“Basta con la formazione ai docenti fatta da chi non è mai entrato in una classe. Università non possono avere il monopolio”. INTERVISTA al professore Cotena

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“Alle università va sottratto il monopolio della formazione. La didattica non è soltanto fornire strategie per trasferire conoscenze e sviluppare abilità e competenze”. Un’autentica bomba (scolastica) sta per abbattersi sul Salone Internazionale del libro di Torino. Il professor Gaetano Cotena, docente, psicologo psicoterapeuta e scrittore, in una conferenza pubblica che si svolgerà il 17 maggio 2025 alla presenza di autorità politiche e della cultura, metterà al centro i bisogni degli insegnanti delle scuole italiane, bisogni ai quali dedica da tempo pubblicazioni e interventi che mirano a sensibilizzare le coscienze circa l’urgenza di dare un sostegno concreto al lavoro del corpo docente in una fase storica molto impegnativa del nostro tempo, a beneficio dei lavoratori stessi ma soprattutto a garanzia del benessere dei loro alunni.

Gaetano Cotena è insegnate di ruolo di Scienze Umane, è autore di vari libri sulla scuola eroga formazione emotiva e relazionale per i docenti delle scuole di ogni ordine e grado. Il 17 maggio alle ore 10,30 presso la Sala Bronzo del Salone Internazionale del Libro di Torino presenterà il suo ultimo libro “Il docente al centro” in cui – come annuncia – fornisce ai docenti “strumenti emotivi e relazionali utili a proteggerli nel nuovo tempo della scuola e in cui evidenzia come l’attuale formazione degli insegnanti e i percorsi di abilitazione proposti dalle Università, spesso non incontrino i reali e concreti bisogni dei docenti”. Introdurrà l’evento Carlotta Salerno, Assessora Istruzione, Edilizia Scolastica, Giovani, Periferie e Rigenerazione Urbana del Comune di Torino. Modererà il professor Vittorio Masiello, docente di Italiano e Storia all’ITET Mantegna di Mantova”.

Abbiamo raggiunto Cotena per farci dare delle anticipazioni in merito al suo intervento. “Basta con la formazione ai docenti fatta da chi non è mai entrato in una classe”, esordisce Cotena. “Didattica è anche creare situazioni sociali di apprendimento che inevitabilmente sollecitano aspetti relazionali in classe, che un docente universitario non conosce perché spesso, non sempre fortunatamente, arriva da carriere universitarie in cui l’unico incontro vero con una classe è stato forse durante una ricerca, ma che certamente non gli consente di conoscere quali sono i reali problemi di un insegnante e che non gli permette di acquisire un’esperienza educativa e didattica necessaria prima di entrare in un’aula e fare formazione ad insegnanti che spesso, a loro dire, hanno molta più esperienza del formatore, soprattutto se arriva dal mondo universitario”. Secondo lui consentire che a occuparsi di formazione dei docenti sia solo chi ha esperienza in università e non a scuola sarebbe “come dire che solo chi è cresciuto nel mondo universitario e ha fatto un dottorato, cioè talvolta solo una ricerca sulla scuola o su come funzionano gli apprendimenti, sa di scuola molto di più di chi invece tutti i giorni vive la classe, incontra bambini, famiglie e adolescenti e gestisce le situazioni più complesse, che non si imparano attraverso una ricerca o dei dati statistici, e neanche attraverso le conoscenze neuroscientifiche, ma attraverso la cura e la fatica che ogni giorno un insegnante deve mettere per fare l’adulto di riferimento mentre viene sollecitato dalle trenta storie che si ritrova difronte. E di questa cura e questa fatica i docenti universitari non hanno idea, a meno che non siano stati anche docenti in una scuola, come fortunatamente talvolta accade. È di questa parte relazionale, soprattutto, che la formazione dei docenti deve occuparsi”.

Professor Cotena, se con la sua provocazione intende suscitare un dibattito, ci è riuscito, ma entriamo in maniera soft sulla questione, con un primo interrogativo: che cosa significa per lei mettere il docente al centro in questo tempo della scuola?

