Studente cieco, alla maturità prende 100. Il ruolo del sostegno sul successo dello studente

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La Buona scuola è la scuola vista con gli occhi di Andrea. Diciannove anni, timido quanto basta ma sempre più sicuro di sé, un’intelligenza rara e una voglia matta di buttarsi nel settore della Ricerca e sviluppo.

La Buona scuola è la scuola vista con gli occhi di Andrea. Diciannove anni, timido quanto basta ma sempre più sicuro di sé, un’intelligenza rara e una voglia matta di buttarsi nel settore della Ricerca e sviluppo.

Ora che si è diplomato e che l’università dista solo un paio di mesi, Andrea sente molto vicina la realizzazione del sogno di potere un giorno investire le propria bravura attuale e le competenze future nella produzione di nuove tecnologie capaci di migliorare la vita a chi, come è capitato a lui, s’è trovato presto costretto a convivere con la malattia.

La Buona scuola è la scuola che consente ad Andrea Sposito, classe 5C Sezione “Sistemi informativi aziendali” dell’Istituto tecnico economico “Barozzi” di Modena, di conseguire il diploma di maturità con il massimo dei voti: 100/100 con una tesina dedicata alla cecità.

“Il mondo visto con occhi diversi. L’ipovisione e la cecità: come l’ausilio informatico ha rivoluzionato la vita di chi ne è affetto”.

Titolo e sottotitolo sintetizzano la storia del ragazzo di Formigine, affetto fin da piccolo dalla retinite pigmentosa, una malattia degenerativa che si è pesantemente aggravata negli ultimi tempi, da lasciargli solo un ventesimo del mondo visto ogni giorno dagli altri. Ogni giorno. Perché di sera, racconta lui, “non ci vedo proprio ma non c’è problema, perché c’è sempre qualcuno che si offre per portarmi a casa”.

La Buona scuola è la scuola di Andrea di Formigine e le tante, tantissime, che ogni giorno, spesso in situazioni di carenza e senza far rumore, consentono a tutti gli Andrea d’Italia di iniziare l’avventura dell’istruzione.

Di iniziarla in condizioni di uguaglianza sostanziale, grazie agli insegnanti di sostegno, agli educatori, agli ausili tecnologici, strumenti che attenuano e talvolta annullano “gli ostacoli che di fatto…” (con quel che segue nel secondo comma dell’art. 3 della Costituzione, norma che lui ha diligentemente citato, commentato e apprezzato nella tesina, unitamente a quelle della Legge 104) gli avrebbero impedito quella parità iniziale, ieri, e il successo meritato oggi.

“Tutta roba sua, niente sconti, nessuna riduzione di programma”, assicura la sua insegnante di sostegno, Lisetta Bulgarelli, alla notizia del risultato eccellente (“non me l’aspettavo”), che fa pure commuovere mamma Graziella, testimone di tante sofferenze non finite e che vuole riconoscere “il merito alle scuole pubbliche frequentate dal figlio, per il loro supporto e per il loro sostegno”.

La Buona scuola in genere non si vede ed è invece la normalità per chi ci lavora: in questo caso e in casi analoghi gli insegnanti di sostegno, gli educatori mandati e pagati dai Comuni, pur in preda ai patti di stabilità, alle Asl che pure dovrebbero fare di più. In altri casi lo svantaggio è nella lingua e ci riferiamo alle centinaia di migliaia di alunni di nuova immigrazione, catapultati nelle aule senza conoscere una parola d’Italiano e che – pure – riescono a mettersi in gara in pochi mesi, grazie al lavoro straordinario (in tutti i sensi), non conosciuto, mal pagato eppure svolto con entusiasmo, dedizione ed efficacia dagli insegnanti di Lettere, come abbiamo riferito in un altro servizio. La Buona scuola stavolta parla con gli occhi di chi proprio a scuola si accorge della malattia.

Fu alle elementari, è così?

“E’ così. Non sapendo della malattia, mi sforzavo molto per leggere, poi alle medie siamo riusciti a scoprirne l’esistenza. Mi dettero l’ausilio informatico, i libri digitali, il sostegno”.

La malattia ha inciso nei rapporti sociali?

“Sono stato sempre molto timido, ma alle superiori è andata molto bene con compagni e docenti”.

