Alternanza scuola-lavoro, subalternità della scuola non convince. E se l’esperienza va male cosa succede?

Ieri, durante il convegno su “Orientamento e Alternanza Lavoro, un progetto unico”, organizzato da WeCanJob, è intervenuta sull’argomento la nostra direttrice, Eleonora Fortunato, mettendo in evidenza tutta una serie di aspetti critici sulla questione. Riportiamo l’intervento e l’audio.
Il testo dell’intervento
Sul tema dell’alternanza scuola-lavoro Orizzontescuola ha costruito il proprio punto di vista ascoltando le impressioni, i dubbi e le proposte provenienti dai vari protagonisti del mondo della scuola, per lo più attraverso interviste a rappresentanti del mondo dei docenti, dei sindacati, degli studenti e dei dirigenti e, naturalmente, attraverso i contributi spontanei, per lo più lettere alla redazione, interventi nei forum e sui social in generale.
Partiamo da un dato linguistico, che è forse rivelatore di una prima criticità. Osserviamo quanto è difficile definire le fasi e i passaggi di questa nuova declinazione della formazione e dell’educazione: non si dovrebbe parlare di stage, né di tirocini, ma in definitiva tutti si riferiscono alle ore passate dai ragazzi lontano dalle aule come a una prima esperienza di lavoro, un equivoco che in effetti ci porta lontano dal comprenderne alcune potenzialità.
L’alternanza non dovrebbe rappresentare nell’immaginario nei ragazzi altro che un momento conoscitivo, un’esperienza di realtà in qualche modo orientativa ma non rappresentativa del mondo del lavoro nella sua complessità e nella sua totalità.
Le resistenze culturali più forti, che riguardano principalmente gli insegnanti e una parte del mondo studentesco, nascono a nostro avviso dall’avere visto rappresentata questa nuova possibilità come un primo ingresso nel mondo del lavoro, come qualcosa che spinge le scuole ad adeguarsi alle esigenze del mondo produttivo. In effetti è l’idea di questa subalternità a non convincere e a destare le maggiori perplessità, anche perché contiene qualcosa di fallace, visto che la scuola deve fornire alle persone gli strumenti concettuali in grado di trasformare, potenzialmente, il mondo del lavoro attraverso la ricerca, l’innovazione, la costruzione di una vera cultura d’impresa sociale. Insistere sul rapporto inverso, come si sente fare abitualmente (faccio solo un esempio: attraverso l’alternanza le scuole impareranno come modificare la propria offerta in base alle esigenze del mondo del lavoro… non si accaniranno più su conoscenze obsolete etc etc), genera disorientamento, confusione, diffidenza.
Quindi, suggeriremmo di tenere fermo questo punto, spiegare che l’alternanza non vuole essere uno strumento per stabilire una gerarchia, ma la tappa di un percorso, un’esperienza che contribuisce ad arricchire l’immaginario dei ragazzi, il loro punto di vista sulla realtà, mentre la scuola continua a detenere un ruolo direttivo, senza vedere minata la sua autorevolezza, che come sappiamo è messa già in crisi da altri fattori anche esterni all’alternanza. A proposito di ruolo direttivo della scuola, da un noto sindacalista è arrivato il monito a non scambiare il grosso delle imprese italiane per realtà che passano il tempo a interrogarsi e a discutere su quali debbano essere gli obiettivi strategici della società, ricordandoci che questo è il compito di scuola, università e politica insieme.
Si sente dire che i ragazzi hanno bisogno di fare esperienza diretta nel mondo del lavoro perché quello che studiano è astratto, perché devono comprendere l’importanza del lavoro di squadra etc etc. Ecco un altro misconcetto legato all’alternanza, cioè la sua presunta utilità nell’aiutare i ragazzi a formarsi un’idea concreta di cosa sia il mondo del lavoro (perché il sentito dire non basta, la letteratura non basta, il cinema non basta). Nulla di più falso, un’idea che può essere smontata facilmente osservando semplicemente che la scuola è un luogo di lavoro e gli studenti si rendono benissimo conto di quali sono le dinamiche del mondo del lavoro, le tensioni, le difficoltà osservandole nei loro insegnanti… non trascorrono forse più di cinque o sei ore della loro giornata a contatto con loro?
