Aggiornamento insegnanti, sicuri che la formazione sia realmente efficace? Studi statunitensi smentiscono
E’ tra le novità principali della Buona Scuola, ma a quali condizioni la formazione obbligatoria per i docenti farà davvero bene al nostro sistema di istruzione? Quali ricadute positive avrà sui risultati degli studenti?
E’ tra le novità principali della Buona Scuola, ma a quali condizioni la formazione obbligatoria per i docenti farà davvero bene al nostro sistema di istruzione? Quali ricadute positive avrà sui risultati degli studenti?
In assenza di un monitoraggio e di una valutazione rigorosa di questi interventi, il rischio è che si investano risorse considerevoli ‘al buio’. Ne abbiamo parlato con Gianluca Argentin*, sociologo dell’educazione presso l’Università Cattolica di Milano.
In un recente intervento comparso sull’Indice dei Libri – autorevole mensile culturale che contiene un inserto dedicato alla scuola – ha avanzato un dubbio sulla reale efficacia dei corsi di formazione rivolti agli insegnanti, mentre presso l’opinione pubblica sembra deterministico il loro legame col miglioramento della docenza e, quindi, degli apprendimenti degli studenti. Perché non è proprio così?
“Presumere che le politiche siano efficaci e, in particolare, che lo siano le politiche basate sulla formazione è un errore in cui tendiamo a cadere spesso. Quando siamo in buonafede, commettiamo tale errore perché attribuiamo un valore positivo alla formazione e pensiamo quindi che “faccia bene”; quando siamo in malafede, assumiamo efficacia perché vogliamo supportare un intervento di formazione di cui siamo gli autori oppure una politica che abbiamo contribuito a deliberare. In realtà, tra l’erogazione di un intervento di formazione, l’espletarsi dei suoi effetti sul miglioramento della docenza e, infine, sugli apprendimenti degli studenti, sta una lunga catena di meccanismi che devono scattare e che solo in rari casi si attivano. Vale la pena spiegare meglio la questione con alcuni esempi. Immaginiamo di aver disegnato un corso di formazione per insegnanti con contenuti eccezionalmente buoni e di offrirla alle scuole. Perché migliori l’insegnamento è necessario che chi segue la formazione non solo la apprezzi mentre segue il corso, ma che poi la metta in pratica in classe con gli studenti: a volte gli interventi formativi propongono modelli ottimi sulla carta, ma impraticabili nella scuola, dove vengono sovrastati dai vincoli quotidiani di tempo e risorse didattiche. Un altro fattore necessario perché la formazione migliori l’insegnamento è che a seguirla (e praticarla poi classe) siano gli insegnanti che hanno margine di miglioramento: se il corso viene seguito solo da insegnanti già bravissimi e capaci di far rendere al meglio i loro studenti, la formazione non potrà sortire alcun effetto positivo addizionale sull’apprendimento dei loro studenti. Si tratta di un effetto noto nella letteratura sociologica, chiamato “effetto San Matteo”: il rischio è che la formazione migliore, più impegnativa, venga erogata in misura maggiore a insegnanti già bravi, che ne hanno meno bisogno”.
Ha scritto di autorevoli studi statunitensi secondo cui sarebbero pochissimi gli interventi formativi realmente efficaci. Questo scoraggerà, secondo lei, il Governo americano dall’investire nella direzione dell’aggiornamento dei docenti? Quanto questi dati sono applicabili anche al caso italiano, vista la diversità di impostazione e di tradizione dei due sistemi educativi?
“Negli Stati Uniti esiste una mole impressionante di studi che hanno valutato gli effetti sugli studenti prodotti da interventi di formazione in servizio dei loro insegnanti (si veda, in proposito, il sito della What Works Clearing House – http://ies.ed.gov/ncee/wwc/). Tali studi sono stati realizzati mediante sperimentazioni controllate, ricerche in cui si confronta un gruppo di insegnanti che ha ricevuto la formazione (e relativi studenti), detto gruppo di trattamento, e un gruppo di controllo di insegnanti che ne sono stati invece esclusi. L’assegnazione casuale dei soggetti ai due gruppi (detta randomizzazione) consente di essere ragionevolmente sicuri che le differenze dopo la formazione tra gruppo di trattamento e gruppo di controllo siano proprio effetti prodotti dalla formazione stessa.
