Come funzionano gli organi collegiali? Funzioni in declino

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inviato da Alessandro Artini – Come funzionano gli organi collegiali? Non mi risulta che siano state realizzate delle indagini recenti in merito, ma l’impressione di un generale declino è molto forte. Forse in alcune scuole, per esempio in quelle primarie e nei licei, c’è una certa partecipazione dei genitori, ma in quasi tutte le altre è piuttosto scarsa. Essa funziona quando gli alunni sono piccoli e si fonda, probabilmente, sulla forte componente affettiva che muove i genitori in uno stadio dell’età dei figli che necessita di particolari cure e attenzioni. Forse, durante l’infanzia, si attiva una dimensione affettiva di responsabilità, che spinge i genitori alla partecipazione, con l’intento di assicurare ai bambini un avvio scolastico rassicurante e in grado di porre premesse positive al futuro percorso di studio. Inoltre, l’insegnamento delle maestre può essere valutato ed eventualmente criticato, proprio perché affronta le basi dell’apprendimento, che i genitori generalmente alfabetizzati conoscono.

La partecipazione è abbastanza viva anche nei licei, dove si registra, presso la componente genitoriale, generalmente dotata di un maggiore capitale culturale e sociale, la consapevolezza dell’importanza della formazione per il futuro lavorativo e professionale dei figli. Ma in quasi tutti gli altri casi non si trovano molti genitori disposti a partecipare alle riunioni scolastiche dei consigli di classe o di istituto.

Cosa accade all’interno degli organi collegiali?

Il collegio dei docenti, che dovrebbe occuparsi delle sole scelte didattiche, in realtà è diventato generalmente predominante in quasi tutti gli ambiti, rispetto al consiglio di istituto, perché, all’interno della scuola, anche le minime attività, come per esempio le regole per andare al bagno, hanno una valenza educativa. Ciò accade nonostante le norme in certi casi paiano attribuire un primato al consiglio di istituto. È questo il caso del piano triennale dell’offerta educativa (PTOF), che, in base alla previsione normativa, viene elaborato dal collegio e deve poi essere approvato dal consiglio di istituto. Parrebbe, dunque, che quest’ultimo abbia un ruolo prioritario, in quanto l’approvazione finale compete ad esso, mentre il collegio ha un puro compito elaborativo. La ragione di ciò risiede nel fatto che il primo è composto da una pluralità di soggetti (oltre che dai docenti, anche dai genitori, dal personale ATA e, nelle scuole superiori, dagli alunni), ma nella mia lunga esperienza non è mai accaduto che un consiglio di istituto non ratificasse le proposte di PTOF dei docenti. Il contrasto tra i due organi non è previsto, considerate quelle che, sulla carta, sono le diverse competenze, ma laddove si creasse, perché il Consiglio ha comunque titolo di discutere l’elaborazione presentata dal collegio, difficilmente quest’ultimo abbandonerebbe la sua prevalenza de facto.

Da notare, inoltre, che anche i collegi dei docenti sono generalmente decaduti. In particolare è avvenuta una trasformazione dopo la pandemia, quando si è scelto di continuare a svolgere le riunioni online. Già durante la pandemia si intravedeva, nelle sedute, come la dimensione online sia dispersiva e come modifichi perfino la tradizionale relazionalità che si attivava nei collegi. Infatti, la rapidità con la quale, tramite un click, si può prendere la parola andava e va a detrimento della possibilità di ponderare gli interventi. Questi ultimi, nella scena della presenza fisica effettiva, richiedevano una diversa tempistica, dovuta alla movimentazione procedurale per la richiesta di intervento e l’attuazione dello stesso. Una situazione prossemica ben diversa da quella del click sull’accensione del microfono. Per questo nella dimensione online il dirigente, che presiede il collegio, deve porre molta attenzione circa le modalità di intervento. Ma, nonostante queste precauzioni, le sedute online hanno una natura diversa e così come la Dad modifica la didattica tradizionale, analogamente quelle sedute online implicano un cambiamento rispetto a quelle tradizionali. È plausibile supporre, come effetto, che si registri un calo nel coinvolgimento e nell’attenzione personali. Poi c’è anche il malcostume. Infatti si verifica non raramente che alcuni docenti, a video spento (“perché la banda non regge”), facciano altre attività (professionali, casalinghe, ecc.), nel corso delle sedute. Così, mentre è scomparsa la DAD, che senz’altro rappresentava una metodologia didattica meno efficace di quella “in presenza”, ma che ha consentito negli anni della pandemia il mantenimento di una relazione educativa, sopravvivono le riunioni online degli organi collegiali. Forse è opportuno far presente che se la Dad era meno efficace della didattica in presenza, essa era anche “scomoda” per i docenti, perché li sollecitava a impegnarsi in attività di programmazione diverse da quelle tradizionali. Talvolta stimolava alcuni di loro, affatto inesperti di faccende informatiche, a mettersi alla prova e impadronirsi anche di quelle competenze. Infine, occorre osservare che difficilmente le lezioni erano circoscrivibili alla tradizionale alla classe. Nonostante il vincolo espressamente posto (anche normativo), chi poteva essere certo che le lezioni fossero fruite dal solo pubblico degli alunni? Tutto ciò poteva creare molti imbarazzi, non solo per la presenza di occhi indiscreti, ma anche perché non tutte le lezioni erano preparate (e non lo sono tutt’oggi) con la stessa cura.

