Ansia da voti? Sintomo di altre difficoltà che non si cancella eliminandoli. Stop a psicologismi falsi e superficiali”. INTERVISTA a Luca Malgioglio (Agorà 33)

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“Circola nelle discussioni sulla scuola un pessimo buro-pedagogese, cioè un uso strumentale della pedagogia chiamata a giustificare a posteriori “riforme” o interessi di vario tipo a mettere le mani sulla scuola. Lo fa attraverso slogan che hanno l’apparenza della psicologia non avendo nulla di psicologico. Per questo il nostro gruppo è nato anche con l’intento di riportare un’autentica psicologia nel discorso sulla scuola. La psicologia – pensiamo alla profondità della psicoanalisi – ha infatti un forte potenziale demistificante, di verità, rispetto a psicologismi o pedagogismi alla moda, quelli delle formule sulle “soft skills” e l’intera retorica delle “competenze”, che si mostra sotto veste psicologistica ma in realtà ha le radici nell’ideologia economicistica del “capitale umano”, oppure su tutte le stupidaggini sull'”orientamento

Luca Malgioglio è uno dei fondatori del gruppo “Agorà 33. La nostra scuola”. Ha 52 anni, insegna Lettere al Liceo delle scienze applicate dell’IIS Di Vittorio – Lattanzio di Roma.

“Quella che passa per psicologia – insiste Malgioglio – non è psicologia, e certo la psicologia non coincide con la medicalizzazione. La medicalizzazione è quella di diagnosi standardizzate e burocratizzate, che troppo spesso diventano automaticamente certificazioni, etichette. Ecco, la psicologia fa esattamente il contrario: cerca di chiarire chi sono gli studenti che abbiamo di fronte, quali sono i loro vissuti interiori, quali sono le dinamiche che vivono alla loro età. Un approccio psicologico ad esempio ci dice che le diagnosi e le etichette – soprattutto con gli adolescenti – possono essere dannose proprio per motivi psicologici: l’adolescente, nella sua confusione, è alla ricerca di un’identità, e pur di uscire dalla confusione è disposto ad appropriarsi di qualunque identità gli venga proposta dall’esterno, dal gruppo o dagli adulti – della cui parola spesso si fida più di quanto sia disposto ad ammettere – anche se negativa: il cattivo, il depresso, l’iperattivo…

Un’identità negativa è comunque più rassicurante di nessuna identità: “Non è un caso se sentiamo nostri studenti dire quasi con soddisfazione: “Sono un DSA, o un BES”. Ed è per questo che gli insegnanti dovrebbero stare molto attenti a non rimandare agli studenti conferme di una identità precostituita – magari negativa – a cui gli studenti si possano attaccare. Nei gruppi con il dott. Zammarelli abbiamo parlato dello stereotipo per cui lo psicologo è quello che fa le certificazioni perché lo studente non sia bocciato. In realtà uno psicologo ben preparato sa che dire che una persona dev’essere promossa perché malata può in alcuni casi essere addirittura dannoso, proprio perché conferma lo studente nell’idea della sua identità di malato. La psicologia non ha soluzioni preconfezionate, valide per tutti. Questo è un esempio di collaborazione tra psicologia e insegnamento”.

Ma i campi “in cui si è affermato uno psicologismo falso e superficiale, che andrebbe demistificato con strumenti psicologici e psicoanalitici”, prosegue Malgioglio, “sono tanti: penso agli argomenti pseudo psicologici usati per spingere all’abolizione dei voti. C’è chi fa diagnosi sulle motivazioni dell’ansia senza essere psicologo, mentre si ignora il fatto che l’ansia eccessiva di fronte a un voto è sintomo di altre difficoltà che andrebbero approfondite. Invece qui si vorrebbe nascondere il problema sotto il tappeto abolendo i voti. Senza contare che, specie per gli adolescenti, che vivono un periodo di grande confusione, l’eliminazione di un’indicazione chiara e sintetica che accompagni la spiegazione di quello che va e quello che non va rischia di aumentare il disorientamento”.