Prima di questo secondo punto, accennavamo anche alla pericolosità del dipingere come l’alternanza come momento rappresentativo del mondo del lavoro nella sua globalità… e se poi l’esperienza va male, che cosa succede? Non dobbiamo dimenticare che i ragazzi di quell’età si trovano in un momento della loro vita in cui tendono ad assolutizzare, a cercare risposte universali e definitive, sono alla ricerca di indizi sulla loro identità, su quello che è meglio fare o non fare. Un’esperienza di una settimana in una qualsiasi realtà lavorativa farà vedere loro alcune cose ed altre no, necessariamente, sarà la parte di un processo, ne otterranno una rappresentazione veritiera, ma certamente anche parziale e quindi potenzialmente equivoca.
Nell’ambito della ricerca educativa e didattica ci si sta interrogando a fondo per capire come impostare i percorsi di alternanza proprio per attutire tutti questi rischi, e anche in questo caso una voce autorevole, quella di Giuseppe Bagni che è Presidente del Cidi e membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, ha insistito sul fatto che non esiste una polarità scuola / mondo del lavoro e che bisogna parlare di una didattica alternativa e non di alternative alla didattica: “Tutto quello che gli studenti fanno a scuola deve avere una finalità formativa, non si può pensare che una piccola esperienza di lavoro lo sia di per sé. Gli studenti devono essere messi in grado di avere un contatto con la cultura del lavoro, è su questo che si deve intervenire”.
Veniamo a un altro punto piuttosto problematico, l’alternanza nei licei. I documenti istituzionali predisposti dal Miur parlano di via italiana al sistema duale tedesco e, novità assoluta, estendono questa possibilità come sappiamo anche ai licei. Le testimonianze che ci sono giunte riferiscono, prevedibilmente, di grandi difficoltà a mettere in piedi percorsi di alternanza credibili e coerenti con i percorsi di studio, soprattutto in quelle aree del nostro Paese in cui il tessuto economico è meno diversificato e compatto. Ecco perché sarebbe opportuno parlare di possibilità e non di obbligo. A questo proposito qualcuno ci ha invitati a guardare con interesse l’esempio delle province autonome di Trento e Bolzano, che hanno recepito l’alternanza declinandola come ‘opportunità’, proprio per non incorrere in errori causati da fretta e superficialità.
Come possiamo facilmente immaginare, il tema dell’obbligo è sentito come problematico perché innesca procedure burocratiche che rischiano poi di assorbire la maggior parte degli sforzi e delle energie da parte di chi è chiamato a metterlo in atto.
È forse bello chiudere queste istantanee provenienti dal mondo della scuola con il punto di vista degli studenti. Una di loro ci ha detto: “Per noi alternanza non significa fare un’esperienza precoce nel mondo del lavoro, mentre vogliamo vederla come parte di un percorso di istruzione integrata, per superare il modello teorico classico che nel nostro paese ha sempre visto la separazione netta tra sapere e saper fare”. Insomma, il tema non è, o non è solo, far conoscere ai ragazzi il mondo del lavoro, ma fare il modo che l’alternanza diventi realmente parte di un percorso didattico, che abbia delle finalità formative, che sia concepita come una fase del delicato percorso di orientamento che le scuole non sempre riescono a realizzare con successo. Alternanza, quindi, come momento di conoscenza e non come strumento che ha lo scopo precipuo di combattere la disoccupazione giovanile perché in questo modo le aziende potranno finalmente comunicare con il mondo dell’istruzione e ordinargli quello che gli serve e quello che non gli serve.
Il video dell’intervento
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