Così la Dad è stata rimossa con una sorta di scotomizzazione, senza curarsi se ciò avrebbe indirettamente colpito anche l’uso generale degli strumenti informatici (come in parte è avvenuto), mentre la dimensione online permane per le riunioni dei docenti. Anche per questo, a mezzo secolo dall’emanazione dei decreti delegati del 1974, occorre verificare il funzionamento del collegio dei docenti, unitamente a quello degli altri organi collegiali.

È opportuno ricordare che il varo di quei decreti fu accompagnato da vivaci polemiche, che aldilà delle asprezze retoriche, riflettevano l’elevatezza della posta in gioco. Le critiche sono testimoniate da un’ampia letteratura di quegli anni e, ad esempio, emergono nel dibattito del convegno fiorentino del 18-20 ottobre 1974, i cui atti furono successivamente pubblicati1.

Il sociologo De Rita, ad esempio, paventava l’impossibilità, per il sistema scolastico italiano, di realizzare le possibilità innovative dei decreti perché la scuola “sarà incapace, come oggi è, di prevedere, utilizzare e valorizzare le risorse ad esso assegnate (…)”. Ne ricavava che “l’esperienza di partecipazione e di gestione sociale rischia grosso se non si rende conto di tale ingovernabilità” (De Rita, p. 59). Avvertiva, infine, con uno sguardo premonitore, che negli organi collegiali “si incroceranno discorsi di interesse corporativo; forse di tutto si parlerà meno che dell’esigenza e delle possibilità di dare più governo, a tutti i livelli, alle strutture scolastiche” (De Rita, p. 71).

La pedagogista Lidia Menapace, dal canto suo, riteneva che fosse fuori luogo prevedere la partecipazione degli studenti alla vita degli organi collegiali, poiché il movimento degli studenti avrebbe dovuto scegliere, in vista dei suoi obiettivi, un “punto di riferimento (…) esterno all’istituzione stessa” e cioè di natura sociale e politica, non scolastica (Menapace, p. 304).

