
Direi che il termine crisi non rende l’idea, non rende neanche l’idea del livello di conflittualità in atto, che è veramente fortissimo. Ricordiamo che siamo partiti da un periodo storico precedente al ‘68 dove genitori e insegnanti erano assolutamente un’unica entità autoritaria per contenere e originare l’energia dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze; poi c’è stato il periodo dei cosiddetti decreti delegati, la partecipazione scolastica dei genitori, stiamo parlando del ‘74-‘75, quando inizia tutta questa istituzionalizzazione dei papà e delle mamme dentro gli organi collegiali.
Tutto questo oggi è molto in crisi, un po’ perché questi organi collegiali non sono risultati particolarmente efficaci e efficienti, almeno rispetto alle aspettative che si erano create che erano quelle di un gioco di squadra, quindi finito l’idillio organi collegiali resta questa conflittualità molto massiccia, enfatizzata poi anche dalle chat genitori, che sono un luogo per antonomasia di conflittualità genitori-insegnanti. Pertanto come se ne viene fuori? Secondo me non se ne viene fuori, il conflitto c’è ed è cambiato il mondo da un certo punto di vista, siamo nell’epoca narcisistica, i figli sono pochi, sono profondamente preziosi per i loro genitori che puntano all’intimità con i figli, alla condivisione assoluta.
Senz’altro il registro elettronico non è stato utile da questo punto di vista, perché mi chiedo che senso ha che i voti li conoscano al mattino prima i genitori dei loro figli, è come se a scuola non ci fossero solo i bambini o i ragazzi ma anche i loro papà e le loro mamme, questa è una situazione inedita che va considerata. Non mi stancherò mai di ripetere agli insegnanti di considerare che oggi i genitori sono lì, c’è l’ombra del genitore dietro ad ogni alunno.
È un’ombra che peraltro durante il Covid è stata anche enfatizzata, la DAD l’hanno fatta i genitori, non l’hanno fatta i ragazzi, specialmente nelle prime fasi scolastiche, ovvero la primaria e la secondaria di primo grado. In questo senso occorre stabilire dei confini chiari, che non sono semplicemente confini logistici, come ad esempio mettere il campanello fuori dalla scuola o altro, ma un confine relativamente ai ruoli.
Agli insegnanti suggerisco sempre di fare una riunione con i genitori all’inizio dell’anno scolastico, in modo da spiegare qual è il loro ruolo, ad esempio che devono far dormire i propri figli in modo che non arrivino a scuola ancora addormentati, che devono fare la colazione, che devono ridurre il carico neuro-mentale dei videoschermi durante la giornata non scolastica, che gli eventuali compiti, che dovrebbero essere il meno possibile, devono riguardare gli alunni e non i genitori, semmai il genitore ha un ruolo di supervisione, un ruolo esterno, non può sedersi lì con il figlio a fare i compiti, per cui se poi l’insegnante a qualcosa da ridire sui compiti salta fuori che ha qualcosa da ridire sulla famiglia stessa.
A tal proposito ricordo che vennero in studio la madre e la nonna di una bambina di secondo o terzo elementare e mi portarono i suoi quaderni, ad un certo punto la nonna inferocita mi fa vedere il quaderno dicendo di guardare quanti segni rossi c’erano e ribattendo che aveva fatto tutto lei e quindi che si sentiva presa di mezzo, perché i compiti che lei aveva seguito così bene, come sosteneva, erano diventati un elemento di giudizio da parte degli insegnanti.
Questo esempio deve farci capire che se ne può uscire solo con un gioco di squadra, dove si stabiliscono i ruoli che devono essere molto chiari, i genitori creano le condizioni affinché i figli vivono la scuola come ambiente positivo, ma gli insegnanti hanno una titolarità sui processi di apprendimento, la devono gestire il meglio possibile, inoltre bisogna evitare i pasticci, anche gli eccessi di confidenza, la presupposizione come ad esempio dire ad un genitore di lavorare tanto con il figlio nel weekend perché è indietro. Ma lavorate che verbo è? È l’alunno che deve lavorare, non i genitori, si sono create varie aree di ambiguità, di sovrapposizione che vanno assolutamente rimosse.
