Scuola e autonomia differenziata, la Costituzione pone limiti? Ecco perché rischiamo di ampliare i divari tra Nord e Sud
È tornato d’attualità il dibattito sull’autonomia differenziata. Le proposte avanzate da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per ottenere una maggiore autonomia su alcune materie e la proposta di legge presentata dal Ministro Roberto Calderoli hanno acceso una discussione pubblica sul tema.
Il fondamento delle richieste avanzate dalle tre regioni del Nord è l’art. 116 della Costituzione, così come riformato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001 (riforma Titolo V Costituzione), in cui è prevista la possibilità di attribuire alle Regioni, con legge ordinaria, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’art. 119″. La questione è alquanto complessa, soprattutto alla luce della riforma del Titolo V del 2001, che ha differenziato la potestà legislativa in tre forme:
- esclusiva dello Stato, con un’elencazione tassativa delle materie;
- concorrente tra Stato e Regioni, in cui spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato;
- esclusiva delle Regioni, in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato.
Il citato art. 116 della Costituzione, oltre a riconoscere le autonomie delle 5 Regioni a statuto speciale, prevede che le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, soltanto per alcune materie. In particolare, si tratta delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni (art. 117 comma 3) e le materie (di competenza esclusiva dello Stato) riguardanti l’organizzazione della giustizia di pace, le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali.
Gli accordi preliminari
Le tre Regioni del Nord hanno intrapreso la strada dell’autonomia differenziata a partire dal 2017, quando hanno avanzato l’iniziativa di ottenere le “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” previste. Nel febbraio 2018, dopo la sottoscrizione di tre accordi preliminari con il Governo, di durata decennale e riguardanti 4 materie (istruzione, politiche del lavoro, salute e ambiente), il negoziato è proseguito ed è stato ampliato il novero delle materie di cui hanno richiesto il trasferimento della potestà legislativa. Le tre iniziativa, tuttavia, si differenziano per un dato centrale: infatti, mentre l’Emilia-Romagna e la Lombardia chiedono che vengano regionalizzate le materie oggetto di accordo preliminare con il Governo, il Veneto ha alzato il tiro. In particolare, in materia di istruzione, gli accordi preliminari prevedono una maggiore autonomia delle Regioni:
- nella programmazione dell’offerta di istruzione regionale, definendo la relativa dotazione dell’organico e l’attribuzione alle autonomie scolastiche attraverso un Piano pluriennale adottato d’intesa con l’Ufficio Scolastico Regionale, fermo restando l’assetto ordinamentale statale dei percorsi di istruzione e delle relative dotazioni organiche;
- nell’integrazione degli organici con posti in deroga ai sensi della normativa in vigore in tema di contratti a tempo determinato attraverso la costituzione di un fondo regionale;
- nella creazione di un sistema integrato di istruzione professionale e di istruzione e formazione professionale, anche attraverso l’utilizzo delle dotazioni organiche aggiuntive a seguito dell’istituzione del fondo regionale;
- nella competenza a definire l’organizzazione delle fondazioni ITS per lo sviluppo delle relazioni fra autonomie scolastiche e formative, istituzioni universitarie e sistema delle imprese, stabilendo specifici standard organizzativi e gestionali, d’intesa con l’USR.
Al fine di realizzare tale progetto, ciascuna Regione si dovrà dotare di un fondo apposito per il diritto allo studio e per l’edilizia scolastica, in cui confluiranno, sulla base della determinazione di un’apposita Commissione paritetica Stato-Regione, le risorse derivanti dal “gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale, dalla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione riferita alle funzioni trasferite o assegnate, di fabbisogni standard, […] determinati entro un anno dall’approvazione dell’intesa e che progressivamente, entro cinque anni, dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi”.
Il Veneto ha, invece, ampliato la propria richiesta, chiedendo il trasferimento di competenza su 23 materie. In particolare, per quanto riguarda l’istruzione, ha richiesto l’autonomia anche per le competenze amministrative e legislative in materia di programmazione dell’offerta formativa scolastica, compresi i percorsi di alternanza scuola-lavoro, e dei CPIA, l’orientamento scolastico, la valutazione del sistema educativo regionale, l’assegnazione dei contributi alle scuole paritarie, i fondi per il diritto allo studio e la gestione del personale della scuola e dell’uffici del Ministero presenti sul territorio veneto.
“Una proposta rivoluzionaria – si legge nel documento redatto dalla Gilda Nazionale degli Insegnanti – che decostruisce il sistema unitario di organizzazione del sistema di istruzione nel nostro Paese, […] che punta a trasformare la scuola in una organizzazione simile al sistema sanitario regionale con aziende autonome di gestione territoriali con a capo spesso manager non competenti nel campo sanitario. In più, solo nel caso Veneto, si fa riferimento nel titolo delle materie da devolvere a “Norme generali sull’istruzione – Istruzione” che potrebbe nascondere una volontà di organizzare autonomamente anche i contenuti dell’offerta formativa e la loro applicazione”.
