App TikTok e l’utilizzo inconsapevole da parte dei giovani

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Leggerezza e divertimento, queste dovrebbero essere le parole chiave per descrivere i social. Dovrebbero essere uno strumento per passare il tempo, per condividere contenuti e sorridere insieme agli amici. Invece, troppo spesso, si tramutano in qualcosa di allarmante e difficile da controllare.

I social utilizzati dai giovani (e non solo) ormai li conosciamo tutti, da Facebook a Instagram; ma c’è un’altra app che già da diverso tempo ha preso piede tra i ragazzi: parliamo di TikTok. Sicuramente la possibilità di raccontare le proprie storie, il proprio vissuto con un sottofondo musicale o con qualche balletto ha catturato l’attenzione dei più. Ma perché, nonostante la natura leggera del social, c’è anche chi lo utilizza per descrivere episodi tristi? Perché molto spesso i ragazzi compiono gesti dettati dall’impulsività e dal mancato giudizio critico. Oggi, più che mai, i nostri figli sentono il bisogno di documentare e postare tutto ciò che li riguarda sui canali social.

Ma, tornando alla necessità di raccontare anche episodi personali non felici, ricordiamo che molto spesso dietro questo racconto si cela un meccanismo di difesa, un modo per sdrammatizzare quanto accaduto. Il fatto di renderlo noto al mondo intero e di poter scegliere la modalità con la quale condividerlo fa sentire la persona padrona di ciò che è accaduto. Una sorta di distanziamento dalla triste realtà. C’è anche un altro punto da valutare, quello di creare un “contenimento” da parte degli altri, attraverso la ricerca continua di sostegno emotivo. Pubblichiamo una cosa triste in attesa che gli altri ci mostrino solidarietà, supporto sociale. Del resto è abbastanza scontato che quando, scorrendo i social, compare davanti a noi una storia triste, anche se pubblicata da perfetti sconosciuti, si scateni in noi dispiacere. Soprattutto argomenti come la nascita e la morte, sono due emozioni che emotivamente non ci possono lasciare indifferenti, e, di conseguenza, viene quasi spontaneo esprimere la nostra vicinanza. Del resto, la tecnologia è basata sull’impulsività, sulle emozioni. Quindi se incontri un qualcosa che ti colpisce, che genera in te una forte emozione, tu d’impulso rispondi. In molte occasioni, la risposta social vuole essere un’alternativa a una mancanza di vicinanza, dettata dalla distanza fisica oppure anche dalla mancata conoscenza reale di quella persona. Ad esempio, vorrei abbracciarti in questo momento ma non posso, allora ti mando un cuore oppure metto un like alla tua storia.

L’identità dei ragazzi è fragile. Non riescono più a raccontare attraverso le parole ciò che provano. Lo fanno attraverso le immagini. Hanno bisogno di essere riconosciuti e tentano di mostrare attraverso i canali social una parte di loro che può identificarsi con il sogno di un altro ragazzo della loro età. Ecco perché dobbiamo tornare quanto prima a conoscere davvero le loro emozioni. E questo si fa ricominciando dalla parola, dal confronto, e con l’interesse da parte degli adulti.

Quando postiamo qualcosa su un canale social, a maggior ragione, se si tratta di un vissuto personale difficile, mi aspetto sempre di ricevere solidarietà dagli amici online, attraverso una loro risposta. Tutto questo crea un meccanismo compulsivo. Mi aspetto sostegno anche perché non concepisco come qualcuno possa ignorare un qualcosa che io ritengo importante.
Ricordiamo, però, che chi posta deve partire dall’idea che non sempre raggiungerà lo scopo che aveva idealizzato, per questo è importante la consapevolezza digitale, dare il giusto peso alla tecnologia e non trattarla come se fosse un gioco. Chiediamo ai ragazzi cosa si aspettano una volta che hanno pubblicato un post o un video, non lasciamoli da soli dietro a uno schermo. Interessiamoci alla loro vita online, aiutiamoli ad attivare il pensiero critico e non stanchiamoci di invitarli a irrobustire l’empatia.

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