“Cecilia Sala fa giornalismo in un modo che non si vedeva da qualche decennio. Ecco perché uso il suo lavoro nelle mie classi”. INTERVISTA alla professoressa Michela Fregona

“Cecilia, resisti, resisti, resisti, resisti”, le manda a dire la professoressa. E chissà quando, la giornalista Cecilia Sala, arrestata e chiusa in una prigione di Teheran, potrà leggere la lettera aperta che la professoressa Michela Fregona le ha scritto e affidato al suo profilo Facebook. “Sono in grado di resistere, ma aiutatemi”, sembra risponderle oggi Cecilia, mentre parla al telefono con la sua famiglia. “La luce è sempre accesa – lamenta – dormo a terra, mi hanno sequestrato gli occhiali da vista”. Un quadro sufficiente per far capire che cosa sia una prigione a chi in Italia sempre più sembra simpatizzare per le dittature passate e attuali. Non mancano peraltro sui social e non solo i commenti sarcastici e violenti di persone che nella migliore delle ipotesi scrivono che se l’è cercata, questa giornalista, che poteva starsene a casa propria invece di andare a rompere le scatole al regime di Teheran.
Michela Fregona è laureata in Lettere antiche e insegna dal 2000 Italiano e Storia per stranieri, nei corsi diurno e serale presso l’Istituto professionale a indirizzo sociale “Tomaso Catullo” di Belluno, e nella sezione carceraria locale, ed è attualmente distaccata come tutor docente nei corsi 30 e 60 CFU. E’ diplomata in flauto traverso, è anche giornalista. È tra i fondatori di Scrittori a domicilio. Dopo vent’anni di giornalismo culturale sui quotidiani cartacei, dal 2018 cura la pagina della letteratura della rivista online Cultweek. Ha collaborato con l’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti e con l’Accademia dei Lincei. Organizza corsi, rassegne, presentazioni. Ha pubblicato per Postcart due libri reportage sul tango argentino insieme alla fotografa Lucia Baldini (Tangomalia, nel 2000, e Buenos Aires Café, 2004). Il suo romanzo d’esordio, La classe degli altri, pubblicato da Apogeo edizioni, è stato segnalato in prima stesura dal Premio Calvino. Nel 2020 è uscito Riscossa (Anima Mundi Edizioni per RETE di cooperazione educativa).
“Non si contano – spiega oggi la professoressa Michela Fregona nel suo post – le volte che (a sua insaputa) Cecilia Sala mi ha aiutata, nelle mie classi multietà, multicultura, multitutto. Il podcast, gli articoli, le pillole Instagram, il suo libro. La voce di una professionista che, nella storia contemporanea, non ci mette solo dentro i piedi, ma spende il proprio cervello, e porta di persona tutto il corpo. Affrontare la complessità, andare a vedere, compromettersi, rischiare, prendersi responsabilità. E permettere – a tutti noi, in quelle classi, da insegnanti e da corsisti – di capirci di più, di non ignorare pezzi della realtà, di connettere la causa e l’effetto, l’effetto e la causa di eventi solo geograficamente discosti da noi, è un carico che Cecilia Sala si è assunta, e a cui tutta la società civile (a prescindere) dovrebbe portare rispetto – e gratitudine. Quindi: voglio sperare, oltre l’angoscia presente. Che significa (anche, incongruamente) sperare che ognuno dei pensieri che in questo momento vengono formulati per la sua incolumità e la sua resistenza e la sua liberazione le arrivi vicino, lì dov’è detenuta. Resisti. Resisti. Resisti”.
E sulle polemiche: “Dalle categorie – spiega – penso che potremmo tutti e tutte davvero fare a meno, in questo momento. Potremmo per esempio tornare a pensare da persone. Tra il la ragazza sta bene e non è obbligatorio avere a cuore la sorte di una giovane donna italiana” io mi chiedo dove siano finiti umanità e istituzione – che peró significa: dove è finito ognuno di noi, se siamo in grado di non vedere fino a questo punto. Il giornalismo (e lo scrivo da giornalista) è un mestiere che Cecilia Sala fa in un modo che non si vedeva da qualche decennio. È una reporter dai luoghi di crisi (e quando l’ho ascoltata, come quando mi capita di ascoltare bravi professionisti, ho pensato: c’è speranza per la professione; dunque, c’è speranza per l’informazione). Quanto al carcere (e questo lo scrivo invece dopo undici anni di scuola carceraria come insegnante): solo chi non ci è mai stato, e ignora beatamente cos’è la restrizione, può aprire la bocca per dire simili aberrazioni. E io ho percepito un minimo, nella mia esperienza, da persona che dopo la lezione esce, e non sono stata in un carcere politico di un regime teocratico”.
