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A cosa può servire una spilla da balia? Gli adulti suggeriscono 20 usi diversi, i bambini 200. Come non uccidere la creatività a scuola. INTERVISTA a Fabio Bocci

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Si parla spesso di realizzare una formazione in grado di rendere gli studenti autonomi e capaci di affrontare le varie sfide che di volta in volta si presentano, di sviluppare la creatività. Ma come si realizza un ambiente di apprendimento creativo e inclusivo? Ne abbiamo parlato con il Professor Fabio Bocci, Docente di Didattica e Pedagogia Speciale presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università “Roma Tre”.

Professor Bocci, la creatività è una delle abilità cognitive che ci differenzia dalle altre specie animali, ma è anche un fenomeno difficile da riconoscere e valutare. Come riconoscerla e quali sono le implicazioni, a livello educativo, legate alla creatività?

Una bella domanda per partire, ma aggiungerei che la creatività non riguarda solo la sfera cognitiva, ma l’intera personalità e quindi anche la dimensione affettiva e socio-emotiva, ed è questo forse uno degli aspetti a cui spesso si fa meno riferimento. Per cominciare bisogna ragionare su cosa sia la creatività, è questo è un interrogativo attenzionato almeno dalla metà degli anni ’50 del ‘900, a partire da studiosi del calibro di Guilford, uno dei massimi studiosi dell’intelligenza, colui che ha elaborato la teoria multifattoriale dell’intelligenza, ma anche da Cropley, Yamamoto, Torrance, Getezels e Jackson, Wallach e Kogan oppure Anderson, per fare riferimento al filone di studi classici sulla creatività, mentre in Italia all’epoca abbiamo avuto figure importanti come Maria Fattori, Ornella Andreani Dentici o Gabriele Calvi.

Questo per dire che c’è stato un momento storico, tra la metà degli anni Cinquanta e per tutti gli anni Sessanta del Novecento, in cui il tema della creatività è stato particolarmente indagato dalla ricerca; poi ha avuto un andamento sinusoidale, per così dire, con dei picchi di interesse e fasi in cui è caduta nel dimenticatoio. Si è cercato di capire che cos’è la creatività, come la si possa “intercettare”, si è provato a definirla anche nelle sue componenti, come ad esempio l’immaginazione, la fantasia, l’intuizione, la capacità di inventare e così via.

Di sicuro la creatività è una componente fondamentale di ciascun essere umano, è qualche cosa che appartiene al fatto di essere vivi, come sostenevano anche grandi studiosi come Rogers, May, Fromm e Winnicott, che hanno dedicato attenzione al tema della creatività umana. Insomma, la creatività è un bene prezioso. Però, come dicevamo, è un po’ difficile da identificare e da far emergere, forse perché siamo legati all’idea che sia creativo solo ciò che è nuovo, ciò che utile e ciò che è bello, come affermato da Poincaré.

Questa riflessione apre a un dilemma affascinante: la creatività è un qualcosa di unico, a livello universale, o è qualcosa di unico per una specifica persona che per la prima volta approda a un qualcosa sperimentandola in modo assolutamente innovativo e quindi creativo? Tale quesito non è secondario, perché se ritengo che sia creativo solo ciò che, ad esempio, scardina certe tradizioni o taluni paradigmi, allora le persone creative sono poche, anzi rarissime (pensiamo ai pionieri del pensiero moderno che Howard Gardner indaga nel suo libro “Le intelligenze creative”). A tal proposito si è infatti parlato di creatività maggiore. Poi c’è la creatività delle persone comuni, quella della quotidianità, che non arriva a elaborare nuove teorie, a scoprire nuove leggi, a inaugurare correnti artistiche o letterarie, a inventare cose riconosciute come “mai viste”.

È la creatività minore, la creatività di tutti i giorni, ed è forse questa la più difficile da indentificare, perché siamo in presenza di piccoli atti che effettivamente sono creativi per il singolo ma che magari, per la valutazione che ne può fare un genitore, un insegnante o un educatore, potrebbero non risultare tali. Quindi, più che dare una definizione di creatività vorrei porre la questione del perché talvolta abbiamo difficoltà a riconoscere atti creativi nelle persone. Come detto, un motivo è legato alla difficoltà di definirla questa creatività. Come ho evidenziato in un articolo di qualche anno fa, la parola creatività può essere accostata alla parola poesia che, come affermava Zanzotto, rimanda a infinite nostalgie di significati. Ecco, anche creatività rimanda a infinite nostalgie di significati, può voler dire molte cose e questo implica una maggiore difficoltà a identificarla negli atti che alunni e studenti, se vogliamo circoscrivere il discorso alla scuola, possono agire, mettere in atto, manifestare.

