Cos’è la “valutazione educativa”, è innanzitutto un abito mentale. L’importanza dell’orientamento attraverso la didattica. INTERVISTA al docente Alessio Trevisan
“Valutare una verifica a punteggi – scrive Alessio Trevisan – offusca e opacizza i processi che le prove dovrebbero, in qualche modo, mettere in evidenza. La dimensione del punteggio può avere senso come misurazione e indicazione su aspetti specifici: ma misurare non è mai valutare”. Si tratta di altra operazione mentale e progettuale.
Al centro della valutazione, infatti, deve esserci, per dirla con Trevisan, sempre il processo di apprendimento, micro e macro. Scrive Alessio Trevisan “Per la riflessione sulla lingua, è un po’ come quando i colleghi di matematica spiegano l’importanza del processo sul risultato. Quando si dice che la grammatica è come la matematica, in fondo, si esprime un qualcosa di vero: anche la grammatica — quando e se intesa come riflessione sulla lingua — è un campo disciplinare che richiede ipotesi, ragionamenti, visualizzazioni, dubbi, domande, poi risultati e teorizzazioni.
Questo è il senso profondo della riflessione linguistica: accompagnare studenti e studentesse ad acquisire competenze metacognitive e metalinguistiche, cioè diventare consapevoli della e delle lingue come sistemi che organizzano il linguaggio umano”. Alessio Trevisan classe 1995 è insegnante dal 2019.
“Sono entrato in classe – afferma Trevisan – in un anno complesso, che necessariamente ha scardinato alcune convinzioni/convenzioni che ruotavano intorno alla didattica. Sono nato e cresciuto a Settimo Torinese, dove ho potuto fare esperienze significative per il mio percorso professionale: in Oratorio ho imparato a scrivere i primi progetti e ho avuto una tutor d’eccellenza, una ex maestra e preside suora che, quotidianamente, si confrontava con me e attraverso l’associazionismo giovanile ho sperimentato cosa significa prendersi cura di un bene comune e progettare il e per il territorio.
Dal 2016 al 2023, ho lavorato per la Cooperativa O.R.So. occupandomi di animazione socio-culturale, formazione, servizi informativi, politiche giovanili, progettazione sociale e orientamento. Quando sono diventato insegnante, avevo un bagaglio molto ricco legato a tutte quelle dimensioni trasversali che caratterizzano il lavoro a scuola. Proprio per questo, dopo la triennale in Lettere classiche e la magistrale in Filologia moderna a Torino, ho deciso di iscrivermi e conseguire una terza laurea in Dirigenza scolastica e Pedagogia clinica, presso l’Università di Firenze. Ad oggi, dopo alcuni anni in un istituto salesiano a Torino, sono ritornato nella mia città, di ruolo all’Istituto Comprensivo Settimo I, dove insegno Italiano, storia e geografia”.
Lei afferma che “Non basta un approccio teorico per realizzare la pedagogia della parola, e sicuramente è altamente insufficiente l’approccio tradizionale. Non basta la grammatica generativa, non basta la linguistica cognitiva, non basta la grammatica valenziale, non basta il Writing and Reading Workshop, non basta la filologia”. Cosa serve allora, professore?
«Quel non basta significa che non è mai sufficiente un approccio unidirezionale, univoco. In sostanza: non c’è, a mio avviso, il metodo. Ci sono metodi, approcci, scelte, pedagogie che necessariamente, nella complessità del mondo di oggi, devono incontrarsi. Da un po’ di tempo amo definire la mia didattica eclettica, un po’ come quei palazzi liberty di inizio Novecento che, per stare nel moderno e nella realtà, mettono armoniosamente insieme più elementi, sia recuperando dal passato sia sperimentando con i nuovi materiali. L’architettura liberty, in questi termini, ha molto da insegnare. Tuttavia, è d’obbligo una precisazione: essere eclettici non significa fare di tutto un po’. Significa progettare percorsi, spazi ed esperienze di apprendimento tenendo in considerazione più punti di vista, più correnti di pensiero, più approcci a uno stesso problema. Con problema intendo qualcosa di molto etimologico. Dal greco proballein: «ciò che ci è messo davanti», cioè ragazzi e ragazze in formazione».
La valutazione educativa chiede di cambiare dentro, chiede di rivoluzionare alcuni assunti del sé professionale. Di quale cambiamento stiamo parlando?
