La proposta (Inpef): passare dal docente di sostegno all’educatore che segue alunno anche fuori da scuola

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‘Sostegno’ è una parola che va declinata in ogni fase della vita, non può restare confinata al solo ambito scolastico né ai soli momenti dell’infanzia e della senilità.

‘Sostegno’ è una parola che va declinata in ogni fase della vita, non può restare confinata al solo ambito scolastico né ai soli momenti dell’infanzia e della senilità.

E’ questa la battaglia che Vincenza Palmieri, Presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, porta avanti da anni e di cui ci parla in questa intervista.

Dottoressa Palmieri, lei sostiene che l’insegnante di sostegno dovrebbe trasformarsi in un “educatore di sostegno”, presente nella vita del bambino disabile anche e soprattutto al di fuori della scuola. Ci vuole spiegare un po’ meglio questa sua idea? E’ soltanto una provocazione o una proposta?

“La proposta è seria, ci lavoriamo da anni nella convinzione che le famiglie con figli disabili dovrebbero essere supportate in ogni momento della giornata e dell’anno, non soltanto a scuola. Un bambino con disabilità conclamata trascorre, infatti, in classe solo una parte minoritaria del suo tempo, mentre è al di fuori che trova il maggior numero di ostacoli e di limitazioni, pensiamo alle palestre, alle colonie estive, ai villaggi turistici, ai cinema, ma anche agli ipermercati, tutti luoghi che al di là delle barriere architettoniche presentano vere e proprie barriere organizzative che finora è stato difficile se non impossibile abbattere. Un sostegno di questo tipo dovrebbe essere pensato lungo tutto l’arco della vita dell’individuo, e non solo in corrispondenza dell’infanzia o della vecchiaia, e chiaramente atterrebbe soprattutto all’ambito delle politiche sociali e non esclusivamente a quello dell’istruzione. ”.

In effetti i docenti di sostegno oggi lavorano nel campo dell’istruzione e i loro obiettivi sono modellati su quelli dei docenti curricolari, ma questo è pure un momento in cui si discute molto della loro formazione. E’ soddisfatta del percorso attuale per diventare insegnanti di sostegno?

“Senza cadere in una eccessiva medicalizzazione del corpo docente, penso che il personale della scuola debba poter contare su una solida formazione in grado di metterlo in comunicazione con i bisogni delle famiglie che hanno ragazzi con handicap e l’attenzione a questi temi deve necessariamente partire dai moduli universitari. Dalla mia esperienza di docente a Scienze della Formazione Primaria e nelle SSIS, mi sento di contestare in primo luogo il cosiddetto semestre aggiuntivo per il sostegno, un tempo troppo limitato per acquisire la professionalità necessaria a trattare un universo complesso come quello delle disabilità. Inoltre, il sostegno è ancora in molti caso visto come scorciatoia per essere assegnati alla classe e, pur essendoci tra gli insegnanti di sostegno grandissime professionalità, abbiamo anche una grande casistica di persone che hanno sostenuto l’insegnante di classe più che il bambino”.

Questo però è stata la normativa stessa a incoraggiarlo, proprio nel timore che il docente di sostegno venisse pensato come un assistente specialistico del ragazzo.

“Sì, questo è vero, c’era il fondato timore che il docente di sostegno venisse emarginato, vivendo il suo lavoro in disparte rispetto agli altri membri del Consiglio di Classe. Spesso, fortunatamente, non è stato così e il lavoro in équipe è oggi realtà nelle scuole molto più di quanto lo fosse venti o trent’anni fa, giovando anche a chi lavora con la disabilità”.

La soddisfa la proposta di legge AC 2444 portata avanti dalle associazioni FISH e FAND e sostenuta dal PD, in base alla quale dovrebbe esserci un allargamento delle competenze sull’inclusione a tutti i docenti curricolari e un separazione delle loro carriere da quelle dei docenti di sostegno?

“Condividiamo sicuramente l’idea che tutti i docenti debbano poter comunicare con tutti gli allievi, non può esserci nessuna azione di educazione e formazione senza un adeguato livello di ascolto e di comprensione, ma, ribadisco, dobbiamo fare attenzione a non medicalizzare l’insegnamento, a non costruire una classe docente che vada a fare diagnosi a tappeto nelle scuole, mentre la priorità deve restare quella di formare professionisti che sappiano prendere in carico il disagio elaborandolo con le famiglie in un lavoro di rete. La separazione delle carriere è un’ipotesi di lavoro estremamente interessante, ma deve consentire anche possibilità di ritorno”.

L’Italia ha sempre avuto molto da insegnare agli altri Paesi europei in fatto di integrazione, eppure ogni tanto si viene a sapere di istituti in cui si creano piccole classi speciali con 5-7 alunni disabili per 1-2 insegnanti di sostegno. Come giudica simili situazioni?

“Sarebbe interessante capire quali sono stati i risultati di simili ‘sperimentazioni’, il punto vero è che il nostro Paese ha completamene rimosso la lezione della scuola di Barbiana, mentre ci abituiamo a creare separé per tutte le categorie di persone che non corrispondono ai canoni della normalità: i migranti, i disabili, i rom. Quello del ghetto è ormai un tema politico e l’impressione è che la scuola sia in questo specchio fin troppo fedele della società. Per concludere, vorrei sottolineare ancora una cosa che mi sta molto a cuore: il tema del sostegno alla disabilità dei bambini e dei ragazzi si incrocia con quello generale dei servizi all’infanzia e all’adolescenza: purtroppo nel nostro Paese al buon input costituito dalla Legge 285 del 97 non sono seguiti atti normativi in grado di portarci a un vero ascolto dei bisogni e dei disagi dei bambini e dei ragazzi, ne sono drammatica testimonianza anche i gravi fatti di cronaca di questi giorni”.  

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