Valutare gli insegnanti non serve, anzi può essere dannoso. Prove Invalsi restino negli esami

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“Valutare le scuole non gli insegnanti”, lo sostiene Paolo Sestito, ex Presidente dell’INVALSI, ne La scuola imperfetta. E' la strada da seguire per far tornare l’Italia tra i big.

“Valutare le scuole non gli insegnanti”, lo sostiene Paolo Sestito, ex Presidente dell’INVALSI, ne La scuola imperfetta. E' la strada da seguire per far tornare l’Italia tra i big.

In che misura il nostro sistema formativo può ritenersi responsabile dell’indebolimento delle competenze degli italiani giovani e adulti? Perché abbiamo esaurito nel giro di pochi lustri la propulsione dinamica che nel Dopoguerra ci ha proiettati tra le prime potenze industriali del mondo? Quanta responsabilità spetta, invece, al mercato del lavoro? Sono queste le domande da cui il volumetto edito dal Mulino, intrecciando suggestioni provenienti dalla letteratura sociologica ed economica, prende le mosse per arrivare molto velocemente, e a più riprese, alla sua tesi di fondo: in realtà siamo finiti in un circolo vizioso, la scarsa dotazione di capitale umano ben attrezzato culturalmente (ma anche cognitivamente?) induce le imprese e la società a puntare su altri elementi quali fattori di successo, elementi che però deprimono l’espressione della creatività e del talento.

Per uscire da questo impasse l’unica strada è puntare al miglioramento del sistema formativo. Forse nel timore di non essere compreso appieno, Sestito è molto attento a ribadirlo spesso, come all’inizio del quarto capitolo, quello più complesso e forse più pregnante: “ La bassa qualità del capitale umano degli italiani pone a rischio le prospettive future dell’Italia e richiede di investire di più, e soprattutto meglio, nel funzionamento del sistema educativo; è solo in tale ambito che, pur non potendo avere una funzione salvifica, la valutazione e quindi anche l’INVALSI possono giocare un ruolo importante”.

Dall’ex Presidente dell’Invalsi oggi responsabile del Servizio Struttura Economica della Banca d’Italia ci si sarebbe aspettati, forse, una apologia smaccata del ruolo dei test standardizzati nella valutazione diretta dell’operato dei docenti. Invece il ragionamento, ribadendo certo la buona capacità misuratoria delle prove e il loro diritto di cittadinanza all’interno degli esami di fine ciclo (“la presenza di elementi standardizzati negli esami è un elemento che tende a migliorare le performance”), è anche molto attento a porre in evidenza i limiti di un uso improprio di esse – nel tentativo di lenirne la valenza ‘punitiva’ esacerbata forse anche dallo scivolone di qualche ministro – e a sintetizzare le principali obiezioni che oggi si muovono all’applicazione delle logiche di mercato al settore dell’istruzione e alla definizione del cosiddetto ‘capitale umano’.

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Investire di più e meglio: a proposito di questo punto ci sembra interessante rilevare che sono negativi i giudizi sull’abbandono frettoloso del Quaderno bianco di Fioroni e Padoa-Schioppa (in cui facevano capolino la prima volta la valorizzazione della carriera dei docenti e l’introduzione di un sistema nazionale di valutazione in grado di identificare in quali scuole si dovessero concentrare gli sforzi di supporto) da parte del successivo governo di centro-destra, che dal canto suo non ha mai fatto una scelta esplicita di governance della scuola, e il netto sbilanciamento a favore dell’introduzione di meccanismi premiali per la differenziazione retributiva dei docenti, ipotesi a cui Sestito, è nettamente sfavorevole. Su questo punto l’autore prende, infatti, molto alla svelta le distanze anche dai ministri Carrozza e Profumo, che hanno lasciato aperta la strada a un utilizzo dei dati INVALSI per la valutazione e addirittura la retribuzione dei docenti, minando quella propensione al lavoro di squadra così fondamentale e vitale per il buon esito della sfida educativa. Una posizione a nostro avviso molto equilibrata e condivisibile in un momento in cui un parte importante delle forze sociali e anche delle lobby politiche mostra un discutibile sbilanciamento a favore della valutazione dei docenti singoli (negli ultimi giorni sostenuta in modo perentorio anche dall’associazione Trellle), la quale – continua il Dirigente della Banca d’Italia – ha dubbia utilità se riguarda personale già in ruolo, mentre è sull’accesso alla professione e sulla stabilizzazione che occorrerebbe fare scelte più coraggiose.