Lo sviluppo di un gran numero di studi di questo tipo, attivamente promosso e finanziato dal Governo Federale, ha consentito agli studiosi statunitensi di sviluppare rassegne sistematiche. Si tratta di analisi che mettono assieme più studi basati su sperimentazioni e li confrontano in termini di efficacia. Queste rassegne sistematiche mostrano che pochi interventi di formazione in servizio sono efficaci e che, quindi, commettiamo spesso l’errore di presumere che lo siano. Si sta ora cercando di identificare le caratteristiche comuni agli interventi formativi efficaci, così da capire su quali fattori puntare nel disegno di nuove politiche di formazione. Nel contempo, il Governo americano non sta affatto smettendo di finanziare la formazione, bensì spinge nella direzione che si diffonda l’evidenza empirica esistente e, di conseguenza, nelle scuole si usino più spesso interventi formativi che sono risultati efficaci nelle valutazioni precedenti.
Infine, la questione della trasferibilità di tali risultati al contesto italiano è in effetti spinosa: il sistema scolastico statunitense è molto diverso da quello italiano e anche i nostri insegnanti differiscono molto dai loro. Ad esempio, gli insegnanti italiani sono in media molto più anziani di quelli statunitensi (come di quelli di gran parte dei paesi occidentali). Allo stesso tempo, anche gli enti che erogano formazione per insegnanti in Italia sono diversi da quelli statunitensi. Possiamo quindi cercare di capire se le lezioni che stanno apprendendo negli Stati Uniti sull’inefficacia della formazione degli insegnanti valgano anche da noi, ma in questo salto tra contesti corriamo dei rischi considerevoli. Ecco perché è importante che anche in Italia si diffondano esperienze di valutazione rigorosa dell’efficacia della formazione degli insegnanti”.
La Legge 107 ha, come sa, reintrodotto la formazione obbligatoria per gli insegnanti. Alla luce di quanto ha detto, quali accorgimenti dovrebbero essere presi per non vanificare questo importante sforzo economico del nostro Paese?
“Questo è il punto: nonostante la legge 107 abbia deciso di investire un cospicuo ammontare di risorse pubbliche sulla formazione degli insegnanti, nulla si investe nella direzione della valutazione dell’efficacia di questo investimento. Anzi, non sembra si investa nemmeno in un monitoraggio accorto di come questi fondi verranno spesi dagli insegnanti, limitandosi a un rendiconto di natura amministrativa. Di più, non risulta che il mercato della formazione sia in qualche modo osservato dal governo, rischiando semplicemente che la maggior domanda di formazione si traduca in un aumento dei prezzi dei pacchetti offerti, vanificando così almeno parte dello sforzo economico a causa di processi inflattivi. Affinché l’investimento non venga vanificato, non basta selezionare un insieme di enti accreditati da parte de Ministero, serve saper fornire indicazioni chiare su quali interventi funzionano. Purtroppo in questa direzione il nostro paese ha un ritardo storico considerevole e produrre evidenza valutativa rigorosa richiede tempo. In questa direzione, una grossa responsabilità istituzionale spetta al MIUR e ai suoi uffici scolastici regionali, come anche a ANSAS-Indire e INVALSI. Per apprendere lezioni dai quattrini che già stiamo investendo in formazione, si dovrebbe vincolare il finanziamento di progetti al fatto che, nei prossimi anni, siano accompagnati da valutazione rigorosa dei loro effetti. Se mai inizieremo, mai potremo limitare lo spreco di denaro pubblico in formazione in servizio inefficace”.
Questo nostro discorso si lega in maniera inestricabile anche alla formazione iniziale degli insegnanti, oggetto di delega della legge 107 e terreno di scontro ideologico tra ‘pedagogisti’ e ‘disciplinaristi’. In linea generale, i primi ritengono che una consistente parte dei crediti della laurea specialistica dei futuri insegnanti debba essere dedicata alle discipline pedagogiche e didattiche, gli altri che non si debbano sacrificare a queste ultime le conoscenze disciplinari, base della trasmissione di ogni sapere. E’ uno scontro tra due visioni del mondo, lei da che parte sta?
“Anche questa decisione purtroppo viene presa “al buio”. Se avessimo imparato valutando le precedenti esperienze di formazione iniziale degli insegnanti (penso ad esempio alle SISS), potremmo basarci su dati empirici. Così non è e, anche guardando ad altri Paesi, non è facile trarre indicazioni chiare su quale modello preferire. Ecco allora che ci impantaniamo in gradi dibattiti ideologici, che hanno alle spalle anche interessi accademici piuttosto consistenti, dal momento che si parla di un segmento non trascurabile della formazione universitaria e quindi di cattedre e posizioni. Non voglio comunque sottrarmi all’esprimere una posizione: credo che sempre più l’apprendimento sarà un processo centrato sugli studenti, in cui gli insegnanti avranno un ruolo di orientamento tra molteplici fonti di apprendimento, conoscenza ed esperienza. Pertanto propendo per una formazione più orientata verso le discipline pedagogiche e didattiche, a una condizione però: che siano valorizzati nella formazione universitaria insegnanti di lunga esperienza provenienti dalla scuola e in essa già apprezzati, la crema nel mondo dei cosiddetti practitioner. Credo che mettere loro in cattedra questo tipo di competenze esperienziali possa aiutare davvero i nuovi insegnanti, molto più che raccontare loro, in modo astratto e teorico da parte di accademici che non vivono la scuola, l’ennesimo modello pedagogico o didattico (ovviamente presunto come efficace…)”.
