Classi differenziali per alunni con disabilità? Ianes: “Antistorico. Gli alunni speciali sono una ricchezza per i normodotati, gli scettici cavalcano l’onda della fatica”. INTERVISTA
Si riaccende il dibattito sull’efficacia di un’educazione differenziata per gli alunni con difficoltà, allora classi differenziali sì o no? Ne abbiamo parlato con il Professor Dario Ianes, già docente ordinario di Pedagogia e didattica dell’inclusione all’Università di Bolzano, Corso di Laurea in Scienze della formazione primaria, co-fondatore del Centro Studi Erickson di Trento per il quale cura alcune collane, autore di vari articoli e libri e direttore della rivista «DIDA».
Professor Ianes, la recente affermazione del generale Vannacci sulle classi differenziali ha riacceso il dibattitto su un ritorno al loro utilizzo. Sarebbe giusto tornare ad una situazione pre-riforma, ovvero al 1977?
È chiaro che è un discorso antistorico, nel senso che ormai l’integrazione degli alunni con disabilità, e poi più in generale l’inclusione, è entrata nel DNA della scuola italiana, sono passati quasi 50 anni per cui è impensabile fare questo passo indietro. Ma non è impensabile solamente per questo, è impensabile perché è anti-efficacia della scuola. Questo vuol dire che la presenza di alunni con disabilità, con DSA, con altri BES, in pratica l’eterogeneità che abbiamo nelle nostre classi, è un fattore di crescita, di efficacia, di sviluppo e di accrescita di competenze nelle alunne e negli alunni, ma questo non lo dico io ideologicamente, lo dice la ricerca scientifica, a livello internazionale, la quale ci dice che un gruppo eterogeneo, cioè mescolato in termini di abilità, competenze, lingue, provenienze e quant’altro, produce migliori risultati, in pratica quello che Morin chiamava “la testa ben fatta”.
La testa ben fatta, e non ben piena di nozioni, te la fai nel confronto con le differenze, nella gestione anche di conflitti, che possono essere cognitivi, interpersonali ed emozionali, per cui tutta questa grande eterogeneità, che non è facile da gestire e che in alcuni casi è addirittura molto difficile, è uno dei fattori di sviluppo di competenze. È chiaro che dobbiamo gestirla bene, non possiamo nascondere le difficoltà. Ovviamente chi fa l’ “inclusioscettico”, come ad esempio Vannacci o Galli della Loggia, cavalca l’onda di quella fatica, di quella difficoltà, che nella scuola indubbiamente c’è, e si rivolgono a quelli insoddisfatti, affaticati, frustrati per cui sarebbe meglio effettuare la separazione, però non è questa la soluzione.
Integrazione o inclusione? A quanto pare ancora non è ben chiara la differenza, ce la spiega e ci aiuta a capire qual è la strada da seguire?
Integrazione è una parola ormai un po’ vecchia, nel senso che fa riferimento a tutto quel periodo in cui le alunne e gli alunni con disabilità venivano portati nella scuola cosiddetta “normale”. L’attenzione era solo su di loro, pensiamo all’insegnante di sostegno, per cui tutta quella lunghissima fase che va dagli anni ’70 fino al 2010, quando si affacciano i DSA con la legge 170.
Da allora in poi c’è un riconoscimento formale, ufficiale, anche di altre condizioni di difficoltà che non è solo la disabilità, ma anche i Disturbi Specifici dell’Aprendimento e poi dal 2012, con la direttiva Profumo, i Bisogni Educativi Speciali, per cui si allarga sempre di più la platea e questo allargamento porta nella direzione della scuola inclusiva, che non è più quella che fa integrazione di un 4% di alunni con disabilità, ma quella che dà una risposta personalizzata, differenziata, libera, tagliata su misura al 100% delle alunne e degli alunni, per cui sono compresi quelli che hanno una forte dotazione intellettiva, chi ha un background differente o una lingua differente, insomma un’eterogeneità complessiva.
Per cui inclusione è questo, è dare risposte adatte e sviluppare il massimo potenziale in ognuno e in questo ognuno c’è dentro dall’estrema disabilità grave all’alunno che ha un’alta dotazione intellettiva, è un diritto di tutte e di tutti.
Ma in Europa come stiamo? Quanti paesi ancora utilizzano le classi differenziali e con quali risultati?