Ma il punto di vista predominante fu senz’altro quello di chi vedeva nelle novità di imminente introduzione una positiva rivoluzione, fautrice di un potenziamento democratico e addirittura di una promettente gestione sociale della scuola, che superasse, sostanziandola, quella democratica. Indubbiamente – osservava Silvano Filippelli, un politico di quegli anni – sarebbe stato meglio che “gli enti locali fossero stati maggiormente rappresentati negli organi collegiali” (Filippelli, p. 21), ma la nuova configurazione delle strutture scolastiche (ivi compreso quelle distrettuali, che poi sono state abolite di fatto dalla Legge Finanziaria del 2003) appariva promettente, soprattutto grazie all’intreccio che si sarebbe costituito con il movimento dei lavoratori. Aldo Visalberghi insisteva sul fatto che, con i decreti, un sistema reticolare avrebbe positivamente teso “a rimpiazzare il tradizionale sistema piramidale della nostra organizzazione scolastica” (Visalberghi, p. 45). Giorgio Napolitano osservava che “si può operare (…) all’interno dei nuovi organi di Governo della scuola e attraverso la dialettica che essi debbono instaurare con tutte le forze di progresso che operano nella società, per cominciare a modificare contenuti e metodi dell’insegnamento” (Napolitano, p. 338). Rinaldo Rizzi2, fondatore del Movimento della pedagogia popolare, scriveva che “la normativa fissata da tali decreti segna il trapasso da una gestione tecnica a una gestione democratica” (Rizzi, p. 34). Aggiungeva che, seppur ancora non si possa parlare di gestione sociale, un fatto appare certo e cioè che “gli organi collegiali e i momenti di democrazia assembleare non si escludono a vicenda; essi, anzi, reciprocamente si completano” (Rizzi, p. 108). Angelo Broccoli, professore di Storia della pedagogia, ne “I decreti delegati”3, scriveva che proprio quei decreti “rappresentano l’unico segno di attenzione per i problemi della scuola che da molti anni a questa parte il potere pubblico ha dimostrato di fronte all’incalzare degli avvenimenti e al progressivo deterioramento della funzione educativa” (Broccoli, p. 33).

Potremmo andare avanti con ulteriori testimonianze di quel clima di attese positive che si creò al momento del varo dei decreti, ma la domanda rispetto alla quale oggi dobbiamo cimentarci è se quello spirito e quelle attese siano tuttora attuali?

Ai fini di una sommaria ricostruzione storica di quel periodo, è opportuno notare – come sostiene Giuseppe Magaudda – che fin dagli anni ’60 le confederazioni sindacali “cominciano a prendere visione dei problemi della scuola, di quelli formativi e tecnico-professionali”4. In altri termini, esse acquistano consapevolezza che la scuola rappresenta un terreno di rivendicazioni molto importante, che quindi non poteva essere lasciato nelle mani del sindacalismo autonomo di natura corporativa. Negli anni ’70, “la riforma della scuola assume un ruolo centrale nell’ambito della politica delle riforme”; fino a che si perviene all’importante risultato che “si è avuto con la riforma della scuola attuata con la L. 477 e i decreti delegati”, i quali pertanto rappresentano un approdo auspicato dai sindacati stessi (Magaudda, p. 157). Questi ultimi, così, acquisiscono un ruolo da protagonisti, quello di soggetto attuatore della riforma stessa, che essi avevano caldeggiato con rinnovata forza e prestigio. La rivendicazione successiva avrebbe dovuto essere quella di porre “l’accento sulla gestione sociale della scuola propugnando il superamento del carattere meramente partecipativo dell’ingresso dei genitori nei consigli di istituto e di circolo, attribuendo agli ‘utenti’ (comunità sociale e forze sociali che la compongono) poteri di controllo e decisionali più estesi di quelli previsti dai decreti delegati” (Magaudda, p. 158).

Sempre in quegli anni, ma in uno scenario diverso, si discuteva del rapporto che la scuola deve costruire con la realtà esterna. Secondo De Rita, si ebbero sostanzialmente due posizioni, quella di chi propendeva per lo sviluppo di un’ottica di programmazione, attenta ai rapporti con il mondo economico e quella di chi si opponeva a un possibile raccordo tra scuola e imprese, propugnando il valore di un sapere puramente formativo, scevro di finalità pratiche e lavorative5. Ma il destino, come suol dirsi, era segnato e la prima opzione fu sconfitta: “Fu uno scontro politicamente impari. Il primo paradigma (programmare l’intervento formativo in relazione alla domanda del sistema economico) fu duramente osteggiato sia dalla destra che dalla sinistra della politica scolastica: la destra, capeggiata dal collateralismo cattolico, si arroccò sulla difesa a oltranza della ‘formazione umanistica dell’uomo per l’uomo’ (si possono citare personalità di rilievo come Maria Badaloni e Gesualdo Nosengo); mentre la sinistra, ispirata anch’essa alla difesa dell’autonomia formativa, si scatenò contro una capitalistica ‘formazione di semilavorati per l’industria’ (si pensi alla quasi violenta posizione di Rossana Rossanda e del Pci)” (De Rita, p. 10).

