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Per combattere la disoccupazione ci vuole una vera formazione professionale

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Purtroppo la disoccupazione giovanile, dopo alcuni mesi di timida ripresa forse legata alle pur importanti misure governative sul lavoro, ha ripreso a crescere. E temo che ciò sia destinato a confermarsi nel tempo se non porremo i ripari alla necessità di ricostruire il legame tra il mondo del lavoro e i giovani che in Italia si è rotto da qualche decennio.

Purtroppo la disoccupazione giovanile, dopo alcuni mesi di timida ripresa forse legata alle pur importanti misure governative sul lavoro, ha ripreso a crescere. E temo che ciò sia destinato a confermarsi nel tempo se non porremo i ripari alla necessità di ricostruire il legame tra il mondo del lavoro e i giovani che in Italia si è rotto da qualche decennio.

Da quando, cioè, con responsabilità trasversali di tutti gli orientamenti politico-culturali del Paese, si è demonizzato il lavoro, in particolare quello manuale, in quanto si è pensato che le magnifiche sorti e progressive sarebbero state assicurate da una cultura liceale, e  possibilmente universitaria, aperta a tutti.

Gli ideologi, a parole, del progresso, forse si illudevano che  attraverso questa struttura della scuola sarebbe avvenuto finalmente il riscatto delle masse proletarie alle quali, da sempre, era stata preclusa la formazione liceale quella che, un tempo, assicurava l’appartenenza alla classe dirigente. Insomma, la scuola, come è tipico dei regimi e non delle democrazie, doveva servire a creare dei cittadini modellati su una visione univoca della cultura e della formazione eliminando quello che è il vero scopo della scuola in una democrazia: intercettare le vocazioni dei ragazzi e aiutarle a realizzarsi  anche se orientate verso il lavoro manuale, perché la loro felicità e la loro affermazione nella vita passa dal fare bene e volentieri quello che scelgono di fare: ciascun lavoro ben fatto, qualunque esso sia, è sempre il frutto di un uomo ben fatto.

Invece questo tipo di formazione e questa attenzione nei confronti del mondo del lavoro è stata esorcizzata ed esecrata  in ogni modo. L’esperienza pratica è inesistente nella scuola elementare e nella media le ore di educazione tecnica si svolgono solitamente  nelle aule normali perché i laboratori sono stati anch’essi banditi dalle scuole pensando che sarebbero stati sostituiti da quella sorta di mantra pedagogico che nella vulgata formativa di questi anni è diventata, o dovrebbe diventare, la didattica laboratoriale.

Gli istituti professionali di Stato  sono talmente lontani dal dare ai ragazzi una vera formazione professionale da rappresentare oramai una vera e propria fucina per riempire certi indirizzi universitari inutili e  destinati in generale  a sfornare futuri disoccupati  e non a formare ragazzi preparati e motivati ad entrare nel mondo del lavoro, a testa alta e con responsabilità.

Anche nella vita quotidiana, magari in quella delle vacanze, ad un adolescente o ad un giovane che lo volesse fare  è pressoché reso impossibile, anche per la stupidità di molta burocrazia, poter svolgere uno qualsiasi di quei lavoretti che tantissimi della mia generazione
hanno avuto la fortuna di poter svolgere: dal barista estivo al vendemmiatore autunnale, dalla babysitter,  al magazziniere o al raccoglitore di angurie e  pomodori. Erano esperienze, sebbene svolte purtroppo in regime di sfruttamento, che tuttavia servivano ad orientarci, a valorizzare il lavoro manuale e gli adulti che lo svolgevano.

In compenso, da molti anni, nell’indifferenza di tutti e perfino delle stesse  forzesociali e sindacali, come ha ben messo in evidenza, l’altro giorno su Sette, Gianantonio Stella, molti di questi  lavori manuali sono svolti in condizioni di autentica schiavitù da parte degli immigrati.

La società del bengodi che sembrava  accompagnare la vita delle generazioni future si è  da tempo dileguata ed è compito anche della  scuola aiutare i ragazzi a fare i conti con la realtà e con il lavoro che forse cresce se vi è  anche la consapevolezza della sua importanza e di come sia  altrettanto importante affrontarlo con responsabilità e preparazione. Perché  questo accada,  le pur innovative  misure prese dal governo in merito all'alternanza scuola-lavoro non sono sufficienti. Occorre, insomma,  trasformareradicalmente i nostri istituti professionali ridando loro  una precisa identità, quella identità che un tempo li caratterizzava e che, non a caso, è stata recuperata dal modello trentino che funziona, eccome se funziona.

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