Spesso il modello educativo scolastico è basato su stimolazioni dalle quale ci si attende un determinato tipo di risposte, un modello basato sul pensiero convergente. Quando invece ci si confronta con studenti che hanno una spiccata personalità creativa e un pensiero divergente si corre il rischio di soffocare questi aspetti per riportarli nello schema educativo adottato. Quanto è importante, invece, valorizzare il pensiero divergente e sviluppare la creatività?

Provo a rispondere prendendo in prestito una affermazione di H.H. Anderson, contenuta in un libro pubblicato in Italia nel 1972 ma edito in originale almeno 10 anni prima. Vi sono saggi di autori importanti, come Rogers e Fromm, e per questo seppur datato è volume che ancora oggi ha qualcosa da dirci. Anderson parte con un quesito, affermando che (cito a memoria) nei bambini la creatività è un elemento universale mentre negli adulti è pressoché inesistente. Il problema è quello di comprendere cosa sia accaduto a questa universale e immensa risorsa umana.

Una possibile risposta a tale interrogativo ce la offre Ken Robinson, che noi conosciamo sia come studioso dei sistemi formativi sia come esperto negli studi sulla creatività. Celebre peraltro è la sua conferenza al TED dal provocatorio titolo “Ma la scuola uccide la creatività?”. In un altro video fruibile su YouTube, “Cambiare i paradigmi dell’educazione”, Robinson cita uno studio di Land e Jarman che si intitola “Breackpoint and Beyond”, riportando la sperimentazione che questi due autori hanno compiuto nella loro ricerca, di tipo longitudinale.

In questa ricerca hanno testato bambine e bambine all’età di circa 3/5 anni, ripetendo la prova dopo tre anni e poi dopo tre anni ancora, chiedendo loro i possibili usi di una spilla da balia. Robinson riporta come nelle persone comuni, gli adulti, si riesca a fornire una ventina di risposte differenziate a questa domanda, mentre i bambini anche molto piccoli arrivano a darne fino a duecento, un dato questo che li accosta alle persone considerate particolarmente creative o divergenti.

Tornando al nostro ragionamento, dopo il primo test iniziale accade che i bambini vengono testati nuovamente dopo tre anni e dopo tre anni ancora. Analizzando i risultati dei test successivi Robinson, con una boutade, afferma che di solito quando si cresce ci si aspetta che si migliori nelle performance mentre invece in questi bambini e in queste bambine, che poi sono diventati ragazzi e ragazze, si è registrato un peggioramento sistematico. In altri termini sono partiti (da piccoli) che davano tante risposte e sono arrivati (da grandi) che ne davano poche. Che cosa è accaduto? È accaduto che questi bambini nell’arco del periodo della ricerca hanno vissuto molte cose ma sono accomunati da esperienza che li lega tra loro: sono andati a scuola, e a scuola gli hanno detto che la risposta è una sola, ed solo quella.

Allora è la scuola che genera il conformismo? (che uccide la creatività?). Certamente il fatto di proporre uno stimolo e di attendersi una sola risposta può inibire (e inibisce) la creatività. Sappiamo infatti che la creatività è la capacità di dare “n” risposte differenziate ad un unico stimolo. Se invece noi mettiamo in campo uno o più stimoli ma ci attendiamo (e chiediamo) un’unica risposta, ecco che abituiamo le persone in qualche modo a convergere verso la risposta socialmente attesa. La scuola è culturalmente e istituzionalmente un punto di riferimento, per cui si tende a conformarsi a ciò che chiede, ad esempio per avere un riconoscimento in termini di successo formativo, che corrisponde a quello che il sistema chiede e attende.

