Avatar e profili social uccidono il Sè reale dell’adolescente e portano alla dissociazione. “Io voglio fare i figli. Certo, ma poi con i figli devi starci”, per fortuna c’è la scuola. INTERVISTA a Di Stanislao
“Il termine adolescenza deriva etimologicamente dal latino adolescere e significa crescere, avanzare verso la maturità. Proprio questo avanzare, nel senso di progredire, tendere verso qualcosa, pone l’adolescente in una particolarissima dimensione temporale, quella di un essere in divenire, alla continua ricerca di sé stesso, della propria identità e del proprio ruolo nel mondo. E se spesso nell’immaginario collettivo quello dell’adolescenza è un periodo che va soltanto superato, in attesa
di ciò che verrà dopo, esso rappresenta in realtà la fonte di molte delle caratteristiche future del soggetto, che si plasmano proprio durante questo tormentato capitolo della vita”. Questo scrive Massimo Di Giannantonio, Presidente della Società Italiana di Psichiatria, nella prefazione al libro Controvento, Riflessioni sull’adolescenza, scritto dallo psicologo e psicoterapista Augusto Di Stanislao. Un libro dedicato ai più giovani, agli adolescenti, ai ragazzi e nostre ragazze delle nostre scuole. Una generazione difficile e difficile da interpretare, specie se gli adulti cercano di interpretarla con i criteri ermeneutici propri dei “nostri tempi”. Dacchè ai nostri tempi, ben diverse erano la situazione sociale, quella personale, quella familiare, assai differenti erano i rapporti interpersonali e intergenerazionali. Ai nostri tempi non c’erano le tecnologie e i figli erano figli dei propri genitori mentre ora i figli, dice Di Stanislao, “sono figli dello smartphone”. I ragazzi, prosegue Di Stanislao – che insegna Psicologia dello sviluppo e dell’educazione all’Università dell’Aquila e Clinica dell’attaccamento alla scuola di specializzazione in Psicologia clinica – vanno in branco, ma in realtà si ritrovano ciascuno con il proprio dispositivo in mano e con la testa altrove. Fisicamente sono qui, in realtà sono magari in America o in un posto lontano, nel mondo dei sogni, salvo poi tornare in cameretta e vivere l’incubo di ciò che non c’è. “Il web – scrive ancora Di Giannantonio nella prefazione del libro Controvento – offre l’opportunità all’adolescente di fuggire dalla vita reale nascondendosi in un’individualità falsata in cui l’avatar e il profilo social vivono a discapito del vero Sè che rischia di diventare sempre più debole. Si può arrivare così a situazioni estreme come la trance dissociativa da videoterminale (che vede il susseguirsi di dipendenza, regressione e dissociazione con dispersione del sé e distacco dalla realtà), il fenomeno dell’hikikomori (dove spesso il mondo virtuale rappresenta per il soggetto l’unica finestra verso il mondo reale) e l’internet gaming disorder dominato e nutrito dal Sé digitale”. E poi vanno a scuola, questi ragazzi e queste ragazze. E a scuola rivivono con fragilità le ansie che trovano radice nella famiglia, nella società, nel gruppo dei pari, nel confuso rapporto con sé stessi. Ma la scuola, che ha fatto da supplenza e da sostegno per molto tempo a tanto disagio, deve tornare a fare la scuola – è questa la convinzione dell’autore Di Stanislao – altrimenti solleva i genitori dalle incombenze e dalle responsabilità cui spesso hanno abdicato durante il percorso difficile di crescita dei propri figli”.
Professor Augusto Di Stanislao, come stanno i nostri ragazzi?