Con l’affermazione della seconda opzione, la scuola acquisì un abbrivio quantitativo, un momentum di forza autopropulsiva mirante a una partecipazione sempre più estesa di alunni, diventando così “di massa”. Per conseguenza, si è avuto il coinvolgimento lavorativo di uno stuolo sempre più numeroso di docenti. È prevalsa quindi, favorita dall’azione sindacale, una logica sistemica sempre più indirizzata all’ingaggio di forza lavoro, configurando così una scuola autoreferenziale e del tutto estranea ai cicli economici e alle logiche del sociale. È abbastanza naturale collegare questo tipo di gestione della scuola con la governance interna alle singole istituzioni, fondata sugli organi collegiali istituiti dai decreti delegati. Il gigantesco sistema scolastico non poteva non trovare un corrispettivo funzionale di natura gestionale interna alle singole istituzioni scolastiche e cioè quello degli organi collegiali. In qualche misura questi ultimi assumono anch’essi un volto autoreferenziale e il continuo riferimento al personale interno, in una logica di tutela sindacale, forniva il fondamento alla dinamica quantitativa di ampliamento del sistema scolastico. L’azione sindacale, del resto, trovava una forte cassa di risonanza negli organi collegiali, che hanno sostenuto la funzione espansiva dell’intero sistema. Anche per questo siamo arrivati a numeri molto elevati, con circa otto milioni di alunni e ottocentomila docenti.

Niklas Luhman e Karl Eberhard Schorr hanno descritto un tale sistema, tipico di quasi tutte le democrazie occidentali, come complesso e parzialmente autonomo all’interno del più generale sistema sociale6. Quello scolastico, poi, viene descritto come oppresso dai malfunzionamenti per l’eccessiva “complessificazione”, che è una sorta di elefantiasi entropica. Lecito interrogarsi sul senso educativo di questa enorme macchina, sulla quale i primi a porsi domande sono gli alunni, che spesso non intravedono sbocchi lavorativi certi e neppure un futuro di realizzazione personale. Per non parlare di quelle disfunzioni che derivano dagli abbandoni per insuccesso o dalla dispersione occulta o implicita, cioè quella di chi, pur avendo terminato gli studi, non possiede le competenze adeguate. Alunni che hanno perso (ma non solo loro) il valore simbolico della scuola e per questo si muovono in termini aggressivi verso i docenti, come raccontano le cronache. In sostanza, alcune domande gravano in maniera inquietante sul funzionamento del sistema scolastico. De Rita osserva “tanti sono ormai quelli che si pongono l’elementare domanda: ma a che fine continuiamo a sviluppare la macchina scolastica? È una domanda che si pongono, al più basso livello, i ragazzi che abbandonano gli studi per tentare una immediata esperienza di lavoro individuale (nei servizi come nella produzione industriale e artigianale); ma è una domanda che si pongono anche, ad alto livello, le famiglie che tendono a investire in esperienze formative più performanti di una pura carriera scolastica (le università private, le università straniere, il tirocinio in grandi strutture di consulenza e formazione, l’attenzione alla formazione a distanza, l’ambizione a stare dentro l’innovazione tecnologica e digitale).

E non si tratta, in basso e in alto, di pure opzioni personali e familiari: sono ormai nuovi e concreti schemi di comportamento collettivo” (De Rita, p. 8).