“Significa offrire ai bambini e agli adolescenti degli adulti di riferimento che lavorano con strumenti adeguati alle richieste che vengono loro fatte. Non può esserci infatti una buona educazione se non c’è un adulto in buona salute psicologica, che non teme per la sua incolumità e che lavora entro soglie sostenibili di stress. Se il docente lavora in classe solo quattro o cinque ore al giorno è perché stare con trenta bambini e adolescenti sollecita oltremisura il sistema limbico, la parte emotiva di ogni essere umano, con una intensità che non è confrontabile con le sollecitazioni che riceve chi lavora con degli adulti in azienda o in altri contesti”.

E questo rappresenta secondo lei un aspetto sensibile della professione docente?

“Della protezione di questa parte emotiva dei docenti è necessario occuparsi seriamente, mettendola al centro della formazione e intervenendo per proteggere la figura del docente, rimettendola al centro, appunto. Non perché l’obiettivo finale sia solo il benessere dei docenti e delle docenti, ma perché un educatore che sta bene e che è ben preparato a fare il suo mestiere, un educatore che entra in classe avendo ricevuto strumenti relazionali ed emotivi che lo aiutano a stare – non a curare – con tutte le sfumature emotive che incontra ogni giorno, è un educatore che farà un servizio migliore per la società rispetto ad un docente che conosce soltanto la sua materia e che reagisce in modo scomposto difronte ai bambini o agli adolescenti”.

Chi deve occuparsi della formazione didattica e di quella emotiva e relazionale degli insegnanti?

“Certamente non più solo le università”

E allora entriamo nella questione

“Alle università va sottratto il monopolio della formazione. La didattica non è soltanto fornire strategie per trasferire conoscenze e sviluppare abilità e competenze. Didattica è anche creare situazioni sociali di apprendimento che inevitabilmente sollecitano aspetti relazionali in classe, che un docente universitario non conosce perché spesso, non sempre fortunatamente, arriva da carriere universitarie in cui l’unico incontro vero con una classe è stato forse durante una ricerca, ma che certamente non gli consente di conoscere quali sono i reali problemi di un insegnante e che non gli permette di acquisire un’esperienza educativa e didattica necessaria prima di entrare in un’aula e fare formazione a insegnanti che spesso, a loro dire, hanno molta più esperienza del formatore, soprattutto se arriva dal mondo universitario”.

Di cosa hanno bisogno i docenti, nel concreto?

“Guardi, se faccio l’elettricista o riparo auto, ho bisogno che un esperto mi spieghi certo come è fatto il motore, e per esempio i docenti universitari sanno bene spiegare come funziona l’apprendimento da un punto di vista neuroscientifico. Ma poi ho bisogno di qualcun altro che mi faccia vedere come si ripara l’auto o un sistema elettrico, e soprattutto cosa lo alimenta per farlo funzionare. Ecco, gli insegnanti hanno bisogno di concretezza nella loro formazione”.

E i docenti universitari non sono concreti?

“I docenti universitari – parlo di quelli che non sono mai entrati in una classe per più di una settimana – possono spiegare come funziona il cervello, possono spiegare i contenuti delle discipline, che spesso i docenti già conoscono molto bene, possono condividere con il mondo della scuola le nuove metodologie didattiche o i risultati delle loro ricerche, che sono preziose per l’apprendimento. Ma su tutto quello che riguarda gli aspetti relazionali, la gestione della classe, gli aspetti emotivi che inevitabilmente emergono durante l’applicazione delle metodologie didattiche o in tutto il restante tempo della scuola, i docenti hanno bisogno di essere formati da professionisti della relazione, che siano insegnanti con particolari competenze acquisite nel loro percorso di studi e con l’esperienza, o da psicologi e psicoterapeuti. Questi ultimi utilizzano la relazione prima ancora che per curare, per costruire una buona relazione con il paziente, e tutta la parte di competenze che uno psicoterapeuta ha per stare con l’emotività dell’altro e per costruire una buona relazione può essere condivisa con gli insegnanti. Parlo ancora una volta di stare non di curare”.

Lei parla di un “sistema universitario che spesso si autoalimenta” e che lascia fuori la concretezza delle esperienze dei docenti. E’ così?