In questa situazione la fascia più critica è quella degli adolescenti che hanno vissuto questi genitori troppo presenti e con troppa sovrapposizione, incapaci anche di dare quei no che servivano. Come si può lavorare oggi con soggetti adolescenti che spesso entrano in conflitto anche con i propri insegnanti?
Anzitutto mi permetto di dire che non si tratta semplicemente del “no”, si tratta di genitori scarsamente organizzati sotto il profilo educativo, estremamente fragili anche sul piano emotivo e quindi che fanno fatica poi a costruire una crescita corrispondente all’età della vita. Sto pensando a “Lettone” dei genitori, nella prima classe della primaria almeno la metà dei bambini e delle bambine ancora dorme nel “Lettone”, che ci arrivi alle 2 di notte o parta subito nel Lettone cambia poco.
È questa promiscuità col genitore che non riesce a stare nel suo ruolo che rende poi tutto difficile. Allora dobbiamo dire che gli adolescenti non nascono come un fungo nel bosco, bisogna che l’infanzia sia stata un’infanzia dove le fasi della crescita sono state adeguatamente seguite, ad esempio che il controllo sfinterico sia arrivato al momento giusto, così come le autonomie, e che progressivamente i bambini e le bambine abbiano imparato ad essere autonomi, specialmente fra gli 8 e i 10 anni, e che abbiano imparato a rispettare l’autorità dei genitori, a introiettare le figure del papà e della mamma, non come succede adesso che abbiamo una pletora di genitori “amici”, di genitori compagni di gioco.
È il risultato di una campagna orribile condotta per 40 anni dai rotocalchi femminili perché il papà facesse il compagno di gioco, ma adesso cosa abbiamo in mano? Ben poco, per carità va bene ogni tanto giocare, ma con la giusta distanza. In studio ho una caterva di papà che giocano a fare la lotta con i figli, ma che senso ha? Oppure di mamme che incitano i papà a giocare con i propri figli, ma non sarebbe meglio che incitasse il proprio figlio a giocare con i suoi amici piuttosto che trasformare il padre in un compagno di giochi?
Poi recuperare la figura del padre in adolescenza non è semplice se per tutta l’infanzia sei stato quello che faceva a cuscinate con tuo figlio, in adolescenza non è semplice scoprire una dimensione più paterna, nel senso regolativo della parola, dove il gusto, il bisogno, la necessità di libertà degli adolescenti trovi nel paterno, e quindi nel padre, quando il padre c’è, o nel paterno della mamma, quando il padre non c’è, un giusto argine, una giusta organizzazione, un giusto limite, un paletto come sostengo nel mio libro che sta per uscire. Parlo proprio di questa mia tecnica, detta appunto del paletto, come una delle più importanti per gestire il processo ed il bisogno di libertà del figlio che vuole scavallare il nido materno, portarsi fuori, allontanarsi. Allora bisogna però fare in modo che questo avvenga senza pericolo, ma che avvenga in una logica di crescita e non in una logica così confusa e disarticolata.
Lei porta avanti una linea incentrata su una regolamentazione dell’accesso al digitale tra i ragazzi, quanto incide il mondo digitale nei rapporti educativi?
Tantissimo, anzitutto i genitori non ce la fanno perché sono stati presi alla sprovvista, specialmente dallo smartphone. Si è passati, circa 15 anni fa, da un unico computer in casa di cui i genitori avevano la password, ad un proliferare di smartphone in mano a chiunque, magari anche a bambini di 8-9 anni, poi diventa molto difficile mettere dei limiti, perché questi strumenti come smartphone e tablet, ma soprattutto i videogiochi, ti agganciano le aree neurocerebrali dopaminergiche, cioè quelle del piacere, e a quel punto tutto il resto sparisce, resta solo questa visione del video dove si coagula il mondo di questi ragazzi, magari anche di notte.
Social e videogiochi diventano un isolamento e nell’isolamento i ragazzi e le ragazze rischiano di avere delle deviazioni mentali, non da poco. La cosa più grave per gli adolescenti è isolarsi, perché per loro è il momento del gruppo, della compagnia, delle aggregazioni, il momento in cui si esce di casa per trovare i compagni e se invece di uscire di casa se ne stanno lì nella cameretta appiccicati a quegli strumenti, è logico che l’isolamento la fa da padrone, ma è un isolamento che ti toglie la libertà, perché quando il cervello è catturato non si riesce più a tornare indietro. Dopo due ore di videogiochi il cervello è in default con il dispositivo e non torni più indietro, non ce la fai, non riesci più a spegnerlo, e i genitori lamentano che non riescono a bloccarlo.
