Avvisati: in Italia lavoro insegnanti poco monitorato. Serve piano rilancio istruzione professionale
Dopo la presentazione, avvenuta la scorsa settimana a Roma, del rapporto “Education at a glance 2014” che monitora lo stato di salute dell’istruzione a livello internazionale, ecco il nostro approfondimento con l’intervista a Francesco Avvisati, analista dell’Ocse autore della nota italiana.
Dopo la presentazione, avvenuta la scorsa settimana a Roma, del rapporto “Education at a glance 2014” che monitora lo stato di salute dell’istruzione a livello internazionale, ecco il nostro approfondimento con l’intervista a Francesco Avvisati, analista dell’Ocse autore della nota italiana.
Nel corso della conferenza stampa si è sottolineato il fatto che il miglioramento degli apprendimenti dei ragazzi italiani registrato dall’Ocse potrebbe essere messo in relazione con la consapevolezza, nuova nei ragazzi ma anche nei docenti, del confronto internazionale: i primi studierebbero con più serietà, e i secondi offrirebbero un insegnamento più mirato al rafforzamento di certe competenze. Se fosse così, a essere più adeguata rispetto al contesto internazionale potrebbe non essere la preparazione culturale globale, ma semplicemente l’abilità nella risoluzione dei test…
Non credo che il confronto internazionale sia tra le principali preoccupazioni degli studenti o dei docenti, anche se tra gli operatori della scuola e le famiglie c’è chi si interessa al tema. Credo però che gli insegnanti desiderino fare bene il loro lavoro, e che per farlo hanno bisogno di informazioni su come possono migliorare.
In Italia il lavoro degli insegnanti in classe è poco monitorato. In mancanza di sistemi di valutazione che diano un riscontro al singolo docente sulla qualità dell’insegnamento (dal dirigente scolastico o da un corpo di ispettori), ma anche di sistemi meno formali di feedback tra insegnanti (p.es. con un mentore), i risultati alle prove standardizzate INVALSI sono stati una fonte importante di informazione su cosa hanno imparato gli studenti, e cosa avrebbero dovuto imparare. I risultati ai test spesso hanno permesso di innescare, all’interno delle scuole stesse, una discussione su come insegnare meglio alcuni concetti di base, in particolare in matematica. Questo può avere contribuito ad un miglioramento.
Se a migliorare è stata solo l’abilità nella risoluzione dei test, senza un reale arricchimento del bagaglio degli studenti, ce ne accorgeremo presto: questo tipo di miglioramento è effimero.
A livello di sistema poi i test nazionali e internazionali hanno permesso di mettere in luce il divario che esiste tra regioni del nostro paese – un divario che tendeva a essere mascherato da indicatori quali i voti di maturità. C’è stata una nuova consapevolezza del fatto che la scuola, nonostante seguisse le stesse regole formali dappertutto, non aveva gli stessi risultati formativi da una regione all’altra – ben al di là di quello che giustificherebbero le differenze nei contesti economici e sociali. Per fare un esempio, oggi in Italia tutti sanno che i migliori istituti tecnici e professionali sono nel Triveneto, e molte regioni guardano a quelle esperienze per cercare di migliorare. E’ a questo livello, sistemico, che l’informazione dei test standardizzati risulta imprescindibile per guidare il miglioramento.
L’Italia è il Paese col più alto tasso di alunni iscritti a percorsi di istruzione preprimaria. Questa condizione non dovrebbe però essere protettiva rispetto a fenomeni come dispersione e abbandono? Molti studi evidenziano che una scolarizzazione precoce, addirittura a partire dai due anni, dovrebbe facilitare il successo formativo futuro, e in Italia c’è già un disegno di legge che vuole rendere obbligatorio l’ultimo anno di scuola dell’infanzia.
L’Italia ha fatto bene a investire molte risorse nella scuola dell’infanzia. E’ stata una scelta lungimirante dei politici italiani, e alcune esperienze italiane – come le scuole materne di Reggio Emilia – godono di ampio riconoscimento internazionale. La scolarizzazione precoce tende a ridurre le disuguaglianze, poiché i suoi benefici sono maggiori per i bambini provenienti da contesti familiari più fragili, a cui oggi bisogna aggiungere oggi sempre più spesso le famiglie in cui l’italiano non è la lingua materna.