Quindi questo è un aspetto che come educatori, genitori e insegnanti, dobbiamo tenere a mente, anche sotto forma di quesito: quanto favoriamo e siamo in grado di accettare dai nostri allievi, ma anche dai nostri figli, risposte che divergono? Il pedagogista francese Philippe Meirieu nel suo libro “Frankenstein educatore” evidenzia come gli adulti tendano a considerare “riusciti” gli allievi e i figli se al termine del percorso educativo tendono a essere simili a loro. In realtà se vogliamo veramente che le persone diventino sé stesse, alla fine del percorso figli/e e allievi/e dovrebbero somigliare poco a noi. Altrimenti non siamo altro che Narcisi che si specchiano nell’acqua per vedere riflessa l’immagine dell’allievo/a, del figlio/a, eccetera.

Ne approfitto per una battuta perché nella sua risposta mi ha ricordato le parole del Professor Galimberti quando parla del principio di non contraddizione dando agli oggetti un unico significato, che non è presente nei bambini, e afferma inoltre che nell’arte si ha la massima espressione del pensiero divergente, della follia, e che questa non potrebbe esistere se tutti avessimo un pensiero convergente, quindi non creativo.

Diciamo che, assumendo un punto di vista per così dire romantico, il rapporto tra creatività e follia è abbastanza tipico. Certamente la creatività è espressione di qualche cosa di nuovo, anche se, ripeto, per quanto mi riguarda nuovo non va inteso solo in senso assoluto ma anche in riferimento a qualcosa che è tale per quella singola persona, che magari in quel momento ha intuito qualcosa che prima non era nella sua struttura gestaltica del pensiero, oppure che ha assemblato (“inventandolo”) un oggetto che già esiste ma al quale è arrivata attraverso un processo di scoperta che è per lei inedito. Dicevamo prima che si tratta per qualcuno di una creatività minore, ma che io trovo molto interessante perché poi è quella della quotidianità, quella del rapporto con studenti e studentesse.

Certamente più noi tendiamo a farli convergere verso risposte precostituite più chiudiamo e inibiamo gli spazi, anche interiori, di divergere. Intendo dire che a livello piscologico inibiamo la possibilità di generare i “permessi” di sentirsi autorizzati a divergere. Recupero qui una cosa che non ho detto prima, quando ho citato Anderson. Lev Vygotskij, uno degli studiosi più straordinari e fecondi, purtroppo morto troppo presto, si è occupato sia di gioco che di creatività e nella sua prospettiva storico-culturale, ha messo in discussione la credenza che i bambini siano più creativi degli adulti. Non fosse altro, perché un adulto ha a disposizione più materiali e più esperienze per poter rielaborare le informazioni.

Allora se noi mettiamo in dialogo Vygotskij con Anderson, appare evidente come il décalage della creatività nel mondo adulto sia decisamente di tipo culturale. Perché come adulti, nonostante abbiamo a disposizione più risorse per essere creativi, tendiamo ad esserlo di meno? Evidentemente siamo socialmente meno rinforzati – uso questo termine comportamentista – a divergere, ad andare fuori dai canoni. Chiaramente, riprendendo la questione posta nella domanda, l’espressività artistica è uno degli ambiti dove si addensano le maggiori possibilità, perché ancora una volta socialmente riconosciute, di poter essere creativi, ma questa eccezione, come si suol dire, diviene una conferma alla regola.

Per realizzare un ambiente di apprendimento attivo è necessario tener conto di diversi elementi, tra questi un valore importante ha la creatività. Ci aiuta a capire come si struttura un ambiente di apprendimento creativo?

Intanto noi abbiamo moltissime esperienze positive nella scuola, penso al Movimento di Cooperazione Educativa, ai CEMEA (Centri d’Esercitazione ai Metodi dell’Educazione Attiva), oppure ai/alle tanti/e insegnanti che quotidianamente operano nella scuola. In realtà, mi viene da dire, non è che ci sia tanto da inventare: abbiamo una grandissima tradizione di pedagogie e didattiche attive, che, tra l’altro, fondano la loro azione su un aspetto fondamentale che è la comunitarietà. Tornando alla domanda, lei mi chiede come si allestisce un ambiente creativo. Intanto, visto che mi sono un po’ agganciato al passato, mi piace rispondere con una esperienza personale.

Ho avuto la grande fortuna di fare amicizia e di essere vicino al Maestro Albino Bernardini negli ultimi anni della sua vita. Bernardini è stato il “Maestro di Pietralata” immortalato anche nello sceneggiato televisivo, all’epoca si diceva così, della RAI “Diario di Un Maestro” tratto dal suo libro “Un anno a Pietralata”. Albino ha introdotto moltissimi espedienti didattici creativi, come le storie senza finale, dove i bambini e le bambine dovevano continuare a elaborare il testo oltre lo stimolo assegnato.

