Adolescence, da parte di una insegnante. Lettera

Inviato da Stefania Cisternino – Adolescence non racconta solo gli adolescenti. Parla di loro, sì, ma soprattutto parla a noi adulti. A chi ogni giorno li guarda da vicino, da dentro, da quel punto mobile e complesso che è il ruolo dell’adulto. O meglio, dell’insegnante, che è chiamato non solo a educare, ma a restare in contatto con la propria parte adolescenziale per poter comprendere, contenere, accompagnare.
Un’insegnante vera non si limita a osservare da lontano. Resta in dialogo. Anche quando non capisce, non deride. Anche quando non riesce a spiegare, non smette di ascoltare. È lì, presente. Vede nei ragazzi quello che ancora loro stessi non vedono: fragilità e potenzialità, limiti e possibilità. E li aiuta a fiorire, a diventare.
Le quattro puntate della serie parlano anche di noi. Di un disagio adulto profondo, spesso taciuto, che si è manifestato all’improvviso. Anche se ancora giovani, quasi giovani, ci siamo ritrovati a sentirci vecchi, fuori posto, esclusi. Testimoni di un passaggio generazionale, sociale, relazionale che si è compiuto senza avvisarci.
Un tempo aiutare i ragazzi a ricongiungersi, a creare ponti, era il cuore del nostro lavoro. Oggi sembra che quel desiderio di connessione sia scomparso. I ragazzi vivono in micro-comunità chiuse, dove si parla solo del proprio gruppo e tutto ciò che è esterno viene automaticamente visto come sbagliato, ridicolo, da escludere. Questa socialità ristretta ci rende spettatori impotenti, uditori esterni. Guardiamo, ascoltiamo, ma non siamo più dentro.
Indimenticabile la puntata girata a scuola. Una scuola che, come dice la poliziotta, “puzza”. E non solo in senso fisico. Puzza di un’aria viziata, malata, stantia. È una scuola impazzita, abitata da piccoli despoti, giovani dittatori che regnano su micro-mondi dove ogni regola adulta viene ribaltata, svuotata, ignorata.
E c’è Adam, con la sua buffa innocenza, che parla con il padre, poliziotto muscoloso e sicuro, abituato a sfondare porte. Ma qui nessuna porta si apre con la forza. Perché l’odio che circola non nasce dove gli adulti sono abituati a cercarlo.
In quel mondo parallelo — il virtuale — si annidano paure e desideri, assenze e idealizzazioni. Lì si può essere tutto, o almeno sembrare tutto. Si può costruire un’identità che non ha peso, che non ha corpo, che non deve affrontare lo sguardo dell’altro.
Nel reale, invece, si fa i conti con ciò che si è. Con i jeans che non si abbottonano, con le occhiaie, con la fatica. Con la necessità di uscire, esporsi, vivere. Ma proprio per questo, è nel reale che si cresce.
Nel virtuale si è potenti solo se si distrugge qualcun altro. L’odio nasce lì, dove tutto è possibile e nulla è reale.
Negli anni Novanta, anche l’adolescenza era faticosa. C’erano sfide pericolose, come l’ossessione per la magrezza. Si sognavano girovita sottili, si combatteva per entrare in taglie 38 invisibili, si misuravano centimetri in competizioni silenziose e sfiancanti. Era crudele, ma era reale. Si soffriva, ma insieme. Si condivideva anche il dolore.
Oggi quella sfida è rovesciata, amplificata, virtualizzata. Vedo ragazze che ostentano rotondità esasperate, che sfuggono il contatto autentico con loro stesse, che si mostrano ma non si incontrano davvero. Non rifiutano solo l’imperfezione, ma anche la sobrietà, la misura, la leggiadria. Impongono corpi caricaturali, aggressivi, che più che affermare, sembrano nascondere. Con lo sguardo decidono chi è dentro e chi è fuori. E mi chiedo se questa violenza selettiva non nasca da un vuoto relazionale. Come dice la serie: “Solo il 20% dei ragazzi verranno scelti dall’80% delle ragazze.”
Jamie urla: “Non sono stato io.” E allora resta aperto un interrogativo difficile: chi sono le vere vittime?
A un primo sguardo, la risposta è chiara: Katie, la ragazza colpita. Ma Jamie, nella sua disperazione, si sente vittima a sua volta. E forse, in parte, lo è davvero. In questo confine sempre più confuso tra vittime e carnefici, dove ognuno può essere entrambi, si annida una delle più profonde crisi emotive del nostro tempo.
Noi adulti, noi insegnanti, noi genitori, non possiamo restare fermi. Dobbiamo riconsapevolizzarci, trovare nuove parole, nuovi modi di stare nel mondo insieme a loro.
Non possiamo spiegare tutto, ma possiamo chiedere. Possiamo domandare ai ragazzi di aiutarci a capire il loro mondo.
Perché non accada più. Perché nessuno di noi debba, un giorno, come il padre di Jamie, stringere un orsacchiotto in una cameretta con la carta da parati coi pianeti, dicendo tra sé e sé: “I could have done more.”