Sono convinto che in assenza di quest’investimento non ci sarebbe stata la riduzione della dispersione scolastica osservata fino alla fine degli anni 2000: tra il 2000 e il 2010, per esempio, il tasso di scolarizzazione dei 15-19enni è aumentato dal 72% all’83%.
Ciò non toglie che dal 2010 in poi, gli abbandoni abbiano registrato un nuovo, lieve aumento, credo legato soprattutto alla crisi e ai problemi della formazione professionale. Per dare un senso alla formazione professionale e motivare allo studio, serve un piano di rilancio dell’istruzione professionale. Occorre misurarne gli esiti formativi e lavorativi. Bisogna altresì sviluppare l’offerta di formazioni professionalizzanti nel post-secondario – con gli istituti tecnici superiori, per esempio – o nelle università, per favorire un orientamento positivo, e evitare cul de sac formativi. E infine, lavorare con le imprese e i distretti per creare percorsi di formazione iniziale e di aggiornamento professionale all’interno del sistema di istruzione spendibili sul mercato del lavoro, e che favoriscano la mobilità ulteriore dei lavoratori.
Abbiamo visto che cresce il numero delle laureate, nel 2012 sono state il 62% del totale dei nuovi laureati. A quali corsi di laurea risultavano iscritte? Quali fattori le sembrano possano aver favorito una simile impennata?
Nel 2012, su 100 nuovi laureati, 62 erano donne. Le aree di studio coi più alti tassi di laureate donne sono scienze della formazione (88%), lettere (75%), medicina (69%) e biologia (71%). Le aree più “maschili” sono informatica (25% di donne), ingegneria e architettura (40%) e fisica (42%), anche se spesso la proporzione di donne in queste aree tradizionalmente maschili è maggiore in Italia che in altri paesi.
Tra il 2000 e il 2012, la proporzione di donne tra i nuovi laureati è aumentata significativamente (era il 56% nel 2000). Non disponiamo di studi precisi, ma credo che se oggi le donne fanno studi più lunghi rispetto al passato – e anche rispetto agli uomini – ciò sia dovuto a fattori demografici e culturali. Ne cito due. In primo luogo, la riduzione della dimensione delle famiglie: le laureate di oggi sono spesso cresciute in famiglie in cui erano figlie uniche oppure avevano al più una sorella, in cui non c’era quindi tra i figli una distinzione tra ruoli maschili e femminili tradizionali. In secondo luogo, in Italia – anche per la difficoltà a trovare lavoro – ci si sposa e si crea una famiglia più tardi che negli altri paesi (e rispetto al passato).
Fare studi lunghi non è quindi in contraddizione con le nuove norme sociali per le donne. Infine, il fatto che le ragazze vadano meglio a scuola – e che i professori siano, anche alle superiori, in maggioranza donne – può essere stato un incoraggiamento a intraprendere gli studi più difficili e a completarli con successo.
Negli ultimi anni la spesa pubblica per l’istruzione nel nostro paese è diminuita, ma sono aumentati, soprattutto a livello di istruzione terziaria, gli investimenti privati. Sarebbe in linea con quanto avviene negli altri paesi mettere a sistema i contributi privati delle famiglie nella scuola pubblica?
Nella maggior parte dei paesi i contributi privati delle famiglie non sono una fonte significativa di finanziamento della scuola fino all’università. Così è anche in Italia, dove i contributi delle famiglie e delle imprese rappresentano meno del 4% delle risorse delle scuole (pubbliche), cioè meno di quanto le scuole spendono per servizi non educativi quali trasporto scolastico, medicina scolastica, vitto e alloggio di studenti. In altre parole, l’istruzione nella scuola pubblica in Italia è interamente finanziata con risorse pubbliche.
I pochi paesi in cui i finanziamenti privati nella scuola sono importanti rientrano in due casi. Primo, i paesi con un importante settore privato, che solo in parte è sovvenzionato direttamente (anche se talvolta le famiglie beneficiano di detrazioni fiscali): parliamo, principalmente, dei paesi anglosassoni. In secondo luogo, i paesi dove esiste un sistema duale di apprendistato e i datori di lavoro contribuiscono al suo finanziamento: rientrano in questo caso la Svizzera e i Paesi Bassi.
Permettere alle imprese di partecipare con le proprie risorse al finanziamento della formazione professionale può essere un modo per aumentare le risorse a disposizione della formazione tecnica e professionale e per assicurare un continuo adeguamento tra l’offerta di formazione e la domanda di lavoratori qualificati.