Non solo voti. Un altro esempio, secondo Malgioglio, è quello delle competenze non cognitive. “Chiunque mastichi almeno un po’ di psicologia – precisa il professore – sa che buona parte del lavoro di uno psicoterapeuta consiste nel far prendere consapevolezza alle persone di quello che sentono e di quello che pensano, magari senza rendersene conto. Qui si vorrebbe il contrario: trasformare cioè il pensiero in addestramento all'”adattabilità”, all'”affidabilità”, alla “resilienza”. Ma tutto il discorso delle competenze in realtà punta all’addestramento e alla riduzione del pensiero dentro schemi predeterminati”.

Altro argomento cruciale è quello dell’orientamento. Prosegue Malgioglio: “Adesso ci sono gli orientatori, il cui lavoro in teoria va a toccare aspetti psicologici – quello delle attitudini e delle propensioni ancora in piena formazione e delle scelte – su cui non hanno alcuna preparazione. In realtà l’unico orientamento legittimo sarebbe quello che aiuta le persone a capire ciò che davvero vogliono: ma questo non può assolutamente farlo una persona che non sia seriamente preparata alla professione di psicologo, non in grado di distinguere le proprie proiezioni e le proprie fantasie sull’altro da ciò che l’altro realmente è; nel caso delle persone in crescita, non in grado di rendersi conto di quanto gli adolescenti tentano di adeguarsi alle aspettative dell’adulto, per compiacerlo – infine, l’argomento fondamentale dell'”apprendimento autonomo”, che significa in realtà mettere gli studenti davanti ai device, per venire incontro agli interessi delle aziende del digitale”.

Chiunque abbia una preparazione psicologica, ma anche chiunque abbia a che fare in modo continuativo con bambini e adolescenti, prosegue Malgioglio, “sa quanto sia grande il loro bisogno della relazione umana, con gli adulti e con i coetanei. E sa anche che dalla qualità di questa relazione dipende una parte fondamentale degli apprendimenti: si studia per l’insegnante. Apprendimento autonomo in questo senso significa rifiuto di prendersi la responsabilità faticosa di istruire e di educare e, nei casi peggiori, la svendita dei giovanissimi a interessi economici devastanti.

Il gruppo “Agorà 33 – La nostra scuola” ne ha anche per “l’insegnante facilitatore e oggi anche orientatore, che deve evitare accuratamente di insegnare qualunque cosa: da dove arriva questa idea? Basta prendere una teoria parziale come quella di Rogers – nata in un altro ambito, quello psicologico, dove pure è tutt’altro che indiscutibile, in un altro contesto, in un’altra epoca storica, per rispondere ad altre necessità – e applicarla immediatamente, per giustificarne lo smantellamento, alla realtà scolastica che c’è, fondata su una relazione intergenerazionale di cui le persone in crescita hanno un grandissimo bisogno e su un lavoro comune, strutturato e progressivo sulle conoscenze, che bambini e adolescenti non possono compiere da soli. È così che l’ideologia prende il posto della realtà ed è così – sulla base di formule di quarta mano ripetute pappagallescamente come assiomi, senza passare per il pensiero e l’esperienza concreta – che formatori che non hanno mai messo piede in una classe, e forse nemmeno in una libreria, vorrebbero spiegare agli insegnanti come si insegna; o meglio, che non devono più insegnare. Secondo Rogers lo sviluppo della personalità è autorealizzazione. Perché ciò avvenga Rogers sostiene che l’insegnante, l’educatore, il terapeuta debba essere fondamentalmente un facilitatore, che accetta pienamente il cliente – il discente, lo studente, il paziente – ed instaura con lui un rapporto empatico che permette alla persona di lasciar fluire emozioni e stati d’animo. Secondo la Pedagogia non direttiva di Rogers, è necessario un cambiamento nel ruolo di chi insegna, che deve in prima istanza cambiare in modo radicale il proprio approccio della didattica. Alla base del pensiero di Rogers vi è l’idea che nulla ‘può essere insegnato’ ma solo autonomamente appreso. Pertanto, il ruolo dell’insegnante è quello di essere un implementatore delle risorse autonome del fanciullo, che spingono all’autoapprendimento. Sostanzialmente, l’insegnante, il facilitatore, è una figura che non impone la conoscenza, non svolge delle semplici lezioni salendo in cattedra, cioè mettendo una distanza fra chi sa e chi deve imparare”.

Professor Luca Malgioglio, la pedagogia è dunque sul vostro banco degli imputati?