Com’è il mondo che vedi e come vedi il futuro?

“Dire ciò che vedo e ciò che non vedo è veramente difficile, probabilmente non ho mai visto bene dalla nascita però sono molto autonomo, giro quando posso anche da solo ma la sera non vedo più nulla e allora c’è sempre qualcuno che si offre di accompagnarmi a casa. So che la retinite pigmentosa è una malattia degenerativa ed essendo tale sono peggiorato negli anni specie in questi ultimi tempi, c’è stato un gran peggiornamento”.

Eppure l’ottimismo non ti manca.

“Sinceramente, penso che chi non accetta la propria malattia non è in grado neppure di vivere. Accettare o meno la malattia non ti fa guarire. Io la vivo con filosfia, questa cosa non mi abbatte”. Va bene tutto, ma come si fa ad arrivare a 100, con un programma uguale a quello degli altri, senza riduzioni, senza sconti?

“Bella domanda, io non lo so. E’ stato merito di tutti i mei professori perché mi hanno supportato e insegnato molto bene, un po’ è stato il mio impegno”.

Ti piace studiare?

“Oddio, dire che mi piace è un po’ troppo, diciamo però non mi fa paura. Nemmeno il pensiero dell’impegno richiesto dall’università mi mette paura. So che all’università si vorrà molta costanza e molto studio. Sarà dura ma, ripeto, non ho paura”.

Ti attendevi il risultato?

“No. In genere preferisco evitare il rischio di rimanere deluso”.

Quant’è stato importante la scuola per te?

“La scuola ha avuto un gran ruolo. La scuola mi ha fornito gli ausili informatici ed è stata disponibile nei miei confronti. La prof di sostegno assieme all’educatore del Comune nel corso degli anni mi hanno aiutato a crescere, nel senso che ho imparato in un certo senso a essere autonomo nelle cose ad essere indipendente a casa”.

Si può dire che tu sia stato un caso di successo per la scuola?

“Credo proprio di sì”.

Come sarebbe stata una scuola senza l’insegnante di sostegno?

“Sarebbe stata più dura. Non dico che non ce l’avrei fatta, però sarebbe stata più dura.

Cosa vuoi fare da grande?

“Vorrei lavorare nella Ricerca e sviluppo”.

Vorresti contribuire, dici, al miglioramento della vita di chi ha bisogno di nuovi ausili tecnologici. Cosa manca, secondo te?

“Non saprei. Fino a tanti anni fa non si sapeva dei telefoni. Ora usiamo gli smartphone. Pertanto non saprei oggi cosa si potrebbe sviluppare tra qualche anno”.

Quale tema hai scelto il giorno degli esami?

“Ho svolto il tema tecnologico e ho trattato di come la tecnologia influenza nel bene e nel male la nostra società”.

E come la influenza?

“La influenza certo in positivo tuttavia noto una forte dipendenza dei giovani, ho scritto che è difficile uscire di casa senza telefono. La tecnologia può aiutare, certo, ma l’eccessiva dipendenza può diventare negativa perché si rischia di diventare asociali e di perdersi molti amici. Sono importanti quelli virtuali ma in quel caso è molto più difficile trovare il contatto fisico e quello visivo”.

Intervista a Lisetta Bulgarelli,  l’insegnante di sostegno di Andrea Sposito. Lo ha seguito dalla seconda superiore e fino agli esami di quinta, l’altro ieri. Il ragazzo ha dunque goduto di una buona continuità didattica ed è stato affiancato anche da un educatore finanziato dal Comune, una figura denominata Pea, Personale educativo assistenziale, previsto dalla legge.

E’ così, professoressa?

“Andrea ha avuto un educatore fin dalle medie. Per lui è stato un punto di riferimento. Inoltre ha avuto più ore rispetto alle mie nove ore e questo è stato positivo”.

Una figura importante, ma è anche obbligatoria e diffusa?

“Mah, da quanto sento parlando con i colleghi, almeno al Nord si fa ricorso a queste figure previste e impiegate nelle scuole. Sono molto importanti perché danno un ausilio all’insegnante di sostegno, forse al Sud, sempre da quanto sento, vengono impiegati con un numero inferiore di ore. In Emilia gli aiuti sociali dei Comuni sono sviluppati”.

Che non può sostituire quella dell’insegnante di sostegno.