“I nostri ragazzi sono soli e isolati . E i dispositivi, di cui godono, ancora di più li isolano. C’è un dato oggettivo che ci dice per esempio che i ragazzi non vanno insieme. Si trovano insieme ma ognuno va per conto proprio. Vanno in un parco o in un altro posto, si concentrano lì ma poi ognuno va per proprio conto, con il proprio mondo fantastico. Per cui loro sono qui ma in realtà sono collegati con tutto il mondo. Qui c’è solo la loro presenza fisica. Questo dovrebbe far riflettere, perché noi ci accorgiamo della loro presenza fisica, non passano inosservati. Tuttavia sono piccoli dentro e sono fragilissimi. Inoltre l’incapacità di un’interlocuzione con gli adulti è qualcosa di inquietante perché non c’è la possibilità di un’interlocuzione autentica. Ai miei tempi c’era poco vocabolario ma molta fisicità anche nel rapporto genitori e figli e magari se non si arrivava con le parole, a comprendere il senso di certi limiti da non superare, si arrivava con un sonoro ceffone che si consumava in quel momento. Il litigio, lo scontro generazionale finiva lì e ognuno tornava nel proprio ruolo. Il genitore sapeva di avere mandato un messaggio importante: si era superato il limite, oltre non si poteva andare. Dall’altro il figlio capiva che bisognava individuare degli altri momenti per trovare soddisfazione in quella fase. Io nell’esperienza con i ragazzi ho coniato un termine. Parlo di normalità strabica”.
Che cosa intende per normalità strabica?
“Intendo che siamo di fronte a una nuova normalità che però viene vista in maniera diversa, in cui c’è la normalità stereotipata, che è quella dei genitori, in cui si afferma il no e le regole, e dove si dice non fare, non uscire, non frequentare, non fumare. Dall’altra c’è la normalità dilatata, che è quella dei figli e degli adolescenti che al No rispondono con un Perché no? Alle regole rispondono con il libero arbitrio, e per loro questa normalità dilatata ha pochissimi confini e moltissime accessibilità: si può fare tutto a questa età. Infatti: perché non fare perché non frequentare perché perché non fumare? In questa comunicazione stanca e improduttiva c’è qualcosa che non funziona”.
Che cosa?
“E’ che i genitori narrano di una storia delle relazioni del passato, ma non lavorano sulla dimensione attuale del presente con una proiezione del futuro. Non accettano questa sfida, hanno delle argomentazioni che non sono contemporanee, per cui guardando nello specchietto retrovisore della propria adolescenza, sfuggono dalla realtà vera, che è quella nuda e cruda e questo che cosa determina? La rinuncia a creare dei punti di contatto che siano autentici e duraturi. Questo produce cinque momenti che rappresentano la reciproca distanza tra di loro: la rottura delle relazioni, l’incomprensione, la lacerazione degli elementi affettivi ed emotivi, una distanza che diventa sempre più incolmabile per cui i ragazzi trovano comprensione fuori dalla famiglia e tra i pari che spesso hanno degli anni in più, l’estraneità dai reciproci mondi”
Ma non è sempre stato così?
“No. Un tempo c’erano delle situazioni in cui i fondamentali venivano dati dalla famiglia. Educazione, rispetto degli adulti, un grosso bagaglio etico. Per cui succedeva che i figli non avrebbero superato una certa linea di demarcazione tra comportamenti pericolosi e non pericolosi. Oggi questi ragazzi sono figli degli smartphone, non dei genitori. E vedo genitori sempre più adultescenti e bonsai, perché sono all’altezza dei figli in quanto non riescono nemmeno loro a definire un percorso di crescita e di responsabilità”.
Perché succede questo?
“Perché gli stessi genitori non sono cresciuti e maturi abbastanza per dettare una linea educativa e valoriale. Questo perché c’è stata un questi anni una volontà di autonomia da parte loro. Hanno strappato la tela delle relazioni genitoriali dicendo ce la sappiamo cavare. Invece alla prova dei fatti hanno dimostrato tutta la loro inadeguatezza”.
C’entra la televisione in questo processo di regressione?