“La pedagogia è un termine molto ampio. Ciò che non mi piace è che esista la pedagogia. Quando qualcuno dice: io incarno il progresso pedagogico, quasi si trattasse di una scienza esatta, sta trasferendo nelle scienze umane la caratteristica delle scienze naturali, quella cioè di essere ripetibile. Nelle scienze umane, in realtà, ogni relazione educativa è un caso a sé. La pedagogia è fondamentale, sia chiaro, ma dev’essere incarnata in una situazione concreta altrimenti la teoria non corrisponde alla realtà che viviamo nelle scuole. Noi non rifiutiamo la pedagogia, ogni volta che entriamo in aula e ci rapportiamo con i nostri studenti quella è pedagogia. Però un eccessivo scollamento tra teoria e realtà scolastica fa male. L’altra questione è che tutte le scienze umane comprese quelle che hanno a che fare con l’educazione si fondano su un confronto tra interpretazioni diverse e questa è una ricchezza. Dire: io possiedo la verità ultima è dannoso perché significa che si smette di ragionare: se c’è una realtà oggettiva che qualcuno ha scoperto allora non c’è più bisogno di pensare”.

C’è questo rischio?

“Lo vedo quando qualcuno si presenta come depositario della verità. Quando si dice che ci sono realtà oggettive e non delle idee c’è il pericolo del non pensiero, della setta, del pensiero settario”.

A cosa si riferisce? A chi si riferisce?

“Parlo in generale. Credo valga per tutti”.

Pedagogia no, psicologia sì?

“C’è poca collaborazione. Il nostro gruppo era nato con l’idea di rimettere insieme insegnamento e psicologia con l’obiettivo di conoscere meglio chi abbiamo di fronte: noi lavoriamo con persone che attraversano età delicate, occorre capire come sono fatte, quali dinamiche affettive vivono, anche perché questo ha molto a che fare con la motivazione allo studio. Se conosciamo i nostri studenti possiamo appassionarli allo studio, capendo cosa di più li colpisce e li cattura. Io sono abbastanza stupito del fatto che fino a 30 anni fa c’era molto interesse per la psicologia dell’età evolutiva e della psicoanalisi, si dava per scontato che fosse importante a scuola. A me sembra che oggi si parli di cose che con la psicologia non abbiano nulla a che vedere e che sia scomparsa dall’orizzonte del dibattito sulla scuola e sull’educazione”.

Da che cosa è stata sostituita la psicologia a scuola?

“La psicologia e il pensiero psicoanalitico sono stati sostituiti oggi dalla retorica delle skills. Una retorica che non va a vedere com’è fatto davvero l’individuo ma standardizza l’essere umano riducendolo a tutta questa questione delle skills, toglie valore anche all’unicità delle persone. Anche perché questa retorica delle competenze non appartiene al pensiero educativo ma a quello dell’economia e dell’azienda. E’ molto forzato adeguare questa ideologia a quelle che poi sono le relazioni scolastiche vere, a quello che succede in classe che è sempre nuovo e in parte imprevedibile. Si perde di vista l’unicità della persona e una certa dose di imprevedibilità. Quando lavoriamo sulle conoscenze noi non siamo in grado di sapere del tutto cosa poi utilizzeranno quelle conoscenze gli studenti: c’è una certa imprevedibilità nell’istruzione e nell’educazione. Noi diamo dei saperi e poi le persone le usano a seconda delle necessità, le rielaborano”.

Il vostro gruppo è molto critico verso le diagnosi per Dsa e Bes

“Le diagnosi – sia chiaro – non possono essere messe in discussione. Tuttavia, nell’usare le categorie occorre di sicuro stare un po’ attenti e di questo abbiamo parlato spesso nel nostro gruppo. Se una persona in crescita si identifica troppo con un problema il rischio è che i problemi si aggravino. Certamente le diagnosi servono ma andrebbero date in modo tale da non essere trasformate in etichette. Ci vorrebbero anche delle diagnosi date con più tempo”.

Diagnosi poco attente?

“L’attenzione ce la mettono, il problema è che non c’è tanto tempo per fare una diagnosi corretta e servirebbero più risorse nel campo della diagnosi e delle difficoltà, anche per evitare che una difficoltà temporanea, magari un semplice momento difficile per una ragazza o un ragazzo, diventino una difficoltà stabile. Il tema è ancora una volta quello delle risorse. Che spesso vengono usate in ambiti meno utili”.

Dite che i formatori vorrebbero addirittura che i docenti non insegnassero. E’ proprio così?