La proposta di legge Calderoli
L’idea alla base della proposta di legge sull’autonomia differenziata è l’applicazione del principio sancito dall’art. 116 della Costituzione (“ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”). A tale scopo, la bozza del disegno di legge prevede che il trasferimento delle competenze legislative e amministrative e delle risorse corrispondenti potrà avere luogo soltanto a seguito della definizione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP), che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Per livelli essenziali delle prestazioni (LEP) si intendono i livelli di accesso e di fruizione dei servizi oggetto di trasferimento di potestà legislativa e amministrativa che dovranno essere garantiti nei territori regionali. La definizione dei LEP, tuttavia, non è stata ancora effettuata, ma è demandata, secondo quanto affermato nella bozza del disegno di legge, ad apposito DPCM, da emanare entro 12 mesi dall’entrata in vigore della legge stessa. Decorso inutilmente tale termine, “si provvede con atto avente forza di legge”. Inoltre, l’art. 4 della bozza del DDL prevede, in materia di risorse finanziarie, che il criterio della spesa storica (più volte citato, anche dallo stesso Ministro per i Rapporti con il Parlamento, Luca Ciriani, come strumento di equilibrio nell’erogazione di risorse finanziarie tra le regioni, in attesa della definizione dei LEP) sia superato “a regime con la determinazione dei costi standard, dei fabbisogni standard e dei livelli di servizio cui devono tendere le amministrazioni regionali […] i costi standard e i fabbisogni standard sono determinati dalla Commissione tecnica per i fabbisogni standard di cui all’articolo 1, comma 29, della legge 28 dicembre 2015, n. 208, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge”. La bozza precisa, poi, che le modalità di finanziamento delle competenze legislative e delle funzioni amministrative siano individuate dalle Regioni tra “i tributi propri, le compartecipazioni o la riserva di aliquota al gettito di uno o più tributi erariali maturati nel territorio regionale“.
Se è vero che il criterio della spesa storica e della spesa standard potrebbe non inficiare i livelli di trasferimenti di risorse finanziarie dallo Stato alle Regioni, la riserva di aliquota del gettito fiscale, legata all’erogazione dei servizi di istruzione (attualmente il 90% è a carico dello Stato), causerebbe forti disuguaglianze tra le Regioni, a svantaggio di quelle meno produttive, in ragione della mancata redistribuzione sul territorio nazionale del gettito fiscale.
L’interpretazione della Corte Costituzionale degli articoli 33, 34, 116 e 117
Rimarrebbe ancora irrisolta una questione giuridica di rilevante importanza. Infatti, dall’approvazione della legge costituzionale n. 3 del 2001 di riforma del Titolo V, la Corte Costituzionale è intervenuta più volte a specificare il valore costituzionale dei principi sanciti negli articoli 33, 34, 116 e 117, anche in materia di istruzione.
Come spiega Roberta Calvano (Professoressa di Diritto Costituzionale presso l’Università degli studi di Roma Unitelma Sapienza) in un articolo apparso nella rivista giuridica “Questione giustizia” (n. 4 del 2019), la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 200 del 2009, ha inteso ribadire che “il legislatore costituzionale avesse assegnato «alle prescrizioni contenute nei citati artt. 33 e 34 valenza necessariamente generale ed unitaria che identifica un ambito di competenza esclusivamente statale», rappresentando «la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario ed uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell’istruzione (interesse primario di rilievo costituzionale)»”.
Inoltre, l’articolo chiarisce come la sentenza n. 200 del 2009 della Corte Costituzionale abbia tenuto conto dell’individuazione di limiti all’intervento in materia di istruzione da parte delle Regioni nel caso di attivazione della procedura per l’attribuzione dell’autonomia differenziata. “Il ben noto quadro del regionalismo italiano, disegnato dai Costituenti e poi integrati dalla riforma del Titolo V, ritagli, nella regola dell’attribuzione di competenze alle Regioni ordinarie, una deroga, nel senso di un accentuarsi di tale autonomia (salvo il sorpasso poi avvenuto per l’imperizia del legislatore del 2001), che riguarda cinque sole Regioni, quelle a statuto speciale. La deroga può ulteriormente estendersi poi, da un punto di vista soggettivo, con l’attivazione di […] una sorta di sottospecie minore della specialità, ovvero l’autonomia differenziata”.
Ciò significa che l’autonomia differenziata non può tradursi in una completa devoluzione di ogni competenza alle Regioni, né superare, per ampiezza (di materie) e intensità (di poteri) l’autonomia attribuita alle Regioni a statuto speciale. Il dettato costituzionale, in effetti, pare chiaro: nel definire “particolari” le “forme e le condizioni” dell’autonomia, si riferisce “alle particolari esigenze del contesto socio-economico del territorio regionale. […] A ritenere diversamente, – prosegue la professoressa Calvano – ci troveremmo dinanzi all’assurdo per cui la norma designerebbe prima l’autonomia delle cinque Regioni a statuto speciale, per poi prefigurare Regioni ordinarie suscettibili di ottenere – tramite una fonte rinforzata, ma pur sempre di rango primario, in deroga ai commi 2 e 3 dell’art. 117 – una specialità ancora più ampia di quella prevista dal primo comma dell’art. 116, e questo in un quadro già reso complesso dall’avere la riforma del Titolo V prodotto un travalicamento, in alcuni ambiti, dei confini delle competenze delle Regioni ordinarie su quelle speciali“.
Emergerebbero, allora, profili di criticità legati sia alla redistribuzione delle risorse finanziarie sul territorio nazionale, sia al rispetto delle norme costituzionali e della loro interpretazione, sia al dumping salariale, considerando la regionalizzazione del rapporto di lavoro dei docenti e del personale ATA. Una proposta di riforma (o, come affermano i sostenitori dell’autonomia differenziata, di applicazione dell’art. 116 Cost.) fortemente osteggiata, sia da parte dei sindacati sia del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, che ha già avviato l’iter per presentare una proposta di legge popolare di modifica degli articoli 116 e 117 della Costituzione al fine di porre un argine all’autonomia differenziata.