“Per questi genitori sì, perché si sono alimentati di un sogno americano di facile opportunità da cogliere per cui sono andati lancia in resta verso il futuro però portandosi dietro uno schema consumato: quello di dire: io voglio fare i figli. Certo, ma poi con i figli devi starci. Il paradosso qual è, per i genitori bonsai? Che sono due volte figli: sono figli dei propri genitori e sono anche inadeguati a gestire situazioni che richiedono la loro presenza. Per esempio quando si dice che i nonni sono genitori due volte lo si dice perché sono i genitori dei figli e dei nipoti, perché c’è una carenza oggettiva. Molti di questi genitori bonsai se uno li guarda non da lontano ci si accorge che vestono allo stesso modo, hanno lo stesso genere comunicativo, usano lo smartphone più dei figli. Se il genitore riprende il figlio che sta ancora davanti al cellulare o perché bisogna rientrare prima, tutto questo, oltre a non avere alcuna credibilità per il ragazzo, lascia lungo la crescita degli strascichi incredibili: i figli non si ricorderanno di un modello ma di genitori che urlano inutilmente. Non c’è dialogo perché i genitori non ce la fanno a reggere l’urto della sfida che sta venendo fuori: quella per la quale il ragazzo ti richiama a un ruolo che tu non riesci a interpretare, cioè che tu dica quali sono gli stili educativi, quali sono gli stili da seguire, come comportarsi. Ma se tu stesso genitore infrangi queste regole non sei credibile. Manca un riferimento credibile in termini di regole. E allora succede che l’adolescente non chiede più nulla ai genitori”.
Perché non chiedono più niente ai genitori se hanno un dannato bisogno di aiuto?
“Siccome non hanno più un punto di riferimento credibile non vogliono infierire sui genitori che non sono adulti e non maturi. Ne hanno bisogno, certo, ma a chi lo dicono? I genitori sono analfabeti funzionali che vanno a leggere del malessere dei loro figli su internet. Quando vedono i figli strani fanno due operazioni. Prima si confrontano con altre madri: ah, io non lo riconosco più. E’ evidente ed è normale che succeda di essere strani da adolescenti, ma molti non sanno quel che per i nonni era normale. Oggi sfugge di mano questa età che paradossalmente è un moto dell’anima. Loro d’altra parte, e formalmente, credono che i figli siano attrezzatissimi, ma in reltà sono un’altra cosa”.
Lei sostiene nel libro che sia stata data una delega in bianco alle tecnologie
“Stanno 24 ore su 24 sullo smartphone e fanno poche ore di sonno. La cosa assurda è che i genitori sono contenti quando i figli rientrano presto a casa. Però l’altro tempo lo passano in camera fino alle 3 o 4 del mattino sui dispositivi e poi alle 7 vanno a scuola. Non è che vai a chiedere come stai? Cosa fai? L’importante è che rientrino a quell’ora”.
Incomunicabilità totale
“Quando vanno fuori questi ragazzi vedono un mondo che sfugge totalmente alla lettura dei genitori. Io ho fatto un paragone a un gruppo di genitori che non volevano capire. Io ho detto che a questa età sono come una Ducati con i freni di una bicicletta: se volete capire capirete”.
Che cos’hanno risposto?
“Che anche noi le facevamo. Ma cosa? Qualche sbronza? Qui si è aperto un altro mondo che non possedete ma loro vi entrano e ne fanno parte. Se uno li vede… vanno in branco ma ognuno va con lo smartphone. Ognuno sulla panchina. Condividono uno spazio ma non un’idea che li tenga insieme”.
Che cosa li attrae dello smartphone, secondo lei?
“La possibilità di maneggiarli con estrema padronanza e poi perché lo smartphone li fa vivere in un mondo lontano che per loro è vicinissimo. Poi però, quando rientrano nella cameretta, inizia l’incubo. Là è tutto possibile qui non c’è nulla e tutto è impossibile”.