Professoressa Michela Fregona, come ha conosciuto Cecilia Sala?
“E’ venuta a presentare il suo libro intitolato Incendio e nel tempo ho utilizzato molto spesso la sua produzione di podcast e di pillole Instagram perché sono state un ottimo supporto per tanti alunni italiani e stranieri perché un lavoro come quello suo si basa sull’autenticità, cosa che si sente nei contenuti e che è estremamente importante per creare attenzione. La scuola è ossessionata dall’idea di autentico. I contenuti di Cecilia Sala, specie in un contesto di giovani adulti che tornano in formazione sono importanti. Ho utilizzato nelle mie classi il suo libro. Dà la possibilità di avere un materiale molto autentico e molto utilizzabile. Penso al fatto di una giornalista che è fisicamente nel luogo, attraverso una modalità di informazione che è in presa diretta. I reporter di guerra sono sempre stati nei luoghi, ma i modi con cui Cecilia sa usare i mezzi che abbiamo oggi e che consentono di portarci a vedere l’umanità e l’assurdità delle cose e dei fatti sono qualcosa che coinvolge. Un conto è dire c’è la guerra in Ucraina. Un’altra cosa è dare a questa guerra dei volti, delle abitudini, dei tic, delle immagini, sguardi che avvengono lì, in questo momento”.
Una risorsa per la comprensione dell’attualità ma anche della storia. E’ così?
“Una delle difficoltà nell’apprendimento della storia è proprio quella di riuscire a fare acquisire la sincronia degli eventi. E quello che il lavoro di Cecilia Sala fa è trascinarci dentro e farci capire che cosa sta succedendo in questo momento e spiegarlo in modo comprensibile. Lei è una risorsa importante per l’autenticità, come detto, e d’altra parte per l’attenzione sul rapporto causa ed effetto nel momento in cui vediamo la manifestazione di un evento che deriva da scelte e connessioni precedenti. Come è emerso quando è venuta a presentare il suo libro, la rappresentazione che si facciamo della realtà è disattenta e la disattenzione è uno dei grandi problemi che abbiamo oggi nel rapportarci con l’apprendimento perché essere disattenti significa non riuscire a leggere la complessità e, ahinoi, siamo in un mondo estremamente complesso. Il richiamo all’attenzione a contenuti reali e a connessioni di eventi è determinante. Nelle classi di adulti italiani e stranieri questa è una risorsa clamorosamente funzionale, ma anche nelle ultime classi delle superiori c’è una freschezza di mezzi e una volontà di farsi capire che è subito percepita da studenti e studentesse, i quali rispondono, chiedono, leggono, comprano il suo libro, chiedono conto, si svegliano”.
Come giudica le tante polemiche? La più gentile è: poteva starsene a casa sua.
“Le polemiche sono prive di senso. Poteva starsene a casa? Allora potevano anche non sapere nulla di quel che succede in certi Paesi, potevamo ignorare gli eventi, non sapere nulla. Ma non si fa giornalismo standosene a casa. Quando Cecilia dice che i Talebani sono un movimento che esiste da meno tempo dei telefoni cellulari, ecco, questa è un’immagine che dà a ciascuno di noi e specie a chi è più giovane l’opportunità di capire che quello che hanno davanti agli occhi non è per sempre.
Nelle mie classi per parlare dell’Iran io utilizzo Persepolis (La storia è un romanzo di formazione, inizia poco prima della Rivoluzione iraniana, mostrando attraverso gli occhi di Marjane, che inizialmente ha nove anni, come le speranze di cambiamento della gente furono infrante lentamente quando presero il potere i fondamentalisti islamici, obbligando le donne a coprirsi la testa, riducendo ulteriormente le libertà della popolazione e imprigionando migliaia di persone. Ndr, da Wikipedia), utilizzo una serie di strumenti narrativi. Il lavoro di Cecilia Sala è un lavoro di reportage e dà la contezza del tempo che è stato impiegato per arrivare al cambiamento. Se dal ‘79 c’è stato un cambiamento fortissimo nell’Iran è anche vero che il tempo della repressione, che è più ristretto, è un tempo che rischia di far sparire la percezione dei cambiamenti che c’erano stati prima. E questo è una cosa che sta succedendo ora, davanti ai nostri occhi e ci sono persone che ci fanno capire quel che sta accadendo. I mezzi usati oggi anche da Cecilia Sala, sono diversi, l’utilizzo veloce e sempre accurato e senza sconti è fondamentale per riuscire a capire la complessità”.