Ha parlato di competenze dei docenti: sempre sull’Indice il mese scorso spiegava molto bene quanto sia complesso il passaggio dall’acquisizione di una conoscenza al suo tradurla poi in azione, pratica di vita quotidiana (“esiste una lunga catena di meccanismi che devono attivarsi perché il processo si realizzi completamente e che ci sono condizioni agevolanti e ostacolanti”), problematizzando molto un quadro che, a mio avviso, la cosiddetta ‘didattica delle competenze’ tende talvolta appiattire. La scuola è il luogo, il momento giusto per valutare le competenze degli studenti? Le faccio questa domanda perché il 90% dei corsi di formazione sarà su questo.
“Sono contento che il passo Le sia piaciuto, in effetti è importante rendersi conto che esiste una profonda distanza tra disporre di una conoscenza e impiegarla nella vita quotidiana. Come insegnanti, tendiamo a vedere la difficoltà di tale processo per i nostri studenti, ma non ci rendiamo conto che vale anche per noi nel nostro insegnare quotidiano: chi di noi non sa che la didattica laboratoriale aiuta l’apprendimento e che dovrebbe essere integrata nella quotidiana pratica di insegnamento? Eppure, quanta fatica facciamo a fare didattica laboratoriale che non sia episodica e slegata dal resto del nostro insegnamento? Disponiamo della conoscenza, ma non sappiamo tradurla in competenza, esattamente come i nostri studenti, quando sono in difficoltà nell’applicare una formula nota a un problema noto. Eppure è su sfide come queste che si gioca il futuro dell’istruzione: fornire conoscenze e orientare gli studenti a tradurle in pratica nella vita quotidiana. In realtà in gioco in questo passaggio c’è addirittura di più: sta infatti nella traduzione da conoscenze a competenze il nocciolo di quella che viene chiamata knowledge society e, in ultima istanza, la nostra capacità di essere competitivi nella futura economia mondiale. La scuola italiana, forse anche a causa del profilo piuttosto attempato dei suoi insegnanti, fatica a slegarsi da un modello tradizionale di trasmissione delle conoscenze per mettere al centro lo studente e lo sviluppo delle sue competenze. Similmente, la scuola è in difficoltà a valorizzare le competenze e tende a dare ancora peso eccessivo alle conoscenze nei suoi giudizi, con una logica piuttosto autoreferenziale. Un esempio di questa fatica è particolarmente visibile nelle critiche ai test INVALSI: i suoi oppositori parlano di riduzionismo a poche crocette della complessità dei processi di apprendimento. Basterebbe però leggere le domande per rendersi conto che molte sfidano gli studenti proprio ad applicare conoscenze a problemi nuovi, misurando quindi le loro competenze.
Su questo divario tra conoscenze e competenza la legge 107 apre qualche spiraglio di speranza per il futuro: grazie agli stage obbligatori, le scuole secondarie di secondo grado dovranno interloquire di più con il mondo esterno, dove le conoscenze vengono messe in pratica e diventano competenze. Si tratta di una sfida difficile per molti istituti scolastici, va riconosciuto. Se però le scuole riusciranno a far fare ai loro studenti stage che non siano meri adempimenti formali, avranno un’occasione importante per interrogarsi su cosa conti davvero trasmettere. Gli stage universali e corposi quanto a numero di ore sono un grimaldello per uscire dalla mai superata “tirannia del programma”. Ripeto, è su sfide come queste che si gioca il ruolo futuro dell’istruzione e del contributo che saprà dare alla crescita del nostro paese”.
* Gianluca Argentin è ricercatore presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Analizza le condizioni di lavoro degli insegnanti, le politiche loro dedicate e valuta interventi in ambito educativo mediante il ricorso a sperimentazioni controllate. Pubblicazioni recenti su questi temi sono: “Ricomincio da tre. Lezioni da tre esperienze italiane di analisi controfattuale in ambito educativo” in RIV – Rassegna Italiana di Valutazione (2013); “Trying to Raise (Low) Math Achievement and to Promote (Rigorous) Policy Evaluation in Italy. Evidence From a Large-Scale Randomized Trial” in Evaluation Review (2014); “Cercare soluzioni altrove. Una sperimentazione sull’uso delle Family Group Conference” (in Bassi e Moro, 2015).