Con la messa in discussione della logica sistemica, che nei suoi processi autopropulsivi ha rivelato una natura disfunzionale, perché incapace di programmare il suo sviluppo in coerenza con i reali bisogni del Paese, occorre dunque rivedere anche il funzionamento degli organi collegiali, che, con la loro auto-centratura, hanno rivelato il loro rapporto con la logica di espansione sistemica. Oggi sono venuti meno gli ideali politico-sindacali che improntavano l’istituzione stessa di quei decreti, che appare attualmente datata e necessariamente circoscritta a quegli anni, ma – e ciò è fondamentale – non viene meno la necessità di costituire nuove forme di interlocuzione con soggetti esterni portatori d’interesse. Senza la partecipazione degli utenti e degli stakeholders del mondo sociale ed economico la scuola continuerebbe a vivere forme di chiusura autoreferenziale. L’interruzione del ciclo espansivo, che è del tutto inattuale in considerazione del cosiddetto inverno demografico e dell’imminente (tra pochi anni) calo drastico della popolazione scolastica, non può promanare da una logica interna, che anzi è improntata sempre allo stesso dinamismo quantitativo, ma solo dal rapporto con l’esterno e dal riconoscimento della connessione indissolubile tra quest’ultimo e la scuola. L’ipotesi di un’alleanza educativa tra adulti, in primo luogo tra docenti e genitori, rappresenta l’unica strategia perseguibile per il recupero della missione educativa del sistema, altrimenti adibito a funzioni di welfare di natura occupazionale. In particolare, occorre rivedere la posizione dei genitori nella governance scolastica, attribuendo loro ruoli che abbiano una reale incidenza in alcuni ambiti amministrativi e gestionali, fatto salvo quelli didattici. Ciò nonostante, abbiamo la sensazione che non vi sia, sul piano politico, piena consapevolezza della drammaticità della situazione educativa dei giovani e che si proceda con degli interventi modesti, incorniciati come ampie riforme strategiche.

Il 16 – 17 febbraio 2024, a Firenze, nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio, avrà luogo un convegno finalizzato a dibattere dei decreti delegati, nel cinquantesimo anno dal varo degli stessi nel 1974. Esso si suddividerà in tre sessioni: la prima tratterà del disagio giovanile, perché occorre porre al centro del discorso gli alunni, per i quali si attua il servizio scolastico; la seconda si incentrerà sulla questione dell’organizzazione scolastica e dei decreti delegati in particolare; la terza, infine, affronterà il tema delle proposte dei partiti in merito alla scuola. Sarà un percorso di discussione ampio e ricco di spunti. Ci auguriamo che il convegno possa essere di stimolo alla politica per elaborare le necessarie proposte di riforma.

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BIBLIOGRAFIA

AA. VV., La gestione democratica della scuola. Atti del Convegno «Partecipazione e democrazia per una scuola rinnovata dopo i decreti delegati», promosso dalla Giunta Regionale Toscana e dalle riviste educative de La nuova Italia (Firenze, 18-20 ottobre 1974), La Nuova Italia, Firenze, 1975.

AA. VV., I decreti delegati sulla scuola, Giuffré Editore, Milano, 1978.

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DE RITA, Giuseppe, Programmazione scolastica e programmazione economica, in AA. VV., La gestione democratica della scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

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FILIPPELLI Silvano, Relazione introduttiva, in AA. VV., La gestione democratica della scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

LUHMANN Niklas e SCHORR Karl – Eberhard, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando, Roma, 1988.

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NAPOLITANO Giorgio, Intervento nella tavola rotonda, in AA. VV., La gestione democratica della scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

RANUCCI Cesare, La scuola nei Decreti Delegati, Armando, Roma, 1980.

RIZZI Rinaldo, La scuola dopo i decreti delegati. La gestione sociale della scuola, Editori Riuniti, Roma, 1975.

VISALBERGHI Aldo, Relazione generale, in AA. VV., La gestione democratica della scuola, La Nuova Italia, Firenze, 1975.

1 AA. VV., La gestione democratica della scuola. Atti del Convegno «Partecipazione e democrazia per una scuola rinnovata dopo i decreti delegati», promosso dalla Giunta Regionale Toscana e dalle riviste educative de La nuova Italia (Firenze, 18-20 ottobre 1974), La Nuova Italia, Firenze, 1975.

2 Rinaldo Rizzi, La scuola dopo i decreti delegati. La gestione sociale della scuola, Editori Riuniti, Roma, 1975.

3 Angelo Broccoli, Redazione di Parva Lex (a cura della), I decreti delegati, Centro Editoriale Internazionale, 1975, Roma.

4 Giuseppe Magaudda in AA. VV., I decreti delegati sulla scuola, Giuffré Editore, Milano, 1978, p. 155.

5 Giuseppe De Rita, Una disperata confusione: la scuola italiana al 2021, Intervento in ricordo di Gino Martinoli, Censis, Roma, 19 marzo 2021.

6 Cfr. Niklas Luhmann e Karl – Eberhard Schorr, Il sistema educativo. Problemi di riflessività, Armando, Roma, 1988.

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