Burnout. Il disagio può avere radici familiari e trasformarsi in … Stress Lavoro Correlato
Un sabato mattina ricevo il seguente messaggio da una maestra elementare sui 40 anni, entrata in ruolo da qualche anno:
Gentile dottore, le scrissi anni fa a proposito della mia dipendenza dall'alcool.
Un sabato mattina ricevo il seguente messaggio da una maestra elementare sui 40 anni, entrata in ruolo da qualche anno:
Gentile dottore, le scrissi anni fa a proposito della mia dipendenza dall'alcool.
Dopo aver avuto un bambino, ho solo cambiato dipendenza: sniffo solvente. Credo di aver bisogno di aiuto specialistico, ma il mio dubbio è: quali ripercussioni si possono avere sul lavoro di docente se si viene seguiti da una struttura pubblica? Esiste l’obbligo di segnalazione per le dipendenze a fronte del lavoro che svolgo a contatto coi minori? Grazie per le risposte che mi vorrà dare.
Non si tratta certamente del primo caso di dipendenza in cui mi imbatto tra gli insegnanti ma, a differenza delle altre storie in cui la segnalazione mi era stata effettuata dai colleghi o dal dirigente scolastico, qui è l’interessata stessa che denuncia la propria dipendenza. Decido di provare innanzitutto a stabilire un contatto telefonico per assicurarmi che non si tratti di una storia inventata o di una sorta di delirio. Lara (così chiameremo la maestra) accetta di buon grado di conversare e mi fornisce il numero di cellulare. La chiamo nel tardo pomeriggio e, dopo un rapido scambio di convenevoli, veniamo subito al punto: dice che sta cercando di disintossicarsi da sola, ma ogni tanto ha delle ricadute e ricomincia a inalare acetone dopo astinenze anche superiori a una settimana. Afferma di essersi resa conto che per uscire dal suo tunnel, necessita di un supporto medico specialistico, ma teme di essere denunciata all’istituzione scolastica dagli stessi curanti del servizio pubblico.
La tranquillizzo subito dicendo che i medici, privati e non, sono tenuti al segreto professionale, perciò può tranquillamente intraprendere il programma di disintossicazione. A mia volta approfondisco il motivo della dipendenza, il perché del passaggio dall’alcool all’acetone, le modalità e la frequenza del consumo. Lara risponde senza esitazione né imbarazzo a tutti i quesiti: l’abuso di sostanze le serve a sedare situazioni d’ansia (soprattutto per problemi a origine familiare) e a sfuggire alla realtà; col tempo si è resa conto che l’acetone è decisamente più gestibile dell’alcool (più facile da nascondere e da portarsi dietro) e stordisce di meno; infine ricorre alla sniffata ogni qualvolta l’ansia compare, quindi anche a scuola, allorquando presta servizio coi bambini. In seconda battuta chiedo a Lara di raccontarmi della sua vita personale e professionale per cercare il bandolo della matassa di quei comportamenti. Lara parla con lucidità e piena consapevolezza dimostrando la stessa determinazione con cui, alcuni anni prima, mi scrisse la sua prima email. Racconta di avere 42 anni di insegnare alla scuola primaria da circa 15 anni dove, da un lustro, è di ruolo.
Il lavoro è faticoso, ma anche fonte di gratificazione e sfogo: la situazione – dice lei – è decisamente migliorata dopo l’immissione in ruolo. La vita privata annovera spunti decisamente più critici che Lara non sminuisce ma denuncia a chiare lettere senza sconti o infingimenti: figlia unica, è stata adottata da neonata; ha una madre più che mai invadente con la quale fatica a relazionarsi; vive col marito oramai stanco della suocera esuberante e di una moglie a lei totalmente succube; ha un figlio di 5 anni che, con poco trasporto affettivo ma con malcelata ammirazione, definisce “assai intelligente perché sa già leggere, scrivere e fare i conticini”. Provo a chiederle se ha mai cercato di risalire alla sua famiglia biologica per conoscere i veri genitori e la risposta che fornisce non ammette repliche: “Con tutti i problemi che ho avuto con questa famiglia, come può chiedermi se ho voglia di cercarne una seconda?”. Più esplicita di così… Infine chiedo a Lara se non ha nulla in contrario che io scriva la sua storia in un articolo – alcune riflessioni possono essere di aiuto a tutti i suoi colleghi – e lei non solo acconsente, ma integra il racconto verbale col seguente scritto:
Gentile dottore, eccomi come promesso. Non ho ritrovato la mia vecchia email, probabilmente finita in chissà quale compressione dei messaggi. Il testo era piuttosto breve. Dicevo pressappoco così: “Insegno da soli 4 anni e mi chiedo se si può essere già stufi del proprio lavoro fino al punto da ripiegare sull'alcool?”, o qualcosa di molto simile. La sua risposta la ricordo meglio: "Splendida la spregiudicatezza con la quale parla di sé, segno che ci sono ancora grandi spazi di manovra" . E poi l'invito a vederci a Milano.