“Più che aiutare a riflettere sull’insegnamento in certi corsi si danno ricette. Il problema è quello di una semplificazione della realtà che per sua natura è complessa. A scuola le ricette non vanno mai bene perché si ha a che fare con situazioni diverse. Se poi queste ricette vengono date da persone che non hanno il polso della situazione scolastica la cosa è ancora peggiore. Da quello che sento succede anche questo”

Che cosa in particolare?

“Che ci siano corsi tenuti da persone che fanno discorsi che a propria volta fanno capire che chi li fa non ha chiarissime le dinamiche di ciò che accade in classe. Ovviamente anche qui la situazione è variegata, nel senso che esistono anche degli ottimi corsi ottimi.

Avete contestato anche le esperienze di abolizione dei voti numerici che in varie scuole sono stati sostituiti da giudizi descrittivi. Perché?

“In generale ciò che non ci piace è la schematicità, anche in questo caso. Non si può dire che i voti facciano male senza specificare in quali situazioni vengono assegnati, a che scopo, in che modo”.

Vorrei capire meglio. Se c’è un insegnante che si prende la briga di dedicare tempo per redigere una relazione descrittiva ogni volta che interroga uno studente e la consegna al ragazzo e alla famiglia, facendo il punto su ciò che sta andando bene e su ciò sui cui occorre insistere, invece che limitarsi a dare un voto numerico, quali problemi creerà mai questo insegnante?

“In tanti anni di insegnamento non ho quasi mai visto voti dati senza che fossero accompagnati da una descrizione. A volte ci sono anche troppe griglie che riducono molto gli arbitri. Siccome il voto è uno strumento, quel che è sbagliato è dire che è uno strumento dannoso in sé, semmai è dannoso qualora venga usato male: se io do un 2 senza dare un’indicazione o un incoraggiamento quello è sicuramente un voto dannoso. Non lo è invece quando è assegnato con tatto, come sintesi di un discorso che non deve mancare, come indicazione su cosa migliorare, come sintesi un po’ più chiara sullo stato delle conoscenze che uno studente ha”.

E’dunque, quello dell’abolizione del voto numerico, un non problema?

“No no, è un problema tutte quelle volte che il voto è usato male. Quindi occorrerebbe semmai concentrarsi su quale sia un uso buono del voto. Anche sui voti intermedi, abolirli non muove il problema: lo spinge solo in avanti. Quando penso ai voti penso ai voti in funzione positiva, come incoraggiamento e quindi il nostro scopo è permettere a tutti di raggiungere dei risultati scolastici apprezzabili, però a volte per farlo occorre dare un’informazione precisa su cosa al momento non va. E gli stessi ragazzi lo vogliono sapere”.

I ragazzi o anche i bambini?

“Non mi esprimo per la primaria però sento dai miei colleghi maestri del gruppo che il discorso sulla valutazione nella primaria è più complesso. Ad esempio, nel suo libro “I livelli di scuola”, di cui consiglio la lettura, l’autrice Daniela Di Pasquale sostiene che la valutazione per quattro livelli di competenza, standardizza, banalizza la valutazione e vengono date delle valutazioni che i bambini non riescono mai a comprendere e spesso neanche le famiglie. Per gli adolescenti con cui lavoro la spiegazione di come lavorare meglio, sempre in ottica di incoraggiamento e mai in ottica stigmatizzante, è molto importante. Però poi per l’adolescente, che è una persona in fase di confusione, l’indicazione sintetica del voto è molto utile, se si lavora bene tra il voto che si dà e i discorsi sul lavoro che si svolge si può creare una buona sinergia”.

Resta il fatto che il docente che dà un voto ha una grande responsabilità. Ne è sempre cosciente secondo lei?

“Gli insegnanti dovrebbero avere sempre consapevolezza della responsabilità che hanno nell’assegnare il voto perché è importante indicare che qualcosa debba essere migliorato. L’insegnante che dà un voto negativo deve sentire la necessità di segnalare allo studente che il lavoro e l’impegno vadano migliorati e spiegando anche come. L’obiettivo del lavoro dell’insegnante è portare lo studente a una valutazione positiva. La De Pasquale cita anche la presa di posizione del maestro Alberto Manzi che si è rifiutato di scrivere dei giudizi sulla personalità degli studenti. Chi siamo noi per dare giudizi psicologici sulla personalità degli studenti visto che non siamo preparati in merito? Che è tutta la questione delle soft skills: come si fa a valutare l’affidabilità, lo spirito di iniziativa, addirittura lo spirito imprenditoriale dei bambini e dei ragazzi? E invece si parla di introdurre le soft skills e l’orientamento anche nelle scuole primarie e addirittura nelle scuole d’infanzia”.

