Supplenza con titolo falso. Dovrà restituire solo il 60% dello stipendio percepito
Il caso in commento, l’ennesimo trattato da parte della Corte dei Conti, ha per oggetto la valutazione dell’impianto accusatorio, secondo cui, ad avviso della Procura, contrariamente a quanto dedotto dal collaboratore scolastico, quest’ultimo, attraverso la presentazione, in allegato alla domanda di supplenza, di copia di un titolo di studio falso, per non essere mai stato conseguito dall’interessato, avrebbe ottenuto il conferimento di molteplici incarichi di supplenza presso istituti scolastici piemontesi, per i quali non possedeva i requisiti richiesti ex lege. Deve restituire lo stipendio percepito in relazione ad un rapporto di lavoro che non sarebbe mai dovuto sorgere?
La questione
La condotta del c.s. secondo parte pubblica, essendo fonte di retribuzione indebita, costituisce la causa immediata e diretta del danno patrimoniale, subìto dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, il quale ha erogato somme di denaro per remunerare prestazioni lavorative rese da soggetto privo dei richiesti titoli professionali. Tale tesi è, tuttavia, avversata dalla difesa, secondo la quale la falsa indicazione dei requisiti per l’inserimento nelle graduatorie d’istituto per il personale ATA, in qualità di collaboratore scolastico, non impediva al convenuto di esprimere una prestazione conforme a quanto richiesto, e quindi utile ai fini contrattuali. In buona sostanza, l’avere il convenuto, comunque, reso, di fatto, la prestazione lavorativa non integra alcun danno erariale. Vediamo come si è pronunciata la Corte dei Conti per il Piemonte con SENT. N. 113/24
Sulla produzione della copia del titolo di studio
La giurisprudenza contabile, in casi analoghi, ha escluso che in presenza della mera copia di un titolo di studio, la cui veridicità sia contestata dalla Procura, possa porsi una questione di falso (ex multis, Corte dei conti, Sezione giurisdizionale Lombardia, sent. n. 138/23; idem, Sezione giurisdizionale Lazio, sent. n. 486/23; idem, in fattispecie analoga, Sezione giurisdizionale Piemonte, sent. n. 109/2023). Anche la Corte di cassazione si è più volte pronunciata, nei termini suddetti. Non si impone, allora, la querela di falso per contestare il contenuto intrinseco o la copia fotostatica non attestata conforme di un atto pubblico e contestata, perché solo con la produzione dell’originale, e limitatamente al suo contenuto estrinseco nel senso sopra riportato, essa assumerà la natura di atto pubblico, che farà piena prova fino a querela di falso con conseguente applicabilità dell’art. 2700 c.c. Se l’originale non è prodotto né esibito dalla parte interessata, come nella fattispecie, la contestazione della conformità risulta sufficiente ad inficiare l’efficacia probatoria della produzione operata in copia (Cassazione civile, n. 10573/2020; Cassazione civile, n. 2482/2020). Di conseguenza, risultando comprovato che il collaboratore scolastico in questione non sarebbe mai stato in legittimo possesso di nessuno dei diplomi, richiesti ex art. 2 co. 5, lett. g) del D.M. n. 640/2017, continuano i giudici, la falsa indicazione del possesso di un titolo, abilitante allo svolgimento delle mansioni attribuite, esclude, la possibilità di accesso alle graduatorie, e, conseguentemente, le supplenze conferite, per cui è causa, non essendo mai stato conseguito un valido diploma qualificante, non possono valutarsi legittimamente assegnate.
Come va quantificato il danno?
Quanto alla quantificazione del danno, rileva la Sezione che l’importo, comunque, percepito a titolo retributivo dal convenuto, risulta comprovato dalla documentazione versata in atti dalla Procura (contratti di assunzione e cedolini stipendiali) e che lo stesso importo non è stato in alcun modo contestato. A fronte di tali circostanziate e documentate contestazioni, la difesa, non negando la veridicità dei fatti, posti a fondamento della domanda, si è limitata ad eccepire l’assenza di danno per la P.A., evidenziando, su quest’ultimo punto, che è stata, comunque, svolta l’attività corrispondente alle mansioni di fatto esercitate, rendendosi una prestazione utile alla P.A., che l’ha ricevuta. Il Collegio osserva che, nella materia del danno da indebita percezione di emolumenti pubblici, si ravvisano, in linea generale, fattispecie di assenza tout court di valido titolo di studio e fattispecie di titolo di studio, comunque, presente ma di livello inferiore a quello utilizzato per il conseguimento dell’incarico.
Se la prestazione è di bassa qualifica e attività marginali non si deve restituire tutto lo stipendio
La prestazione di mansioni marginali, quali quelle attribuite al convenuto (pulizia locali e spazi scolastici, vigilanza sugli alunni e sui locali, in collaborazione con i docenti), pur all’esito di reiterate false dichiarazioni riguardanti il possesso del diploma, induce ad assumere una posizione di minor rigore (v., Sez. Piemonte, sent. n. 112/2024).
Dall’esame dei documenti versati in atti, con riferimento all’odierno giudizio, emerge che, all’interno della categoria del personale amministrativo tecnico ausiliario – A.T.A. – l’inquadramento del convenuto è corrisposto alla qualifica di collaboratore scolastico, categoria che comprende mansioni meno qualificate rispetto a quelle afferenti quelle del personale A.T.A. di altre fasce. Nel contempo, pare potersi riconoscere che la prestazione lavorativa resa abbia avuto una qualche utilità per la P.A., stante la non particolare elevata qualificazione delle mansioni svolte.
In presenza di simili condizioni, la Sezione, “ragionando in termini di danno subito dall’Amministrazione, e quindi di utilità della prestazione ricevuta”, pur giudicando che il danno non fosse da escludere, “per l’evidente considerazione che la condotta […], anche in presenza di mansioni non elevate, ha privato l’Amministrazione di una prestazione lavorativa di migliore livello che avrebbe potuto essere resa” da altro soggetto, regolarmente selezionato all’esito di una valida ed esistente procedura concorsuale, ha ritenuto di riconoscere una parziale utilità nella prestazione resa di fatto. Accogliendo parzialmente il ricorso e condannando il lavoratore a risarcire un importo di pari al 60% della somma percepita.