A sedici anni capita di sentirli parlare di bitcoin, di criptovalute, di guadagni facili…
“Loro ne parlano perché sembra che si sia in un centro commerciale, la vedono come una possibilità che c’è: tutto si può fare. Realtà e proiezione delle proprie aspettative vanno in un frullatore e loro pensano che tutto sia possibile e poiché qualche compagno o amico ha le possibilità di comprarsi quel che vuole spesso poi tornano a casa e vedono i genitori operai e dicono: che devo parlare con questi? Fino a un certo punto pensano che i genitori siano dei super eroi. Poi a 14 anni escono fuori e vedono che ci sono delle opportunità mentre a casa ci sono degli impedimenti. Allora i genitori cessano di essere dei supereroi e diventano persone deboli alle quali non si può chiedere nulla perché è caduto un mito”.
E’ terribile
“E’ la realtà. Se un genitore a Natale dicesse a un figlio ti regalo 200 euro, spesso si sentirebbe rispondere ma sei matto? Lo sai che c’è un mio amico che ne ha ricevuti 500? I genitori non riescono più ad avere credibilità perché non hanno disponibilità. Occorre parlare di depressione non si può parlare solo di smarrimento. Nella famiglia c’è una situazione depressogena per cui i genitori si sentono inadeguati e i figli si sentono sfortunati ad essere nati in una famiglia così. Non si tratta più di trovare degli affetti. O ti presenti con qualcosa di consistente, con dei regali sostanziosi o di che parliamo?”
Poi vanno a scuola e la scuola per fortuna li sostiene
“Nel mio lavoro di quest’anno credo di aver trovato una soluzione ai problemi dei ragazzi. La scuola ha fatto delle cose straordinarie, ha fatto supplenza ed è stata rifugio di ogni situazione di disagio familiare, relazionale, individuale e si è fatta carico di tutti questi bisogni ma la scuola non può continuare a fare questo. Altrimenti sgraviamo le famiglie da un compito familiare e non consentiamo alla scuola di fare quel che deve fare. Ci potrebbe essere una risposta a queste dinamiche che rimetta al centro l’adolescenza all’interno di una nuova idea di normalità. Io credo che la risposta sia la comunità educante all’interno della quale occorre mettere al centro dell’interesse le nuove generazioni dove ognuno si prende un pezzo di responsabilità laddove le famiglie, la scuola, il volontariato, l’associazionismo diffuso, l’università le imprese e le Asl producono un progetto educativo che ruoti intorno alle nuove generazioni. Parlo di comunità educante non parlo del termine sociale, non credo più al termine sociale. Io credo nella comunità: là ci sono tutti i soggetti che ho citato e che devono realizzare un progetto credibile per le nuove generazioni. Alternativa agli smartphone”.
Mica facile
“E’ più facile nelle piccole comunità, ma bisogna rilanciare il tema della comunità. Non è facile ma se non si comincia… Occorre iniziare con chi si ha e con chi ci sta. Io ho un manifesto con 10 punti su questo tema. Io ho lavorato nelle scuole medie e superiori. Ho presentato il mio libro e una mostra. Si parlava di adolescenza e di preadolescenza. E’ stato un successo incredibile di partecipazione di ragazzi, docenti e anche di genitori”.
Che cosa è emerso?
“E’ emerso il grande bisogno del confronto. Significa che l’adulto deve rimanere a fare l’adulto ma deve accettare il dialogo, non si deve confondere con i ragazzi e non si deve diluire con loro. Spesso dicono sempre di sì, pur di evitare altre problematiche. Da quello che ho visto io a scuola è emerso che i problemi dell’adolescenza bisogna affrontarli confrontandosi, poi bisogna capirli, questi giovani, ascoltandoli senza avere pronta la risposta. Loro vogliono essere ascoltati. Devono risolverli trovando soluzioni. Invece gli adulti rinviano le decisioni e prendono tempo e questi intanto cercano e trovano risposte sul muretto e chissà chi trovano sul muretto. Là dove c’è un’assenza c’è subito chi riempie quel vuoto”.
Qual è il rischio peggiore e qual è la cosa più brutta per i nostri ragazzi?