Quando ci siamo conosciuti, durante una video-intervista che ho realizzato in quegli anni, ho chiesto a Bernardini di indicarmi quali fossero a suo avvio le caratteristiche del/della buon/a Maestro/a. Albino ha risposto che un buon Maestro deve dare tutto per la scuola, deve mettere a disposizione tanti materiali, deve diversificare le attività, deve creare situazioni coinvolgenti, deve attivare la partecipazione, indurre alla scoperta, non dare mai le cose per scontate, lasciare lo spazio a chi apprende di apprendere.

Questo per ribadire che non credo che per essere creativi in classe si debba immaginare qualche cosa di straordinario, che ancora non esiste. In realtà non serve niente di eclatante; occorre che le/gli insegnanti, se parliamo di scuola in modo particolare, allestiscano ambienti di apprendimento coinvolgenti, ludiformi, ossia che facciano della dimensione ludica un perno fondamentale dell’agire didattico. Su questo noi abbiamo veramente da attingere a piene mani nella nostra tradizione pedagogica: basterebbe leggere Gianni Rodari, sul cui lavoro l’amica e collega Vanessa Roghi ha scritto un bellissimo libro intitolato “Lezioni di Fantastica”. Non a caso Albino Bernardini, che ho citato prima, invitava spesso Rodari nelle sue classi di Pietralata.

Erano molto amici e, tra l’altro, Rodari ha scritto diverse introduzioni ai suoi libri. Potrei ovviamente aggiungere anche il nome di Bruno Munari per restare in tema di autori dai quali prendere spunto. Chi vuole ed è interessato ad esplorare queste possibilità – e anche a divertirsi, perché questa è una didattica divertente e molto coinvolgente, non solo per chi apprende ma anche per chi insegna – lo può fare allestendo l’ambiente classe in chiave creativa. E sono convinto che questo gli/le insegnanti già lo sanno e lo fanno, o quantomeno cercano di farlo, pur nei vincoli della realtà scolastica che ciascuno/a vive.

Un’ultima domanda. Quale formazione è necessaria per lavorare correttamente in un ambiente di apprendimento creativo?

Qui rispondo, e mi scuserete, anche con un po’ di autoreferenzialità, insegnando nel CdL in Scienze della Formazione Primaria – il corso di laurea che forma Maestre e Maestri per la Scuola dell’Infanzia e per la Scuola Primaria – da qualche anno ho attivato un corso che si chiama “Laboratorio di espressività creativa”. È una proposta formativa molto apprezzata da studentesse e studenti, che partecipano con grande entusiasmo e trovano spazi per esplorare e inventare. È, per l’appunto, un laboratorio nel quale cerco di non calare le cose dall’alto, ma di proporre (e accogliere) attività da condividere e da rielaborare insieme. In tal senso, quando parliamo di formazione degli insegnati dovremmo immaginare una formazione significativa, fatta nei contesti, che nasce dai problemi che le persone incontrano, partecipata.

Certamente nel rispetto dei principi e delle teorie pedagogiche, così come dei saperi e delle didattiche disciplinari. In tal senso dovremmo tutti imparare a mettere in dialogo saperi disciplinari, didattiche disciplinari e saperi pedagogici e metodologico-didattici e docimologici. Insomma, dovremmo lavorare più di concerto: una formazione un po’ meno statica di quella che a volte viene calata dall’alto e facciamo tutti.

Dovremmo attuare una sorta di rivoluzione degli spazi e dei tempi della formazione. Talvolta ci troviamo invece in palese contraddizione, come quando (faccio una battuta) cerchiamo di sperimentare l’apprendimento cooperativo in aule accademiche sì bellissime ma con i banchi fissi e le sedie inchiodate a terra. Abbiamo necessità di spazi e tempi flessibili, capaci di accogliere la lezione magistrale (ex cattedra), che continua ad avere il suo senso (quando ha senso farla) ma che possano anche trasformarsi per lasciare adito ad attività laboratoriali, dove indagare, esplorare, applicare, sperimentare pratiche, metodi e strategie. Su questo dobbiamo ancora lavorare un po’, tutti quanti, tutti quelli che hanno a cuore la scuola, l’istruzione e la formazione.

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