Tutta la società civile, dice lei, dovrebbe portare rispetto e gratitudine. E invece c’è tanta ingratitudine, specie sui social. Perché, secondo lei?
“Perché non ci fermiamo più a capire le cose. La polarizzazione che è avvenuta nella comunicazione social dopo la pandemia porta sempre a sentirsi legittimati a dire qualcosa per forza o a parteggiare: tutta la parte di inibizione e di autoinibizione che noi mettiamo in atto in contesti reali non c’è più davanti a una tastiera. Per questo dico che avere voci che permettono di capire è un valore per tutti quanti a prescindere”.
Viene in mente un po’ Oriana Fallaci…
“Guardi, pensavo proprio a Oriana Fallaci. Si poteva essere d’accordo o meno con lei, ma resta il fatto che era una voce importante che è andata lì dove noi non eravamo e che ha permesso a noi di fare dei ragionamenti su ciò che ci ha permesso di vedere”.
Proviamo a rientrare in classe. Lei tempo fa ha scritto un libro sulla scuola, “La classe degli altri” (Apogeo Editore), sull’esperienza della scuola serale. Quale narrazione ha la scuola serale in Italia?
“Questo libro nasce da una voglia di dare voce a una realtà, la scuola serale, che non ha narrazione. L’unica narrazione che spesso si fa è che è un mondo di sfigati, materiale di scarto, mentre in realtà è un avamposto che ha permesso di vedere con grande anticipo che cosa può diventare il mondo nella sua migliore manifestazione grazie all’apprendimento e all’imparare insieme: la scuola insegna a essere società. Nel suo piccolo la scuola serale è una scuola multietnica, multietà, multitutto. E’ costituita da laboratori di cittadinanza e di benessere, lì dove funzionano.
Questo libro è un romanzo ma è come se fosse un documentario a parole. Sono materiali raccolti in dieci anni ed elaborati, non c’è nulla di inventato. L’idea era quella di aprire una finestra sulla scuola nella sua forma più estrema e nobile”.
Chi sono gli altri?
“Gli altri sono la classe: senza libri, senza orari, senza un solo segmento dritto nel proprio futuro. Nelle traiettorie del loro destino, tutte le possibilità sono aperte: riscatto, deviazione, perdita, cambiamento. Questa è la storia di dieci mesi, giorno e notte, nelle aule del Centro Territoriale Permanente per l’educazione degli adulti di Belluno. l’ultima delle istituzioni scolastiche nate in Italia. Un laboratorio di seconde chance e di primi approdi. La classe degli altri è il romanzo di uomini e donne che, nonostante il punto a cui la vita li ha portati, nonostante il benessere apparente, nonostante i fallimenti, nonostante una vita di prove e fatica, sentono che non sono finiti, desiderano ancora; e resistono, quotidianamente, nella costruzione del proprio domani. Lo fanno attraverso la scuola. Tenere tutti insieme è una scommessa; portarli al diploma una avventura. Qui sbagliare, ad un insegnante, costa molto caro”.
Perché lei dice che costa caro?
“Perché la dimensione del serale prevede una co-responsabilità nel rapporto tra docenti e discenti molto marcata, scoperta. Si sbaglia, peraltro, in modi diversi rispetto al mattino. Non leggere velocemente le dinamiche di un gruppo, non supportare una situazione di crisi personale per tempo, non riuscire a parlare, o viceversa dire una parola di troppo, non avere a mente le coordinate culturali di ognuno: sono tutti errori che agiscono in modo spesso amplificato nella vita scolastica di un corsista della sera. Quando un adulto abbandona le classi del serale, difficilmente ritorna poi sui suoi passi. Ed è una perdita che pesa come un lutto dentro le compagini degli studenti e delle studentesse che lavorano. Dare un motivo a ciascuno per sedersi ogni benedetta sera in quei banchi è -però – qualcosa che al lato opposto mette alla prova anche la convinzione professionale di un docente: c’è una parte di investimento emotivo, un coinvolgimento della propria efficacia con cui si è chiamati a confrontarsi. Quando non si riesce a funzionare, non si riesce nemmeno a far funzionare”.
Ma com’è insegnare Dante nella classe degli altri?
“E’ diverso insegnare Dante e insegnare alfabetizzazione: dopo di che io sono convinta che un buon insegnante riesca a fare arrivare Dante a tutti e questo è un compito bellissimo, sfidante ed estremamente edificante”.