Anni dopo, mi ritrovo se non al punto di partenza, quasi.
Dopo l'incontro di oggi col neuropsichiatra ho focalizzato qualcosa in più. Innanzitutto, rispetto al passato, mi sono riappacificata molto col mio lavoro. Continua a non essere semplice, ma la nascita del bambino mi ha fatto capire di essere come l'insegnante che non vorrei per mio figlio: poco motivata e disattenta alle esigenze (tante) dei bambini, nonché troppo preoccupata dei genitori pretenziosi e presuntuosi. Il conflitto tuttavia rimasto irrisolto è quello con la mia augusta madre. Secondo il dottore, non ho una dimensione mia privata. Il tentativo di non scontentare nessuno, da brava bambina, mi fa cercare una serie di compromessi tra mia madre e la mia attuale famiglia scontentando tutti, alla fine. Pertanto, il "segnale di pericolo" che mi invia il mio cervello, viene compensato dalla fuga, o meglio, dalla ricerca di qualcosa che non mi faccia avvertire il senso di malessere. La cura migliore sarebbe una sana esplosione di rabbia, o perlomeno di sentimenti che in un dato momento provo e che dovrei tirare fuori anziché mettere sotto il coperchio.
Ovviamente mio marito fa la sua parte egregiamente, ossia quella di difensore del recinto domestico. Ha visto le cose con chiarezza molto prima di me. Non ha naturalmente il coinvolgimento emotivo che mi ha tenuta in scacco per anni. Beh, qualche piccolo segno di ribellione c'è stato, ad esempio quando ho adottato un gatto, ma ci voleva ben altro.
Paradossalmente il fatto di essere passata di ruolo e di insegnare in una scuola di "quartiere popolare" non ha peggiorato la mia situazione. Le risate che mi sono fatta con i miei alunni sgarrupati negli ultimi due anni non le avevo mai fatte in vita mia. Eventuali fantomatiche valutazioni del mio operato sulla base dei risultati dei miei studenti mi fanno ridere ancora di più, come del resto farebbero le mie colleghe. Tanto per dire, una prima di quest'anno è di 31 bambini (28 all'iscrizione, ecco perchè li sdoppiano in organico di fatto) di cui solamente sei italiani. Gli altri tutti di origine marocchina, con la capacità comunicativa di un bimbo di tre anni, considerando il retroterra culturale. INVALSI in seconda? Vogliamo azzardare previsioni? Vengano pure i signori del Ministero. Potrei senza dubbio mandarli a stendere.
Ho sicuramente da combattere su altri fronti la mia battaglia, e non sarà roba da poco. Anche perchè non posso lasciare mio figlio alla deriva emotiva, o fargli prendere il sopravvento.
Cari saluti.
Considerazioni
Ringrazio Lara per aver concesso di pubblicare il suo caso, utile innanzitutto per alcune considerazioni generali. La dipendenza della quale la maestra è vittima (ma anche artefice) pare essere gestita da lei stessa con buona padronanza: passa infatti dal bere allo sniffare senza difficoltà e riesce a garantirsi più o meno lunghi intervalli di astinenza. Tuttavia si tratta della tipica illusione che danno tutte le dipendenze: lasciano inizialmente intendere di essere gestibili, mentre prendono in breve il sopravvento sulla volontà dell’individuo, sfruttando quel fenomeno biochimico noto col nome di “tolleranza” (necessità di aumentare la dose della sostanza per ottenere il medesimo effetto e contestuale aumento degli effetti collaterali). Dopo qualche anno Lara comincia a comprendere la sua difficoltà e cerca un supporto medico specialistico. Il suo lavoro, visto dapprima sbrigativamente come causa della sua dipendenza, diviene l’occasione per cercare il proprio riscatto e tornare a vivere: “Ho cominciato a riappacificarmi col mio lavoro”; “Le risate che mi sono fatta con i miei alunni sgarrupati negli ultimi due anni non le avevo mai fatte in vita mia”.