L’orientamento e il mentoring sono altre due questioni finite nell’occhio della vostra contestazione.

“L’orientamento. Se qualcuno lo dovesse fare lo dovrebbe fare lo psicologo, poiché è molto difficile saper distinguere le proprie proiezioni sullo studente rispetto a quello che lo studente vorrebbe davvero fare da grande. Secondo me la scuola orienta ma orienta indirettamente fornendo tante conoscenze. Se sono persone più colte e consapevoli poi le scelte le faranno da sole. Per il mentor il discorso è simile. Per guidare lo studente servirebbero competenze psicologiche. Gli insegnanti devono guidare e guidano gli studenti. Però li guidano ad esempio proponendo buone relazioni con gli adulti. Se l’insegnante riesce a far vivere al ragazzo delle buone relazioni, tutto questo lo fa crescere. E’ il crescere attraverso delle buone relazioni che consente di avere un rapporto migliore con la realtà: essere abituati a relazionarsi con gli altri serve a vivere meglio. I bambini e gli adolescenti imparano a relazionarsi con gli adulti e i coetanei vivendo le relazioni all’interno della scuola. Ed è questo uno dei motivi per cui siamo contrati all’abuso degli strumenti digitali”.

Un altro tasto dolente

“Se il mezzo prende troppa centralità, finisce che la perdono le persone. Se si parla troppo degli strumenti si parla poco delle persone. Lo strumento principe in classe è la parola: lo strumento se è utile si usa quando serve. Agli studenti manca molto che gli adulti non parlino a loro. I ragazzi hanno un grande bisogno di parlare”.

Intelligenza artificiale, la scuola se ne deve occupare?

“Se ne deve occupare spiegando come avviene il funzionamento, più che addestrare su come si faccia, ché quello lo sanno già fare. Sarebbe utile spiegare la storia su come si è arrivati. Da questo punto di vista il libro “L’intelligenza inesistente”, di Stefano Borroni Barale, spiega da dove arriva l’intelligenza artificiale, come funziona e da dove viene. Noi a scuola non possiamo essere dei clienti e dei consumatori. Comunque non ho mai visto colleghi di informatica essere dei fanatici dell’intelligenza artificiale: conoscendone i limiti sono quelli più prudenti sull’uso del digitale. Non lo rifiutano ma neppure pensano che sia la salvezza della scuola”.

Secondo lei c’è lassismo nella scuola italiana? Servirebbe più rigore, come in tanti sostengono?

“Secondo me c’è poca attenzione: i ragazzi hanno bisogno di attenzione personalizzata rivolta a loro. Far stare gli studenti all’interno delle regole e dare regole motivate è un segno di attenzione, e invece sia lasciare i ragazzi a sé stessi sia l’eccessiva rigidità sono forme di disattenzione verso i ragazzi: in ogni caso non te ne occupi. Sono due facce della stessa medaglia. Non credo serva più rigore ma solo più attenzione, che a volte può significare anche fare dei richiami”.

Siete critici anche verso metodologie innovative quali il cooperative learning, oppure la classe rovesciata…

“Andrebbe semmai rovesciata la questione. Prima dovrebbe venire il ragionamento su che cosa insegnare e perché, su quali saperi è importante proporre agli studenti e perché. E solo poi ragionare sui mezzi e sulle strategie didattiche da usare. Andrebbe rimesso in ordine il rapporto tra mezzi e fini: come si fa a dire che una metodologia è più innovativa e utile di un’altra se non si sa a che cosa si debba applicare? Quando sento dire che una metodologia funziona meglio di un’altra mi si deve anche dire per quali contenuti e per quali scopi. Non si può parlare in astratto. La metodologia alla fine va adattata e modulata alla situazione della classe con cui si lavora che è sempre imprevedibile. Abbiamo sempre detto che il lavoro degli insegnanti è un lavoro di fino e artigianale e non un lavoro tecnico. Io diffido da chi ha le ricette pronte in tasca”.

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