Vi è, poi, all’interno del volume un’esplicita confutazione dell’idea che le sole logiche di mercato possano migliorare il sistema (non servirebbe a nulla mettere gli istituti in concorrenza tra loro, poiché a muoversi alla ricerca della scuola migliore sarebbero solo i genitori più ricchi, “col rischio che nelle scuole peggiori restino gli alunni più difficili e meno motivati, con accrescimento delle disuguaglianze interne al sistema”), mentre un’importante azione riequilibratrice potrebbe essere svolta dalla valutazione esterna, strumento di pressione sociale il cui scopo è stimolare l’azione di miglioramento delle singole scuole più che quello di certificare il ‘rango’ della scuola stessa.

Tra i tanti temi affrontati che potranno suscitare l’interesse dei nostri lettori citiamo ancora la diatriba tra conoscenze disciplinari e competenze, tra abilità cognitive e non cognitive (quali devono essere l’oggetto della valutazione?), l’accenno alla disputa sui vantaggi della pedagogia cosiddetta ‘progressiva’ (per intenderci, quella che mira al coinvolgimento dell’alunno) contro quella tradizionale, ancorata a un modello trasmissivo del sapere e criticata ormai da più parti perché metterebbe scarsamente in gioco le abilità critiche e il pensiero divergente degli allievi (ma sarà veramente così? Sestito coraggiosamente ricorda – ma lo fanno in pochi – che sono tutt’altro sicure le evidenze della superiorità del modello ‘progressivo’ sull’altro).

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Dopo le tante cose positive che abbiamo elencato, quello che si potrebbe rimproverare a questo testo è la mancanza di una vera pars construens. L’analisi dei problemi è lucida e scandita con acribia, come anche l’indicazione di qualche punto saldo da cui non deviare, ma per esempio è un po’ timido, e non sappiamo perciò quanto convinto, il suggerimento del ritorno alla proposta di riordino dei cicli fatta da Luigi Berlinguer ormai più di venti anni fa, come anche è solo accennata l’ipotesi di un sistema di finanziamento in cui a ciascun alunno venisse assegnata una ‘dote’ che lo seguisse da una scuola all’altra, pure abbinato a interventi equitativi in grado di compensare le condizioni di svantaggio di partenza (“si teme che in un meccanismo di mercato i (figli dei) ricchi abbiano maggiori chance a proprio favore… Un meccanismo di mercato ben potrebbe coesistere con un finanziamento totalmente pubblico della scuola e con una “equalizzazione” delle risorse a disposizione dei vari utenti”).

Il baricentro dell’ultimo capitolo si sposta, infine, a indagare il legame tra scuola e mondo delle imprese, spiegando in maniera agile l’evoluzione del mercato del lavoro negli ultimi venti anni e il cuore del circolo vizioso che sta minando la tenuta della nostra economia: sono le aziende a doversi accontentare di giovani sempre meno istruiti perché è la scuola a formarli così, oppure è la scuola a vedersi costretta ad abbassare i propri obiettivi perché tanto il mondo del lavoro di giovani brillanti e competenti non sa cosa farsene? La domanda più nevralgica è quella di pag. 137: ma esiste una vera domanda di capitale umano in Italia? Bisogna trovare una risposta il prima possibile, ecco l’altra tesi del libro, perché presto potrebbero venire meno quelle condizioni storiche che hanno fruttato al nostro Paese un vantaggio in termini di competitività col resto del mondo: “la tenuta dell’appeal del brand Italia è qualcosa su cui non fare eccessivo affidamento”.

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