Sembrano pertanto essere i problemi familiari la principale fonte del malessere: l’adozione, il difficile rapporto con la madre, nonché le ovvie ricadute sul marito (tra l’altro a conoscenza della sua dipendenza). La storia personale della maestra sembra fisiologicamente spiegare la sua personale empatia per chi, come lei, ha vissuto le medesime o simili difficoltà: il gattino adottato, gli studenti sgarrupati del quartiere popolare, gli extracomunitari lontani dal paese natio e magari dalla famiglia di origine. Così come potrebbe giustificare quel distacco affettivo che assume la dimensione di “asettico rispetto” verso la mamma (augusta madre), quindi nei confronti del marito (difensore del recinto domestico), infine verso il figlio che talora genera un senso di colpa a tutti gli effetti (“Dopo la sua nascita ho capito di essere l’insegnante che non vorrei per mio figlio”).
Più in generale potremmo dire che Lara ha una palese, ma altrettanto fisiologica, difficoltà nell’identificarsi prima e nell’interpretare poi il ruolo materno. Non capisce innanzitutto se la figura materna sia positiva – ma ne dubita fortemente – costretta com’è tra una precedente esperienza abbandonica e un presente matriarcato assoluto. Il conflitto con la propria madre adottiva si estende poi alle stesse figure genitoriali dei suoi alunni (genitori pretenziosi e presuntuosi). Significativamente gli anzidetti dissapori con le suddette figure sono riportati in periodi contigui nella lettera. Infine il rapporto col figlio improntato di più al rigido controllo “per non fargli prendere il sopravvento” che all’affettività spontanea. D’altronde Lara ha imparato solo questo dall’ augusta madre.
Insomma vi è molto materiale su cui Lara può lavorare con la prospettiva di perseguire ottimi risultati e divenire quella madre e moglie che tutti (marito e figlio in primis) si attendono.
Ma ciò che a noi ora interessa consiste nel comprendere in quale misura si possa parlare in questo caso di Stress Lavoro Correlato (SLC) e, soprattutto, se la cosa abbia un senso. Secondo la definizione che viene correntemente data (SLC = stress generato dal lavoro), il disagio e la dipendenza di Lara non avrebbero nulla a che spartire con lo SLC. Se però proviamo a ipotizzare che a causa della dipendenza della maestra possa capitare un infortunio ai bambini (magari anche per una semplice mancata vigilanza della classe), le cose cambierebbero radicalmente e l’amministrazione scolastica dovrebbe subito intervenire per: a) tutelare la salute della giovane utenza; b) accertare la dinamica dei fatti; c) sanzionare chi di dovere per le eventuali responsabilità disattese.
Quanto sopra per ribadire che l’esatta definizione di SLC potrebbe tranquillamente essere la seguente: trattasi di stress manifestato sul lavoro a prescindere da dove lo stesso abbia avuto origine. In altre parole, il legislatore non specifica per quale tramite lo stress debba correlarsi al lavoro: se per le sue cause o per le sue conseguenze. Ma se anche così fosse, si tratterebbe di un assurdo paradosso poiché lo stress non potrebbe essere pienamente compreso, né combattuto, qualora cause ed effetti venissero trattati in modo inspiegabilmente disgiunto.
Sarebbe inoltre auspicabile, in circostanze simili a quella esaminata, o in caso di malattia invalidante, che il lavoratore ricorresse di persona agli appositi strumenti che la legge mette a disposizione, chiedendo alla sua amministrazione di essere sottoposto ad accertamento medico per valutare la propria idoneità lavorativa in Collegio Medico di Verifica.
Nel caso in cui fosse il dirigente scolastico a venire a conoscenza di una simile circostanza (maestra con dipendenza), questi ha il dovere di richiedere d’urgenza l’accertamento medico d’ufficio per il lavoratore. In base alla gravità dei fatti, è inoltre tenuto a valutare al contempo se sospendere cautelativamente o meno dal lavoro l’insegnante fino alla visita medica collegiale. La tutela della salute dei docenti, nonché la tutela dell’incolumità dell’utenza rientrano infatti a pieno diritto tra i doveri medico-legali inalienabili del Capo d’Istituto.
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