Chiedo soltanto che vi sia posto ancora per parole oneste. Lettera

Inviata da Maria Isa Carelli – Ieri, per molti, si sono concluse solo alcune attività scolastiche. Finiscono, o stanno per finire, per questo anno scolastico le ormai celebri videolezioni.
Ho ripensato a tutte le volte in cui a diversi studenti avevo detto in passato: “Non preoccuparti se a casa non sei nelle condizioni di studiare, studieremo qui, a scuola, imparerai qui. Almeno qui, potrai e dovrai lasciare fuori tutto il resto”.
Quante volte anche da insegnanti noi stessi siamo riusciti, almeno ci abbiamo provato, a lasciare fuori tutto il resto.
Non si tratta solo di avere strumenti che da dentro le mura di un edificio domestico, dove non è affatto scontato ci siano le condizioni per concentrarsi, meditare, riflettere anche solo con se stessi, si possa attraverso uno schermo farsi raggiungere e muoversi idealmente verso il
mondo fuori.
Vogliamo che i ragazzi certo siano dotati di personal computer ma perché possano esercitarsi già a scrivere documenti in forma quasi ufficiale, che imparino come scrivere un testo email senza essere derisi, che sappiano già che quando andranno all’università dovranno scrivere nelle loro tesi quale materiale hanno consultato e che sappiano che anche navigare in internet
richiede consapevolezza. Che le onde non sono tutte uguali, che nel piattume della palude si nascondono tante insidie. L’insidia di abboccare ad esche velenose gettate a farsi mordere da pesci moribondi, rabboniti dalla stanchezza, dall’ingenuità, che spesso è del povero, e che, se trascurata, si riduce al desiderio di una vita quieta.
Io chiedo soltanto che, fra tutte le difficoltà che il mondo della scuola ha vissuto, vi sia posto ancora per parole oneste. Non si tratta di arrivare nelle case delle famiglie che vivono situazioni di disagio.
Se la mia casa è in disordine, l’ultima cosa che desidero è che vengano a farmi visita certi tromboni per dirmi come fare a nascondere la polvere sotto il tappeto. Mi piacerebbe piuttosto avere appuntamento a scuola con quelli che hanno case pulite e sempre in ordine, come con quelli che – come me – avranno chiuso la porta, tentando almeno per cinque ore di stare
altrove. La scuola non è arrivare dentro il domestico. La scuola è piuttosto uno stare. Fuori, un po’, dalle mura domestiche. Non è una propaggine del vizio familistico di questo Paese. È piuttosto sapere che a volte, per essere felici, non basterà coltivare il sogno privatistico di una vita tranquilla. Ci sarà anche questo, certo. Ma tranquillo non è uno stare fuori dalla “cosa
pubblica” e rispettare gli impegni. Lavorare. Collegarsi alla rete per sentire un po’, vedere un po’:”io ci sono e voi?”.
In una lettera agli amici, Giacomo Ulivi, 19 anni iscritto all’Università di legge a Parma, fucilato dai fascisti perché partigiano, scriveva: “la cosa pubblica è noi stessi…Noi siamo falsi con noi stessi, ma non dimentichiamo noi stessi, in una leggerezza tremenda” E ancora: “Lavorare non basterà: nel desiderio invincibile di quiete, anche se laboriosa, è il segno dell’errore”