“E’ che brucino il loro tempo con le tecnologie. Non riescono a godere l’età della temerarietà, dell’osare, che è diversa dall’età dell’andare oltre continuamente: sono talmente bravi che riescono a trovare alcol e droga nel giro di un secondo. Spesso quando questi ragazzi si trovano in un posto, mentre prima qualcuno si ubriacava però alla fine della serata, ora succede che appena si arriva ci si ubriaca subito. Vogliono dimenticare tutto quel che hanno lasciato a casa. Lo so perché davanti a cinquanta ragazzi intervistati sembravo un matusalemne, ma io, dicevo, voglio capirvi. Tu devi avere il coraggio e lo stomaco di farlo. Se tu hai voluto i figli devi discutere e farti male con i tuoi figli, parlandoci, altrimenti i figli si faranno male al di fuori dalla famiglia”.
Entriamo a scuola. Che idea si è fatta del loro rapporti con i professori?
“Molti dei docenti sono disperati perché dicono che gran parte del tempo lo devono impegnare per fronteggiare i problemi di carattere psicologico e di ansia. Io sono dalla parte degli inseganti e discuto sempre di questo con i genitori. L’unica cosa che fanno è recriminare sul singolo professore o professoressa ma non si pongono il problema di che cosa portano i loro figli a scuola. No, mio figlio studia, dicono. Ma che studia? Non lo conosci. Una volta si diceva di noi che eravamo dei libri aperti per i genitori. Ora i figli sono dei libri chiusi perché non c’è nessun dialogo e nessun genitore chiede come sia andata la giornata: nessun genitore fa la prima domanda, la più importante: sei felice? Né la seconda domanda: Stai bene in questa famiglia? E neppure la terza: Ti stanno bene questi genitori? Eppure, con queste domande, metteresti un pallone nel loro campo. Magari non risponderebbero, però dentro la loro testa e il loro cuore comincerebbero a farsi delle domande a loro volta. Non sono stupidi ma non sono sollecitati a usare la loro intelligenza e la loro maturità.
Qualsiasi problema abbiano, glielo rimuovono subito. Non gli fanno neppure gettare la spazzatura. E invece: tu vuoi da me? E io voglio da te. Io voglio che tu studi poi ti faccio fare quello che vuoi: una cosa devi fare: devi andare bene a scuola, solo questo. Mi chiedi dieci cose e io te ne chiedo una. Se non fai una cosa non puoi aver un’altra cosa. Bisogna dare e avere. Per ricevere devi dare. Eppure non si fa. I ragazzi peraltro sono bravi a triangolare i genitori. Che se non hanno un progetto educativo è facile che vadano da uno e poi dall’altro e spesso succede che o il padre o la madre faccia qualcosa che l’altro non sa e questa è una cosa gravissima. Non dire nulla alla mamma o non dire nulla al papà. A quel punto la genitorialità è finita.”
Si dice che sia una generazione anaffettivà. Se lo è, perché lo è?
“Per un motivo semplice: perché l’affetto lo deve dare per primo il genitore, non il figlio. Devono essere i genitori a far sentire l’affetto, dentro delle regole. E’ reciproco, l’affetto, ma deve partire dall’adulto non dal piccolo, altrimenti l’adulto che cosa lascia ai ragazzi? Un adulto che non crea emozioni nel contesto intergenerazionale non insegna come si fa questo ai ragazzi. Ora i genitori pur di non far trovare i figli in qualche problema si sostituiscono a loro, da gettare la spazzatura fino a giustificare i figli che non fanno nulla”.
Professor Di Stanislao, torniamo a scuola. Lei crede sarebbe importante la presenza, nelle aule, di un pool di psicologi per aiutare questi ragazzi e un po’ anche i docenti?
“Assolutamente si. E guardando oltre, in prospettiva, bisogna pensare a mettere in campo delle competenze trasversali. Per ora vedo lo psicologo al sevizio della scuola, non di portatori di problemi. Una professionalità che lavori su dinamiche, relazioni e comportamenti in un’ottica sistemica”.