«Una sorta di rivoluzione copernicana, fatta sul serio e non solo lasciata ai discorsi e alla normativa. Una rivoluzione che non solo in intenti ma anche in prassi e strumenti porti al centro dell’agire didattico studenti e studentesse. Questo chiede tanto. Chiede di ripensarsi nel proprio ruolo di insegnanti, di professionisti delle proprie discipline e della didattica. Il mio giorno della Bastiglia è avvenuto leggendo il libro di Cristiano Corsini La valutazione che educa. Con schiettezza e sincerità, Corsini parla a tu per tu con la coscienza di ciascun insegnante. Le opzioni sono due: se insegni per trasformare, allora la valutazione educativa (cioè con giudizi descrittivi) fa al caso tuo; se insegni per asservire, allora il voto numerico fa al caso tuo. Dice proprio «se insegni per». La questione è tutta in quel per, nella questione dei fini della valutazione, nella domanda «perché valuto?». Io sono abbastanza certo (o forse terribilmente ottimista) che tanti colleghi e tante colleghe diranno che valutano per far migliorare gli apprendimenti, che valutano per far capire a ragazzi e ragazze in che cosa sbagliano e come possono fare meglio. Ecco, la rivoluzione parte da lì, dalla presa di coscienza dei valori e degli scopi della valutazione. Quando mi sono risposto a quella domanda, ho conseguentemente compreso che lasciare al voto numerico il compito di comunicare “come migliorare” significa perdere in partenza. Il voto non è chiaro, non è univoco, non comunica tutto ciò che vorrei che una valutazione comunicasse. Allora, mi sono detto: voto più giudizio descrittivo sia. Pian piano, sempre con maggior consapevolezza, mi sono reso conto che quel voto è di per sé inutile. Anzi, a volte distrae dalla valutazione come esperienza di apprendimento: nonostante i giudizi descrittivi – come testimonia qualcuno dei miei ragazzi e delle mie ragazze – ci si concentra comunque sul voto. La rivoluzione parte dalle domande, sempre. E si attua nella ricerca di risposte, per quanto sempre parziali e alimentatrici di altre domande».
Lei si è dato, per questo 2024, un importante obiettivo professionale. Cioè, lei scrive, “rendere sempre di più la valutazione educativa un abito mentale”. Come operare e con quali risultati?
«Prima di tutto, mi sembra importante fare una precisazione sull’espressione abito mentale. È un’acquisizione diversa, più complessa, più interiore di una competenza. Significa che la mia mente si struttura per pensare alla valutazione come continua e ricorsiva occasione di apprendimento ed educazione. La fase operativa è superata, l’operatività è tanto implicita da rendersi quasi invisibile. Come operare? Continuando a studiare, che significa – in campo pedagogico – leggere opere significative e interrogarsi alla luce delle prassi scolastiche; quindi, provare a operare cambiamenti, anche piccoli e graduali, per assottigliare la distanza tra il reale e i fini. Alla fine di questo quadrimestre – ho iniziato proprio in questi giorni – deciderò insieme ai miei studenti e alle mie studentesse come sarà esercitato il loro diritto alla valutazione nelle mie discipline. Per ora convivono il giudizio descrittivo e il voto numerico. Fino ad ora ho lavorato così: giudizio descrittivo, con annotazione degli errori. Commento personale. Alla fine, nel momento di consegna delle prove, comunicazione del voto numerico. Vorrei andare verso l’eliminazione di quest’ultima fase. Tuttavia, penso sia necessario un loro coinvolgimento in questa scelta. Quali risultati? La ricerca ne evidenzia molti sia dal punto di vista degli apprendimenti sia dal punto di vista emotivo. Potremmo spingerci oltre. La valutazione educativa ha un impatto olistico: interroga e agisce su tutte le dimensioni della persona umana, in forma più o meno esplicita. Rispetto ai risultati spero quindi di allinearmi; in particolare, di notare miglioramenti significativi sulla presa di consapevolezza di sé, del proprio modo di apprendere, delle competenze sperimentate e mobilitate e, di conseguenza, sull’apprendimento in sé».
Fare orientamento, a scuola, attraverso la didattica è, lei afferma, altamente possibile. Ma è anche, parimenti, augurabile. Ed è questo, evidentemente, il senso profondo della nuova normativa. Cosa significa?
«Fare orientamento è altamente possibile e, sì, parimenti augurabile. Proprio in quest’ottica va la normativa che – meno male – non chiede di fare ore in più. Chiede a noi insegnanti di rendere orientativa la nostra didattica. Cioè, far sì che le esperienze di apprendimento in cui sono immersi ragazzi e ragazze possano concorrere all’educazione alla scelta. La normativa vuole scardinare l’idea di un orientamento legato a una scelta, vuoi quella post medie o post diploma. Vuole far sì che l’orientamento sia inteso come orientamento formativo, ovvero come sperimentazione e mobilitazione di quella competenza che prende il nome di orientare a orientarsi. Fare orientamento formativo significa riflettere e offrire strumenti di indagine su diversi aspetti: la consapevolezza di sé e delle proprie relazioni, l’accoglimento delle grandi domande di senso, i processi che metto in atto quando prendo una scelta, il contesto storico-sociale-culturale-economico in cui siamo immersi, l’esplorazione dei mondi professionali. Tutto ciò è orientamento e – sono sempre ottimista – tanti, tantissimi di noi lo fanno in modo inconscio e implicito. La normativa chiede, essenzialmente, di documentare, di sistematizzare, di capire noi docenti e far comprendere a studenti e studentesse che tante esperienze vissute a scuola (e non solo) sono orientative, cioè possono aiutare a imparare a scegliere».