Le utilizzano quasi tutti, perché quasi tutti i paesi europei, ma anche a livello mondiale, hanno di fatto dei sistemi misti, per cui ci sono delle scuole inclusive, che sono sempre in crescita perché il trend è inarrestabile, però convivono anche scuole con classi speciali. C’è un sistema misto che porta con sé sempre più polemica e conflitto, ad esempio la scorsa estate un polito tedesco, di estrema destra, ha fatto un attacco durissimo all’inclusione, perché in Germania nelle scuole dove si fa inclusione piena, come viene fatta in Italia, lì il dibattito è forte sul fatto che funzioni o meno e sulle risorse necessarie per realizzarla, mentre in Italia il dibattito non c’è più, a meno che non risorgano gli inclusioscettici.
L’inclusioscetticismo, come io lo chiamo, cresce perché crescono movimenti politici, nazionalismi e dinamiche di chiusura rispetto al diverso, all’altro da noi, che alimentano questi meccanismi. Non a caso questa posizione critica nei confronti dell’inclusione in Germania avviene da un partito di estrema destra. In conclusione questa è un po’ la situazione, ci sono delle isole di forza rispetto all’inclusione, per esempio il Portogallo sta facendo un bellissimo lavoro sull’inclusione, un po’ sulla scia italiana. Dovremmo essere molto attenti a questo fenomeno che ho chiamato dell’inclusioscetticismo, perché è un attacco abbastanza forte che ha origini politiche, non ha origini scientifico-pedagogiche. Poi ci sono anche le declinazioni più pedagogiche che però ignorano il fatto che abbiamo ricerca a livello internazionale, ma anche italiana, che dimostra che in realtà l’inclusione fatta bene produce vantaggi.
Un’ultima domanda, sono in tanti ad affermare che avere in classe un alunno speciale è una ricchezza per tutti, in particolare per gli alunni “normodotati”. È corretta questa visione?
Assolutamente sì, però bisogna articolarla più nel dettaglio. È un vantaggio da tanti punti di vista, a cominciare dal punto di vista della sensibilizzazione alle differenze. Ad esempio se ho in classe un’alunna o un alunno con un disturbo dello spettro autistico, lì ho una risorsa formidabile per imparare a capire come relazionarmi ad una persona “strana”, che pensa in modo “strano”, che si comporta in maniera “strana”, questa è una ricchezza formidabile per lo sviluppo del mio sé in relazione con gli altri, perché faccio un’esperienza di un’eterogeneità, inoltre se ho un alunno che legge in maniera “strana”, che fa fatica, imparo anche qualcosa sulla lettura, cioè imparo qualcosa sulla varietà del mondo, l’infinita varietà delle differenze, ma che serve a me per crescere con la mia consapevolezza, per cui consapevolezza delle differenze, capacità a relazionarmi con gli altri, capacità a sopportare anche i conflitti e le situazioni difficili, cosa che è potentissima come sviluppo di competenze di un cittadino. Per cui tutta quella parte che si potrebbe chiamare di soft skills, cioè capacità di leggere il contesto, le relazioni e le emozioni dell’altro con le mie, l’empatia, la solidarietà, tutto quel complesso pacchetto di soft skills le esercito in una situazione complessa, e questo è un primo vantaggio, una prima categoria di vantaggi, ormai documentata.
Una seconda categoria dei vantaggi, molto interessante, è quella legata alla cognizione, all’apprendimento come attività mentale e qua bisogna entrare nel discorso della metacognizione. Se io alunno cosiddetto “normodotato” devo collaborare con te che ha i un deficit intellettivo e dobbiamo insieme costruire qualcosa, ecco che devo imparare e capire come tu pensi, come ragioni, le cose che sai, come collaborare efficacemente con te, per cui sviluppo teoria della mente, mi immagino come tu pensi le cose, immagino come puoi apprendere delle cose, cambio il mio linguaggio, lo evolvo, così come evolvo il modo di spiegarti le cose, cioè divento più potente dal punto di vista cognitivo e metacognitivo, perché devo gestire una situazione di collaborazione.
Ma è chiaro che se invece ognuno resta sulle proprie posizioni non sto costruendo questa possibilità, a differenza di una scuola collaborativa, dove c’è il gruppo cooperativo, il tutoring, la coppia che lavora insieme, ecco che lì si sviluppano queste competenze, che non sono solo competenze di tipo socio-emotivo, soft skills, ma sono competenze più di tipo cognitivo e metacognitivo. Poi c’è una terza dimensione di vantaggio che potremmo chiamare del gruppo classe che è un gruppo che dovrebbe essere di tipo prosociale, legato al sostegno reciproco, al creare un buon clima di condivisione, di sentirsi squadra, questo aspetto si sviluppa di più in classi eterogenee, perché c’è uno sforzo deliberato, strutturato, per costruire questa cosa qua, che poi è il terreno su cui puoi lavorare, per cui anche questo è un vantaggi nell’avere inclusione in classi eterogenee.