“Premetto innanzitutto che non sempre è così. Ci sono alcuni insegnamenti in università che finalmente sono tenuti da professori a contratto che sono anche docenti nelle scuole statali o paritarie, ma questo è un aspetto ancora eccezionale e non strutturale. Spesso nei bandi aperti dalle università che cercano professori a contratto per insegnare nei vari percorsi abilitanti rivolti agli insegnanti, in fase di selezione ha più peso un dottorato di ricerca o un master rispetto agli anni di insegnamento in classe, cioè rispetto all’esperienza nel contesto lavorativo interessato dalla formazione. Come dire che in fatto di educazione può formare i docenti solo chi ha esperienza in università e non a scuola, come dire che solo chi è cresciuto nel mondo universitario e ha fatto un dottorato, cioè talvolta solo una ricerca sulla scuola o su come funzionano gli apprendimenti, ne sa di scuola molto di più di chi invece tutti i giorni vive la classe, incontra bambini, famiglie e adolescenti e gestisce le situazioni più complesse, che non si imparano attraverso una ricerca o dei dati statistici, e neanche attraverso le conoscenze neuroscientifiche, ma attraverso la cura e la fatica che ogni giorno un insegnante deve mettere per fare l’adulto di riferimento mentre viene sollecitato dalle trenta storie che si ritrova difronte. E di questa cura e questa fatica i docenti universitari non hanno idea, a meno che non siano stati anche docenti in una scuola, come fortunatamente talvolta accade. È di questa parte relazionale, soprattutto, che la formazione dei docenti deve occuparsi, prima ancora delle metodologie didattiche o di raccontare ai docenti come è fatto il cervello e come apprende. Perché se so come è fatta un’auto ma non so come mettere la benzina per farla funzionare, la conoscenza del motore non mi serve. E così in una classe”.

Approfondiamo questo aspetto

“Se conosco solo le teorie psico-pedagogiche di Piaget, Comenio e Freud – ormai i docenti delle scuole le hanno sentite e risentite –, se conosco come è fatto il cervello, se conosco i dati statistici e le teorie pedagogiche di cui spesso i docenti universitari sono esperti, ma non conosco i gesti, le parole, i toni che caratterizzano una buona relazione – conoscenze talvolta sconosciute al mondo accademico spesso lontano dalla scuola –, se non conosco come proteggermi dalla mia emotività, se non conosco come stare con tutte le sfumature emotive e relazionali che incontro ogni giorno in classe, non posso pensare di educare alle relazioni o all’autocontrollo, cioè non posso fare quello che, ancora prima di tutto il resto, la società mi chiede. E gli esperti di relazione non possono essere i docenti universitari, che nelle loro aule hanno a che fare con degli adulti con cui spesso non sono in relazione”.

Professor Cotena, lei dice che “le nuove metodologie didattiche proposte dalle università inevitabilmente chiamano in causa le competenze emotive e relazionali dei docenti, ma su questo aspetto si lascia sguarnito il docente di una formazione adeguata”. E’ così?

“Certamente. E questo lascia poco protetto il docente e lo espone a soglie sempre meno sostenibili di stress causando burnout. Chi forma i docenti su queste metodologie didattiche – i docenti universitari – dovrebbe sapere anche come rispondere a tutti quei quesiti che nascono dal loro utilizzo, che sono poi le domande che mi fanno i docenti durante i corsi di formazione che erogo nelle scuole: come gestisco gli alunni che durante l’uso del cooperative learning, per esempio, non vogliono collaborare con uno o più compagni? Come gestisco le classi conflittuali, quelle in cui gli alunni sono divisi in due o tre gruppi che non si integrano tra loro? Come gestisco le emozioni che possono derivare dalla stimolazione dell’emotività che alcune metodologie didattiche propongono? Come stare in relazione con la tristezza, l’aggressività, la paura, che possono emergere dai lavori che stimolano l’emotività? Come stare in relazione con tutte le sfumature emotive e spesso sintomatologiche che il docente incontra in classe ogni giorno?”

Lo dica lei

“A queste domande specifiche dell’essere docente non può rispondere un docente universitario che non è mai entrato in una classe, perché lo stare con l’emotività dei giovani richiede competenze specifiche che non riguardano solo le metodologie didattiche o le sole teorie psico-pedagogiche. Dunque anche la formazione sugli strumenti e sulle metodologie didattiche deve essere erogata anche da chi sa di relazioni umane e soprattutto da chi le sperimenta per professione. Docenti delle scuole e psicoterapeuti vivono sul campo questa esperienza nel loro lavoro. Chi cresce professionalmente solo in università non può acquisire queste competenze solo attraverso la ricerca, utile certo, ma non sufficiente per essere competenti sul campo relazionale, così competenti da poter fare i formatori per i docenti della scuola di oggi”.

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