È normale, perché dopo le due ore i videogiochi sono fatti apposta per impedire agli utenti, i ragazzini e le ragazzine, di tornare indietro, non c’è reversibilità da questo punto di vista. I genitori vanno aiutati, non si può lasciarli da soli in questo tiro al piccione, dove il piccione è il genitore. Bisogna dare delle normative da questo punto di vista, a scuola abbiamo la normativa per cui gli smartphone non si possono usare fino a 14 anni, benissimo, ma fuori dalla scuola si possono usare. C’è una contraddizione, bisogna che la società equipari la norma scolastica a tutta la vita dei nostri ragazzi, se fanno male a scuola fanno male anche fuori dalla scuola, non è che cambia la faccenda.
Un’ultima domanda, lei e il suo staff siete esperti nella gestione dei conflitti, la cronaca ci riporta forti scontri tra i giovani che avvengono nei posti più disparati, dalle università alle piazze, cosa possiamo fare per migliorare la gestione dei conflitti affinché non sfocino in violenze?
Esatto, questo è il mio tema forte, ci ho lavorato tutta la vita. L’antidoto alla violenza, specialmente in età evolutiva, è uno solo, saper gestire le contrarietà, saper gestire i conflitti, saper litigare bene.
Sono sempre più convinto che i nostri ragazzi si salvano in questo modo, non si salvano con le punizioni o con la repressione, non si salvano minacciandoli o addirittura impedendogli di andare a scuola. Occorre avviare a livello scolastico, e anche extrascolastico, programmi, anche contro il bullismo, che aiutino i nostri figli ad imparare che quando l’altro non ti dà ragione o ti è in contrasto, non è che devi tirargli una coltellata, un pugno o aggredirlo, ma c’è una dialettica che ti aiuta a vedere altri punti di vista, che ti permette di rispettare te stesso rispettando gli altri, c’è una dialettica per cui anche i sistemi di comunicazione devono essere adeguati.
Se una persona è arrabbiata non gli puoi fare uno “spiegone” o continuare a dirgli di calmarsi, bisogna che le regole, su cui io lavoro da 40 anni, della buona gestione dei conflitti siano portate nelle scuole, nell’educazione civica, nei centri sportivi, negli oratori, insomma ovunque. Questa è l’alfabetizzazione che consente ai ragazzi anzitutto di non fare violenza a sé stessi, perché è questa la violenza più pericolosa, come il suicidio, il tagliarsi, i disturbi alimentari, le sostanze.
E poi ogni tanto ci sono quelli che girano col coltello e ovviamente i genitori dovrebbero controllare, ma non è così semplice. Allora dobbiamo partire dal basso e lavorare su questa capacità di stare nel conflitto, perché è la base stessa della convivenza. Siamo capaci tutti di stare insieme in un centro termale o in un momento di festa, è più difficile quando si creano delle tensioni, ma è lì che si gioca la tua competenza. La scuola sembra aver rinunciato, per esempio, a far discutere i ragazzi in aula, che è importantissimo, anche solo saper fare una discussione: parlo io, poi parli tu, poi parla lui e ci ascoltiamo, ovviamente ognuno ha un tempo molto limitato, ma ci ascoltiamo.
Una volta la discussione era di casa nelle aule scolastiche, specie alle superiori, oggi è tornato a prevalere la lezione, la spiegazione, la frontalità. La scuola deve fare uno sforzo, altrimenti non ce la facciamo, diversamente diventa tutta polizia, carabinieri, prefettura, magistratura, tribunali e così via. Non dimentichiamo che noi siamo l’educazione che abbiamo ricevuto, ciascuno di noi, se ci dimentichiamo questo non ci sono carabinieri che tengono. Dobbiamo fare uno sforzo maggiore, questo è il compito di una generazione rispetto alle altre, ovvero di motivare il desiderio di imparare a vivere con sé stessi e con gli altri costruendo relazioni di crescita reciproca.