Le cose che un insegnante esperto non fa: perdersi in monologhi e favorire la logica al ribasso (tipo: fai del tuo meglio)
C’è differenza tra un “insegnante esperto” e un “insegnante con esperienza” ? Che cosa rende un insegnante “didatticamente esperto”? Quali sono le componenti dell’expertise che differenziano un docente da un altro?
C’è differenza tra un “insegnante esperto” e un “insegnante con esperienza” ? Che cosa rende un insegnante “didatticamente esperto”? Quali sono le componenti dell’expertise che differenziano un docente da un altro?
Una risposta convincente a questa domanda ci viene offerta da Antonio Calvani, docente di didattica e pedagogia speciale nell’Università di Firenze, nel libro “Come fare una lezione efficace” edito da Carocci.
Alla pagina 40 di questo piccolo volume viene tracciato un vero e proprio identikit del docente esperto, i cui punti salienti ci paiono essere:
- la fiducia nella propria capacità di influenzare positivamente gli allievi nel raggiungimento degli obiettivi didattici;
- la capacità di partire dalle preconoscenze degli allievi;
- l’abitudine a non fare monologhi;
- il tono dialogico;
- il saper prevedere momenti di valutazione tra pari e di autovalutazione;
- la tendenza a sfruttare gli errori come occasione di crescita;
- il non dare eccessivo valore ai voti e non servirsene come punizioni;
- il non favorire aspettative basse (del tipo ‘fai del tuo meglio’).
Al di là di questi schematici punti nel libro si parla naturalmente dell’interazione tra diversi fattori, tra cui i più rilevanti sono senz’altro la competenza disciplinare, l’attenzione a tutti gli aspetti delle personalità da formare, l’empatia e l’immedesimazione in chi apprende, al di là di generici e pericolosi sentimentalismi.
Partendo dal primo, la competenza disciplinare va intesa non come quantità di nozioni che si possiedono su un determinato argomento, bensì come capacità di saper individuare “le conoscenze e le strutture essenziali (big ideas) della struttura dei saperi che deve trattare”, in modo da saperci giocare, cioè decostruire e ricostruire in livelli di complessità diversi. Allo stesso modo l’insegnante esperto dovrà essere in grado di mettere in relazione i contenuti da insegnare con le preconoscenze degli allievi, immaginando che ciò avvenga “in processi cognitivi più superficiali (nozionali) o più approfonditi (messa in relazione, estrapolazioni, ipotesi alternative, riusi variati ecc.)”.
Non bisogna perdere mai di vista, poi, il fatto che la scuola ha tra i suoi obiettivi quello di formare la personalità dei ragazzi, ed è auspicabile che gli educatori sappiano sviluppare negli studenti la (citazione da Hattie, 2012, p. 4) “capacità di nutrire una genuina preoccupazione per sé e per gli altri, di vedere il mondo dal loro punto di vista, di capire debolezze e ingiustizie umane, di lavorare verso lo sviluppo della cooperazione”.
L’Autore torna spesso sull’importanza di “stabilire un rapporto empatico di immedesimazione, di fiducia e ascolto attivo verso gli altri, di rispetto e di accettazione delle diversità, una naturale inclinazione al gioco, alla collaborazione e all’incoraggiamento”, ma nel contempo mette in guardia da interpretazioni ‘sentimentaliste’ auspicando a una sintesi che “si genera quando, in una comune appassionata intesa, alunno e insegnante si riconoscono impegnati nei confronti di un compito cognitivamente sfidante”.
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