“L’insegnante di sostegno è una figura di coordinamento di altri soggetti. Ha una determinata formazione, è specializzato, ha studiato psicologia, pedagogia, ha curato in particolare le strategie per agevolare lo studio nelle persone con deficit. Il deficit è una mancanza di qualcosa che poi provoca lo svantaggio, cioè l’handicap. Nel caso di Andrea io mi son trovata con un ragazzo intelligente e anche maturo che ha questo deficit sensoriale ma anche delle capacità di ragionamento ottime. Tra l’altro è anche migliorato negli anni, ha acquistato sicurezza. Negli ultimi due anni, poi, ha fatto un salto di qualità nella capacità di studiare, è diventato autonomo. Ha avuto dei compagni molto solidali con lui, molto disponibili, e i professori hanno sempre cercato di creare le migliori condizioni. Ha svolto gli stessi progtammi ministeriali. Non ha avuto sconti. Ha solo usato le nuove tecnologie”.

E sono state determinanti.

“Ha sempre avuto il personal in classe per svolgere gli esercizi, prendere gli appunti, svolgere le verifiche. Essendo ipovedente non è in grado di leggere sui fogli cartacei e nemmeno alla lavagna. Riesce a leggere sullo schermo del pc con un software che gli ingrandisce i testi e dotato di sintesi vocale. Noi figure di sostegno lo abbiamo anche aiutato a prendere appunti di quanto scritto alla lavagna. Ha un residuo visivo limitato che gli consente di leggere e di scrivere solo con il computer. E’ autonomo ma si affatica, sforza la vista”.

Per vari motivi la classe era formata da 12 alunni. Quanto ha inciso il non sovraffollamento dell’aula?

“Ha inciso positivamente, i docenti si sono rapportati con tutti gli alunni seguendo un percorso quasi personalizzato, e per lui è stato decisivo”.

Lei è testimone da un altro successo del sostegno e della scuola italiana. Stavolta si tratta di suo alunno ultraquarantenne che ha frequentato il corso serale, entrato in condizioni molto critiche a scuola sette anni orsono e diplomatosi nel 2014 con risultati ritenuti sbalorditivi anche in termini di acquisita autonomia, vivendo da solo.

“E ora fa l’università. E’ autonomo. Il sostegno è importante. Ma sto pensando alle modifiche che stanno per essere introdotte, pare che il sostegno sarà rivisto, che coinvolgerà tutti i docenti curriculari e non si comprende quale sarà il nostro ruolo. Io dico che è giusto che in un discorso sull’inclusività si debbano coinvolgere i docenti delle materie. Detto ciò non si può rinunciare ai professori di sostegno perché sono figure che si sono formate in questo compito e fanno da internediari tra il ragazzo e gli altri soggetti quali i docenti, le Asl, gli educatori, la famiglia. Qualora si pensasse a una sua abolizione o a un superamento occorrerebbe preparare i docenti curriculari, insomma bisognerebbe cambiare tutto”.

Cosa risponde a chi sostiene che il sostegno è stato visto spesso come una scorciatoia per passare di ruolo sulla materia comune?

“Intanto hanno raddoppiato a dieci anni il vincolo quinquennale di rimanere sul sostegno prima di passare alla materia comune. Io in questo vedo una limitazione della libertà degli insegnanti. E’ un’esperienza che ti forma e che verrà spesa bene a vantaggio della classe quando passerai sulla disciplina e dunque non deve essere intesa come una scorciatoia. L’unico aspetto che condivido, ripeto, è l’esigenza di formare sul sostegno i docenti curriculari perché molti non sono preparati sulla legislazione e sugli aspetti didattici. Se i docenti curriculari faranno dei corsi sul sostegno sarà positivo. Poi occorrerebbe cambiare le metodologie”.

Cioè?

“Alcune importanti e innovative metodologie sono molto conosciute in altri paesi ma qui non ci sono. La lezione dovrebbe essere più coinvolgente. Penso alle lezioni partecipate, al cooperative learning, al problem solving. Nelle nostre scuole si adoperano solo in minima parte eppure sarebbero molto utili per i ragazzi certificati. Favorirebbero l’integrazione nella classe dei ragazzi con svantaggio, che invece acquisirebbero un ruolo attivo. Spero che si arrivi a un rinnovamento”.

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