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Robotica creativa e didattica del “fare”

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Giovanna Giannone Rendo – Nel mondo odierno i computer sono ovunque e costituiscono un potente strumento di aiuto per le persone.

Per essere culturalmente preparato a qualunque lavoro che uno studente di oggi vorrà fare da grande, è indispensabile una comprensione dei concetti di base dell’informatica.

Il lato scientifico-culturale dell’informatica, definito appunto pensiero computazionale, aiuta a sviluppare competenze logiche e capacità di risolvere problemi in modo creativo ed efficiente, qualità che sono importanti per tutti i futuri cittadini.
Ci siamo accorti tutti del cambiamento epocale che ha modificato il nostro modo di essere e il nostro modo di fare. Nuovi scenari e nuovi ambienti di apprendimento sono entrati a far parte della vita quotidiana e con loro nuove metodologie si aggiungono alle tradizionali per un più moderno modo di insegnare. In questa nuova ottica, la scuola non poteva non essere riorganizzata per venire incontro alle nuove esigenze e lo ha fatto con il Piano Nazionale Scuola Digitale (PNSD), caposaldo della legge 107/2015 e documento di indirizzo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca per il lancio di una strategia complessiva di innovazione della scuola italiana e per un nuovo posizionamento del suo sistema educativo nell’era digitale

Nel dettaglio ci indica la strada con l’azione #16, attraverso l’obiettivo di apertura a nuove linee di ricerca e l’azione #17, il cui fine consiste nel portare il pensiero logico-computazionale a tutta la scuola primaria per preparare da subito i nostri studenti allo sviluppo delle competenze che sono al centro del nostro tempo e che domani saranno al centro delle loro vite e delle loro carriere.

Il modo più semplice e divertente di sviluppare il pensiero computazionale è attraverso la programmazione (coding) in un contesto di gioco, ma il pensiero computazionale altro non è che il pensiero progettuale già presente nell’approccio Montessori (Maria Tecla Artemisia Montessori nota educatrice e pedagogista, italiana) attraverso la “didattica del fare”.

“Aiutami a fare da solo” è il tacito modo dei bambini di rivolgersi agli adulti di riferimento, una richiesta che dovrebbe essere un’esortazione per noi educatori ad essere pazienti osservatori del percorso di maturazione che i bambini intraprendono da soli, nei modi e nei tempi più opportuni, quale impulso istintivo che li dirige ad apprendere attraverso la personale esperienza.

Gli studenti mostrano entusiasmo nella proposta sperimentale della materia da studiare, nel fare operativo. Ognuno di loro trova lo strumento più confacente al proprio stile di apprendimento e tutti raggiugono i propri obiettivi dimostrando la conoscenza del percorso proposto.

A questo si aggiunge la possibilità di integrare la robotica educativa fra le metodologie, quale approccio nuovo all’insegnamento che utilizza i robot, offrendo accanto allo sviluppo del pensiero computazionale, la possibilità di incrementare fortemente la motivazione ad apprendere.

I robot sono artefatti particolari perché simulano il comportamento di un essere vivente, uomo o animale; vengono pertanto percepiti come esseri dotati di un’intelligenza propria con cui si può comunicare e instaurare una sorta di “relazione”. Questo aspetto, dal punto di vista educativo, è molto potente perché, proprio grazie al legame particolare che si instaura fra l’oggetto e chi lo costruisce, contribuisce a creare una motivazione negli allievi, offrendo una possibile soluzione ad un problema generale dell’apprendimento, quello della contestualizzazione delle conoscenze.

L’idea di far gestire i computer ai ragazzi, fornendo loro manufatti che potessero manipolare facilmente e con i quali sperimentare, nasce dal Massachusetts Institute of Technology (MIT) e dalle idee innovative di Seymour Papert (matematico, informatico e pedagogista sudafricano) con il linguaggio LOGO, un linguaggio di programmazione fortemente orientato alla grafica e alla geometria di base.

Un modello che ha caratterizzato alcuni elementi nell’apprendimento e nell’insegnamento con la robotica educativa, come apprendere per scoperta, esplorare attraverso problem solving, riconoscere il ruolo positivo dell’errore.
L’apprendimento per scoperta cambia la modalità tradizionale di insegnamento: l’allievo a cui si propone un percorso di robotica è continuamente chiamato a risolvere problemi, deve scoprire cosa succede, verificare concetti e in questo caso il docente avrà una funzione di guida e coordinamento.

Sbagliare diventa d’obbligo; l’errore non è qualcosa da nascondere, ma un’opportunità di crescita attraverso il “debugging”, ovvero il processo di individuazione e correzione dell’errore.

Quando diamo dei comandi possiamo vedere nell’immediato cosa accade e, quando i nostri robot si comportano in modo differente da quanto richiesto, comprendere se abbiamo sbagliato.

Questo è un momento di riflessione perché ci fa capire che dalla correzione dell’errore nascono nuove idee e si impara meglio a risolvere i problemi e a padroneggiare la complessità.

Progettare e costruire un robot viene percepito dai giovani allievi come un gioco, ma in verità si tratta di gioco che diventa ambiente e contesto di apprendimento; non si pensa solo al divertimento, ma si parte da questo per giungere alla metacognizione.

Il prodotto finale non è l’acquisizione di abilità scolastiche di base, ma un funzionamento cognitivo autonomo, cioè un corretto orientamento nello spazio e nel tempo, un controllo ricco e completo del linguaggio, la maturazione di abilità sociali, la capacità di progettare, di fare.

Autonomia e sviluppo del pensiero critico, l’unione di libertà e responsabilità rappresentano il fine del percorso affinché i giovani siano adulti autonomi, liberi e responsabili di compiere scelte rispettose degli altri, di se stessi e del mondo circostante.

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