Così il controllo sulla didattica rafforza lo strapotere delle multinazionali. L’inchiesta di Altreconomia

Quasi nove scuole italiane su dieci si sono affidate alla piattaforma proprietaria di Google. I dati inediti del ministero dell’Istruzione e degli Uffici scolastici regionali nell’inchiesta del numero di marzo di Altreconomia, a due anni dall’avvio della Didattica a distanza.
A due anni dall’avvio della didattica a distanza in Italia le multinazionali americane, Google e Microsoft in testa, hanno colonizzato il sistema dell’istruzione pubblica. Lo mostrano dati inediti trasmessi dal ministero dell’Istruzione e da alcuni Uffici scolastici regionali ad Altreconomia.
L’osmosi tra scuola e piattaforme digitali è stata eletta a sistema dal ministero nell’agosto 2020 con il passaggio dalla fase emergenziale della Dad alla didattica digitale integrata (Ddi), linea poi confermata anche dall’attuale ministro Patrizio Bianchi, ma numeri che descrivano il fenomeno se ne trovano pochi.
Ecco perché Altreconomia ha così inoltrato al Miur e a 18 Uffici scolastici regionali (Usr) delle istanze di accesso civico per fare luce. I dati ottenuti dal ministero confermano uno sviluppo prevedibile. Le scuole che hanno fornito elementi (quasi 7.700 su poco più di 8.000 istituti pubblici italiani) hanno scelto in larga prevalenza Google Suite for Education (6.614, circa l’86,3%), seguita da Microsoft (1.381, il 18%) e Weschool (473, il 6,2%), mentre la voce “altro” (1.126, il 14,7%) raggruppa tutte le altre piattaforme scelte in aggiunta o in alternativa. Anche tra gli ulteriori sistemi per videocall o strumenti digitali utilizzati emerge la forte prevalenza di soluzioni commerciali (quali Whatsapp, Skype e Zoom) a discapito di quelle con licenza open source (come Jitsi o Moodle).
Uno dei temi più delicati approfonditi nell’inchiesta di marzo riguarda la tutela della privacy dei ragazzi, oltre che dei professori. “Su queste piattaforme girano dati di natura molto sensibile: non solo sull’uso dei software e su tempi, modi e risultati dello studio, ma anche sulle opinioni personali, religiose, o sullo status socio-economico di chi le usa”, dice Giulia Schneider, docente di Diritto dell’economia all’Università Cattolica di Milano e coautrice di uno studio europeo che, nel primo anno della pandemia, ha esaminato privacy policy e condizioni di servizio delle piattaforme. Oltre alla raccolta dei dati, “l’obiettivo delle big tech è la fidelizzazione”, aggiunge Giuseppe Attardi, docente di Informatica all’Università di Pisa, con rischi di condizionamento e di dinamiche “vendor lock-in” per studenti e insegnanti.
In Italia la soluzione “open source” è stata adottata solo in casi rari, anche se il Codice dell’amministrazione digitale imporrebbe agli enti pubblici di attivare nuovi software solo in seguito a valutazione comparativa che includa soluzioni open source e, a parità di altre condizioni, di privilegiare queste ultime. L’inchiesta completa di Altreconomia si può leggere qui