Scuola: il binomio MIUR-McDonalds non si può digerire. Lettera

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Di solito (e ormai da un po’ di tempo, dopo gli scioperi e le proteste dell’estate calda di due anni fa, e grossi lividi sulla coscienza), anch’io, come altri miei colleghi osservo, talvolta con pigro interesse, talvolta con disgusto, misto a volontà di espatriare, le molteplici notizie che trapelano o irrompono chiassose, riguardo al continuo discredito verso l’istituzione-scuola, alla “pioggia sul bagnato” delle sue continue derive burocratiche, delle sue emergenze strutturali, delle difficoltà relazionali multistrato e multicomponente (dai collaboratori scolastici, al bar di fronte, passando per i presidi) e riguardo alla sempre più diffusa atmosfera di impotenza, soprattutto da parte del corpo (pensante?) docente, di cui faccio parte, affacciato dalla propria polverosa cattedra a osservare gli scatafasci delle nuove leggi e l’irrompere di nuovismi che travolgono…tutto.

E non dico mai una parola in più, per impormi un distacco necessario dal mio -attuale- lavoro, e per non confondermi con le becere e ipocrite lamentele di parte. Ma stavolta voglio lasciare anch’io una traccia. E viene dallo stomaco. Quello stomaco in cui, dopo averledovute ingoiare, restano tante cose: dichiarazioni di efficacia e modernità, scuole che crollano, didattiche mirabili, professori umiliati da presidi, genitori e studenti, progetti sulla legalità proposti a forza a studenti rinchiusi per 5 ore di supplenza che vogliono solo andare a casa, studenti disabili abbandonati a vagare nei corridoi, presidi incasinati dagli Uffici regionali, e via discorrendo (inutilmente, perché le orecchie, nella scuola, sono sempre più chiuse). Ma davanti al binomio MIUR-McDonald, il mio stomaco non ha resistito. Ed ecco qui il mio rigurgito.

L’incoerenza, signori: dalla “frutta nelle scuole”, progetti per l’educazione alimentare nelle primarie, ai diecimila percorsi (su catena di montaggio) di alternanza scuola-lavoro offerti dal colosso americano della carne alla caseina. Complimenti. Dalla fallimentarietà, verificatasi nell’anno scolastico scorso, dell’obbligatoria alternanza scuola-lavoro o, ad essere buoni, alle strutturali difficoltà di garantire decenti percorsi formativi di tale alternanza scuola-lavoro (difficoltà a trovare aziende sul territorio, impantanamenti burocratici per la stipula delle convenzioni, assenza di una lista ministeriale di realtà formative-lavorative accreditate sul territorio, tempistiche kafkiane da fine anno, ecc.), il Ministero sembra avere imparato una sola lezione: trovare in fretta grossi canali per garantire “sbocchi” assicurati, soluzioni facili ai numeri in rosso e ai tempi stretti.

Il contenuto didattico, il senso educativo? Poi ci pensiamo. Ma non si può continuare a restare in silenzio. Finché c’è una tensione al restringimento dei diritti dei lavoratori, un subdolo, strisciante impoverimento e snaturamento della didattica sotto le false spoglie dell’innovatività, sulla digitalizzazione teorica di tutto, anche delle scope nei corridoi (sempre che le reti wi-fi, a metà anno, riescano ad essere magari in funzione), ci sta pure: chi è convinto di detenere il potere in maniera così netta e incontrastata, mette in campo le proprie armi, e la controparte dovrebbe fare lo stesso.

Ma quando si arriva alla sfacciataggine, no: e bisogna dirlo chiaro e tondo. Partendo anche da ciò che sembra più distante dalla scuola di ogni giorno: l’alternanza scuola-lavoro, quei progetti di qualche centinaio di ore, magari da svolgere per finta in classe, o da realizzare “per far uscire i ragazzi”, quasi fossero – come certe volte, del resto, sono – carcerati long life learning , eccetera. Alla sola idea di affiancare un “postaccio” come il McDonald – e non la voglio chiamare di proposito “azienda di successo” – all’idea di “imparare”, di “crescere”, di “sviluppo della propria personalità” e alla locuzione “miglioramento delle proprie competenze”, all’idea di “scuola” nel suo senso più alto (che non è “istruzione” ma “apprendere”), tutti i docenti seri dovrebbero avere un impeto di indignazione (ancora più alto che per le proprie decurtazioni stipendiali o restrizioni lavorative, o i sempre più pesanti quanto assurdi carichi di lavoro).

McDonald’s è stata al centro di svariate campagne contro lo sfruttamento lavorativo, l’insalubrità dei propri prodotti e metodi di preparazione, le restrizioni contrattuali per i propri franchiser, la filiera di approvvigionamento dalla zootecnica più violenta e industrializzata, e inoltre rappresenta, certamente e senz’ombra di dubbio, simbolicamente, quella fame di “tutto pronto” e di benessere oltre ogni limite che è alla base della evidentissima stagione di decadenza di questa Europa, che è la nemesi storica dell’ossessione occidentale dell’accumulo di ricchezza: McDonald’s non è un faro di civiltà, un esempio da seguire, una realtà da riproporre.

McDonald’s è l’errore del consumismo elevato all’ennesima potenza, la soglia che non dovremmo oltrepassare, la fine della cultura alimentare, di cui l’Italia – non per vanto patriottico alcuno, ma per semplice costatazione della innegabile biodiversità e della millenaria storia alimentare di questa specifica zona del mondo – dovrebbe essere, essa sì, esempio diffuso da studiare ed approfondire. Bene: diecimila giovani sono pronti per essere immessi in atrettanti percorsi che li porteranno ad imparare cos’è il “lavoro” (come concetto e pratica, prospettiva concreta e spinta ideale, partecipazione al progresso della comunità) in “postacci”, ripeto senza tema, come questo. Tutto ratificato, signori, dal Ministero per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca. E con tanto di strombazzamenti.

Complimenti di nuovo. Invito i miei colleghi docenti ad altri “sbocchi” come questo.

Andrea Bitonto, docente

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