Come “misurare” il merito dei docenti? Cosa possiamo considerare come “meritevole” e da “premiare”? Se ne discute da 20 anni. L’idea di Tullio De Mauro

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Il sempreverde tema del “merito” a scuola riveste un ruolo centrale (oggi esplicitato anche nella denominazione del dicastero) e lo ha sempre rivestito nella storia repubblicana, a partire dall’art. 34 della nostra Costituzione.

Nel Settembre del 2000, l’allora Ministro della Pubblica Istruzione, Tullio De Mauro, era stato intervistato dalla giornalista Marina Cavallieri e l’articolo era comparso nelle colonne di Repubblica. Un’intervista di ampio respiro, sulle riforme della scuola, sul rinnovo dei contratti dei docenti e sul merito nell’insegnamento: un contesto familiare per chi la rilegge oggi.

È un merito – affermava l’ex Ministro De Mauro – lavorare in una scuola di frontiera, insegnare in situazioni difficili, stare in cattedra a Ponticelli o allo Zen. Come è un titolo aggiuntivo affrontare trasferimenti di sede, ma anche scrivere un saggio”. E ancora continuava: “Quando il Sistema nazionale di valutazione (nato poi nel 2013, ndr) lavorerà a regime sapremo finalmente quello che abbiamo sempre voluto sapere: quali sono i livelli di apprendimento effettivi degli alunni, sapremo, detto schematicamente, la distanza che un professore riuscirà a far percorrere ad uno studente“. E infine: Mi piacerebbe riuscire ad ottenere un riconoscimento per quello che i professori hanno fatto e per quello che dovranno fare ancora di più. Non dimentichiamo che fino a 40 anni fa (anni ’60, ndr) due italiani su tre erano privi di licenza elementare. La televisione ha fatto parecchio per insegnare l’uso dell’italiano agli italiani ma è stata la scuola a dare un volto diverso al nostro Paese. A trasformare i figli di non scolarizzati in giovani di un moderno Stato europeo. E questo lavoro oscuro e pacifico è più importante che amministrare la giustizia, reprimere il crimine, scrivere un articolo di cronaca“.

In questi 20 anni, le vicende che hanno riguardato il mondo della scuola sono state molteplici: sono cambiati 13 Ministri e sono state approvate 9 riforme. E, tuttavia, l’attenzione continua a concentrarsi su due temi fondamentali: merito e stipendio. Sul primo, dalle analisi più acute ai tentativi più superficiali di riempirlo di significato, sono state utilizzati fiumi di inchiostro, compreso l’attuale dibattito sulla ridenominazione del ministero “dell’Istruzione e del Merito”. Frutto di una definita elaborazione politico-culturale, il concetto di merito assume così un valore preciso.

Promuovere il merito ha affermato il sociologo Luca Ricolfi, rispondendo alle nostre domande significa creare un ambiente in cui i buoni risultati degli allievi siano apprezzati, e ciascuno sia messo in condizione – se lo desidera e si impegna – di progredire e ricevere riconoscimenti espliciti per i propri progressi. […] Il merito è fatto di due cose – l’impegno e il talento – che non dipendono dall’origine sociale. In questo senso promuovere il merito significa rendere meno impari la competizione fra i ragazzi dei ceti alti, che hanno mille armi per emergere, e i ragazzi dei ceti bassi, per i quali avere beneficiato di una scuola di qualità è l’unica vera arma possibile”. E ancora Ricolfi, sul merito per i docenti: Il merito dei docenti è difficile da valutare, e comunque qualsiasi sistema venisse proposto susciterebbe la ribellione degli insegnanti, come già accadde nel 2000, quando il “concorsone” costò il posto al ministro Luigi Berlinguer. Quindi, purtroppo, è una discussione puramente accademica“. 

Sul secondo, lo stipendio, l’attenzione è sempre alta, ancor di più negli ultimi giorni, alla luce delle trattive sul rinnovo dei contratti di lavoro nazionali dei docenti e del personale ATA. Ai professori  – affermava l’ex Ministro, De Mauro – si chiede tutto ma non si vuole dare niente“. È un fatto, ad esempio, che ancora oggi i report europei collochino l’Italia in posizioni basse relativamente al riconoscimento economico del lavoro di un insegnante rispetto alla media europea. “Gli insegnanti italiani – argomentava De Mauro – non solo hanno salari più bassi rispetto ai loro colleghi europei ma non hanno neanche una carriera come tutti i funzionari della pubblica amministrazione, come succede ai poliziotti, ai prefetti, a chi lavora nei settori sanitari”. Un dibattito sempre vivo che si alimenta di posizioni e visioni contrastanti: dal secco “no” di De Mauro all’ipotesi di far decidere ai Dirigenti scolastici gli eventuali aumenti di stipendio, alla “aziendalizzazione della scuola“, fino alle considerazioni di Ricolfi sul rapporto tra retribuzione e ruolo sociale dell’insegnante: La retribuzione insufficiente è il fattore meno importante della perdita di prestigio degli insegnanti. Molto più incisivi sono altri fattori: la rinuncia ad esercitare l’autorità, che ha portato insegnanti e genitori a comportarsi come amici o fratelli maggiori; l’abbassamento del livello medio di padronanza della propria materia; l’estinzione di fatto del voto in condotta; la trasformazione dei genitori in sindacalisti dei figli; la quasi-certezza della promozione. Trovo giustissimo aumentare gli stipendi degli insegnanti, ma considero davvero ingenua la credenza che questo possa restituire loro qualche autorevolezza“.

Un dibattito lungo venti anni (e di più) che, forse, non troverà soluzioni univoche, ma che continua ad arricchirsi delle analisi, politiche e culturali, dei protagonisti del mondo della scuola: immobile e in divenire, come il tempo.

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